Domanda: qual è il criterio per dire cos’è arte e cosa no?
È iniziato così, con una domanda a bruciapelo come questa, il dialogo con i ragazzi delle cinque classi dell’artistico del Sacro Cuore, a Chioggia, dove erano in (intelligente) vacanza studio perché hanno visto la Biennale.
È un dialogo che mi colpisce, perché si coglie tanta passione, tanta intelligenza e tanta apertura anche a ciò che non viene immediatamente capito.
La domanda un po’ spaventa, perché sembra ingenua, sembra chiedere uno schema in cui adagiarsi, in realtà colgo un desiderio esattamente opposto. È il desiderio di non farsi sfuggire qualcosa di prezioso, di non riuscire ad intercettare il senso di forme impreviste.
Non ci son formule per rispondere. C’è un’esperienza da costruire, in cui oggettività e sguardo soggettivo si trovino sempre in scambi, in movimento. L’oggettività è sempre un fattore di osservazione e di conoscenza. La soggettività è lo sguardo, la storia personale. L’opera d’arte infatti non è l’oggetto in sé ma l’intensità della relazione che determina. Non è un’astrazione che esiste indipendentemente da chi la guarda. E il guardarla implica pazienza, curiosità, consapevolezza che non c’è un punto di arrivo nella comprensione. Ci sono emozionanti salti in profondità, in un percorso di scoperte continue, perché dati oggettivi si aggiungono e sguardi mai uguali si posano.
Tra i dati oggettivi c’è anche lo sguardo degli altri: quello che gli altri hanno riconosciuto in quell’opera; c’è quello che quell’opera ha disseminato nella loro sensibilità. È sempre la curiosità che muove a fare domande, a capire perché un’opera sta lasciando un segno, anche se a prima vista non accende il nostro interesse.
Il giudizio estetico matura e si consolida dentro questo percorso che fa dialogare l’istintività (inevitabile, non va castrata, bisogna però indurla a lottare) con tutti questi elementi che costituiscono il “mondo” di quell’opera.
Cosa si scopre alla fine (che fine non è mai) di questo percorso? Che l’arte è una dimensione indagata da sempre, calata nel corpo del tempo presente e perciò espressa, incarnata dentro una forma sempre necessariamente nuova. L’arte è ogni volta una scommessa su questa forma, che non ha obblighi se non quella di costituirsi in forma e di non essere una forma che già è stata. L’arte è sempre un rischio, perché il terreno su cui si inoltra è per destino inesplorato.
PS: mi verrebbe da dire che queste forme hanno dentro un’anima. So che la formulazione è tremendamente banale. Ma come altro rendere l’idea che all’inizio di tutto c’è un fattore da cui si genera tutto? E questo fattore non è altro che la “sensibilità”, dono specialissimo e imprevedibile nei suoi sviluppi, che il padreterno ha fatto quel tipo d’uomo che chiamiamo artista.
(Yves Klein aveva molto chiara l’oggettività di questa condizione, al punto che per farsi capire, una decise di vendere solo un po’ di sensibilità a peso: l’arte era lì…)