Un regalo inatteso da Casa Testori per i miei 60 anni. Hanno curato (benissimo da Luca Fiore: pensate, c’è anche l’indice dei nomi!) una selezione di testi di questo blog e ne hanno fatto un libretto, nobilitato da due postfazioni di Giovanni Agosti e Davide Dall’Ombra. Inutile dire la commozione per le cose che hanno scritto, e l’imbarazzo di vedere questi testi “volanti” depositati nella solidità così nobile della, da me amata, carta. Con la scelta elegantissima della testa di giovanetto di Luca Della Robbia in copertina. Mi dicevo oggi che, io per me, non l’avrei mai fatto. Ma ormai è stato fatto per la generosità di tanti amici e quindi, come si dice, si deve ballare… Chi lo vuole lo può chiedere all’Associazione. Mail info@casatestori.it
Se sarà utile ne son solo felice. Un grazie alle insostuibili Francesca (Ponzini) e Marta (Cereda). E un grazie ad Alessandro e a Massimiliano, alias Typello.
(Comunque Casa Testori è davvero un bel laboratorio. Quante cose sono uscite da lì in questi cinque anni!)
E ora si balla con Robe da chiodi
Christo non è là dove t’aspetti
Sabato a Pilzone d’Iseo, per incontrare e intervistare Christo. È qui com’è ben noto per mettere a punto il grande progetto di Floating piers, la passerella che collegherà per 14 giorni Montisola con la sponda, girando anche attorno all’isolino di San Paolo. 16 metri di larghezza, tutta coperta di un tessuto di un giallo cangiante, capace di accogliere 17mila persone insieme, questo molo galleggiante di 3 km, s’annuncia come uno spettacolo. Per ora l’idea sta tutta precisa, al millimetro, nella testa di quest’uomo magro, dinoccolato, che porta con leggerezza i suoi 80 anni e il dolore di non aver più con sé la compagna di tutta la vita, Jeanne Claude. Non dico quello che mi ha detto, che è materia da curar bene nell’intervista. Dico quello che non ha detto, ma che mi è parso molto evidente. Che davanti ad un grande artista è inutile presumere di aver capito, perché la sua immaginazione è sempre scostata rispetto a dove l’avevano collocata. Che è inutile presumere di aver capito, perché le ragioni dell’opera non sono mai quelle che noi avevamo pensato. C’è uno iato tra quello che un artista ha nella testa e quello che noi abbiamo pensato di lui e della sua opera. E in questo iato c’è la bellezza, la sorpresa, lo spiazzamento che l’arte produce. Nello specifico mi ero preparato per ragionare con lui di arte pubblica, di arte partecipata, ma lui mi ha respinto senza neanche bisogno di affrontare l’argomento. Lui è altrove. Ha nella testa un qualcosa pieno di sole, come una scia di sole, da depositare sull’acqua il giorno del solstizio d’estate. Questo è quanto, inutile mettere etichette. Inutile trovare altre ragioni. L’unica ragione è solo quella poetica.
Perché l’arte contemporanea ha fatto breccia al Meeting
Ci sono tante riflessioni che si possono fare in merito al successo davvero inatteso della mostra portata al Meeting di Rimini sull’arte contemporanea (20mila visitatori in sei giorni, cataloghi esauriti in quattro…). Provo a riassumerne alcune.
1. L’arte contemporanea si è dimostrata in grado di far breccia in un pubblico normale sostanzialmente digiuno da frequentazioni con mostre e biennali varie in parte anche più o meno prevenuto. Perché fa breccia? L’arte contemporanea ha come caratteristica quella di dover trovare sempre nuove formule per dire cose che sono molte volte cose di sempre. Ma in questo scovare formule nuove produce un effetto spiazzamento che colpisce, che sollecita emotivamente, che mette in movimento intelligenze e sensibilità. Tra i commenti, tanti, che hanno costellato la mostra, uno mi è sembrato particolarmente azzeccato: l’esperienza della mostra provocava una sorta di “decentramento” nelle persone. È quello suscitato da chi ammette di essere stato portato a vedere le cose da un punto di osservazione del tutto imprevisto, ma molto più acuto e profondo di quanto prevedessimo. Uno sguardo, quello suggerito dagli artisti, che non smantella il nostro ma lo rimette in movimento. Alla ricerca. Tener vivo il fuoco, come recitava il titolo, vuol dire proprio questo. Per tenerlo vivo non ci si può ripetere, si deve essere sempre nuovi… È il pubblico ha capito il fascino di chi si prende il rischio di inoltrarsi nel “nuovo”.
2. Se ha fatto breccia è anche grazie al dispositivo della mostra prevedeva una narrazione delle opere, che quindi invece di blindare le opere nell’enigmaticità di linguaggi critici incomprensibili, forniva delle chiavi, delle ipotesi per entrarci. Non era un dispositivo critico, quindi, ma semplicemente narrativo, che poi lasciava al visitatore la libertà di approfondire e di farsi coinvolgere.
3. L’arte è sempre stata “bene comune” anche quando principi e papi ne incameravano il meglio nei loro palazzi. Ma le chiese, le piazze hanno sempre parlato a tutti, e per tutti. Bernini ha riplasmato Roma cambiando l’immaginario della città. Michelangelo il David lo ha messo in piazza. Giotto e Masaccio erano fruibili da tutti. Ora non si vede perché nel nostro tempo, che vorrebbe essere il più democratico ed egualitario, l’arte debba essere diventata materia di pochi. Affare per un’élite. Roba da cerchio magico. La mostra di Rimini riporta l’arte davanti allo sguardo e al giudizio dell’uomo comune. La rimette in piazza. Credo ci sia da guadagnarci per tutti.
Biennale 2015. Vademecum per una Biennale da non perdere
Il primo segno di questa Biennale sono le voci. Come la voce che ti accoglie sin dal prologo dove all’ingresso del padiglione centrale ai Giardini è stato “installato” Fabio Mauri. È la voce di Pasolini (che compare in una foto su tela con Mauri stesso) che legge La Guinea. Voce sottile, tagliente, pudicamente ultimativa. Voce che propone il primo confronto con la storia:
«L’Europa è così piccola, non poggia
che sulla ragione dell’uomo, e conduce
una vita fatta per sé, per l’abitudine,
per le sue classicità sparute».
Seguono poi le voci ininterrotte che popolano l’Arena, spazio centrale progettato da David Adjaye, vero fulcro di questa Biennale, dove sotto la regia di Isaac Julien si procede alla lettura del Capitale di Marx, ma dove s’alternano tante altre voci, a tenere sempre pieni e soprattutto vivi questi spazi.
È una Biennale forte questa di Okwui Enwezor. Una Biennale senza fronzoli, che pone la questione del futuro affrontando i nodi irrisolti del passato, dei tanti passati del mondo. La Biennale non va mai approcciata con l’idea di capire tutto: è un’esperienza un po’ immersiva, in cui bisogna lasciarsi anche un po’ andare. Le resistenze preventive vanno lasciate da parte.
Alla Biennale bisogna sempre mettere in conto di vedere cose belle e cose meno belle. Un po’ di “paccottiglia” finisce sempre, inevitabilmente, nel pacchetto… Ma questa Biennale ha una regia forte, mossa da una vera urgenza intellettuale, che tiene su anche le cose più deboli, e che alla fine lascia un segno. Colpisce, emoziona, propone affondi inattesi e difficilmente dimenticabili.
Anche all’Arsenale Enwezor ha chiesto e cercato molte voci dal vivo. Durante la giornata si palesavano i cantanti di Allora & Calzadilla, che intonavano “ a cappella” un oratorio che Jone Coleman ha costruito su uno spartito della Creazione di Haydn. Bellissimo. C’erano le voci, strepitose del video di Sonya Boyce, inglese, che con Exquisite Cacophony propone una performance con due vocalist che dialogano a ritmo di scatt jazz, con un affondo sociale di sapore dadaista. Altro sonoro che incrocia contemporaneità e passato è quello di Theaster Gates, artista di Chicago, che all’Arsenale ha portato un po’ di resti della chiesa abbandonata di St.Laurence, nei sobborghi poveri di Chicago. C’è la parte fatta con le tegole del tetto, ci sono frammenti d’organo, la statua in cemento di san Lorenzo, una campana: e nel video, tra i ruderi della chiesa, uno spiritual viene accompagnato da assi altri resti usati come strumenti musicali (una performance fatta anche dal vivo in giro per Venezia). Un’installazione bellissima, in stile papa Francesco (tiolo: Gone are Days of Shelter and Martyr). Anche uno schiaffo ad una chiesa americana che si è preoccupata solo di valori morali e di ricchi…
Commovente il video double face di Steve McQueen, con la storia dell’amico pescatore di Grenada, ucciso per aver scoperto un deposito di droga su una spiaggia. Su una faccia c’è lui che naviga felice; sull’altra ci sono gli amici che lo raccontano mentre gli costruiscono la tomba (e accarezzano la croce, sulla tomba…).
Poi c’è lo stupendo cantiere di Oscar Murillo, colombiano, che con Frequencies, dal 2013 porta tele in scuole di mezzo mondo, perché gli studenti vi dipingano la loro quotidianità. Alla Biennale sono disposte in ordine sparso su una decina di tavoli con tracciate sopra le relative carte geografiche. Le si aprono e le si maneggiano.
C’è anche chi dipinge, come Gedi Sibony, newyorkese, che lavora su fogli di alluminio presi da depositi di camion abbandonati. Dipinge e restituisce inatteso splendore a quegli oggetti perduti. Sono dipinte le preziose mappe dei profughi della vietnamita Tiffany Chung. E sono ovviamente dipinte le otto immense tavole di Georg Baselitz: autoritratti nudi, di cinque metri, che richiamano l’idea di un brutale punto zero da cui deve ripartire la civiltà.
Una Biennale viva, con pochi intellettualismi, a tasso zero di esoterismo.
L’arte, quell’invenzione ingenua
Vista la mostra Natura naturans a Villa Panza, con la coppia Meg Webster (1944) e Roxy Paine (1966). Natura vera, contro natura artificiale. La prima, artista già di Panza («il suo lavoro appare come un moto pendolare tra conforto e dramma» scrive Angela Vettese), il secondo invece forte di una complessità concettuale. Il confronto tiene benissimo, ma vince Meg, più libera, più innamorata del mondo e della natura. Paine invece vive sul piede di guerra. Per lui la natura è una sequenza di trappole, a volte affascinanti. L’allestimento della mostra è perfetto come al solito da queste parti.
Trascrivo dall’intervento di Jean Clair alla Milanesiana pubblicato da Repubblica. «L’ingenium è quell’attitudine dello spirito umano a riunire dati eterogenei per produrre qualcosa di nuovo. Oltrepassa i limiti della semplice ragione, è appunto quell’eccesso che somiglia a un dono, all’invenzione ingenua, al tratto di genio». «Già all’origine troviamo quindi nel termine “arte” un’ambivalenza, un’oscillazione tra un savoir faire che rileva di un apprendimento e di una conoscenza , dell’ordine del codificabile e del trasmissibile, e d’altra parte una qualità eccezionale, una tendenza particolare di un individuo, uno slancio dell’essere, una disposizione singolare dei suoi organi, delle sue cellule, che gli permetterebbe di esercitare un potere di cui gli altri non dispongono, nonostante abbiano le stesse conoscenze».
Intervista ad Annina Nosei di Antonio Gnoli su Repubblica.
A proposito di Basquiat: «Avevo voluto bene a quel ragazzo per cui i collezionisti facevano la coda. Un volt qualcuno gli aveva chiesto: “Vuol essere un grande artista o una grande tragedia?” e lui rispose: “Perché non entrambi?”».
Mi ha preso la “lottite”. Due giorni con Lotto
Inaugurazione della mostra di Gianriccardo Piccoli a Loreto. È una meditazione sull’ultimo quadro di Lotto, la Presentazione al Tempio e sul Libro dei Conti. Nella grande salone del Museo dell’Antico Tesoro campeggiano le otto grandi tele di Piccoli che sono una riflessione su quel misterioso spazio vuoto che Lotto apre nella parte superiore della tela: vi si vede un’abside vuota, sulla quale si affaccia da una porta a sinistra un frate, che potremmo immaginare sia lo stesso Lotto, negli ultimi anni di vita oblato della Santa Casa. Ma è lo spazio vuoto, come riflesso di un deserto dell’anima, quello che colpisce. Forse è l’abside in cui sarebbero state appese le opere ultime di Lotto oggi al Museo, ma i muri in verità sono tutti sgombri. Piccolo giustamente s’è inoltrato in questo spazio, e ha costruito queste grandi tele, coraggiose e anche potenti, come per dare fisicità a quello spazio lottesco, quasi per stanarlo. Cioè per farne qualcosa in cui inoltrarsi, in cui insediarsi. Se Lotto sembra un artista che pensa solo a ritrarsi, a “sparire”, Piccoli in un certo senso lo richiama con forza a essere presente, a occupare spazi, a misurarsi con la vastità delle proprie intuizioni. La vastità dell’installazione di Piccoli ha proprio questo senso: dare a Lotto quella gloria da cui s’era ritratto. Occupare spazio è come un rendere giustizia. E’ un omaggio all’insegna della moltiplicazione e della dilatazione. Davvero di grande forza. E di grande rispetto. Da vedere.
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Il giorno dopo sono a vedere l’ultimo Lotto marchigiano che mi mancava, quello di Monte San Giusto. La Crocifissione, circa 1335, è un capolavoro da perdere davvero la testa. Ti si rovescia addosso con i quasi 5 metri di sviluppo verticale nel piccolo spazio della chiesa di Santa Maria della Pietà in Telusiano. Ancora dentro la cornice originale, illuminata bene, è divisa in due parti, con un proscenio a pieni colori con la Madonna, i santi e il vescovo committente (uno che ha speso bene in soldi, anche per noi: si deve essere grati a questi committenti…); sul retro, rialzata si apre solo spazio delle croci che scivola verso l’alto con un risucchio di verticalità che se non è gotica, certamente risente di un’impronta tedesca. Le figure in primo piano, dipinte con i colori che solo Lotto sapeva inventarsi e abbinare, sono un ammasso drammatico e concitato di mani, di braccia, di volti di corpi che che s’intrecciano l’un l’altro. Occupano ogni pertugio di spazio. Lotto non si preoccupa di un’asimmetria di pesi che sposta la composizione a sinistra. Anzi la sottolinea con quella figura stupenda di una delle donne con mantello azzurro, che tiene le braccia aperte, arditamente di scorcio, quasi a richiamare il motivo della braccia del Crocifisso. In alto invece è tempesta, con quel cielo plumbeo che scende i diagonale, e la concitazione drammatica dei condannati. È un quadro in cui il dramma della Crocifissione ci arriva addosso proprio grazie a questa instabilità compositiva. La libertà di Lotto è sempre qualcosa che ti risucchia e da cui è impossibile sottrarsi. Comunque questo è uno di quei quadri che una volta nella vita bisogna aver visto…
Lombardi, Luzi e la “dicibilità” delle cose
Ho letto il libro che Sandro Lombardi ha dedicato al suo rapporto con Mario Luzi. Un libro struggente e appassionato. Che documenta una relazione in ogni senso “nobile”. Un’amicizia vera, sincera, reciprocamente rispettosa. Credo che a pochi sia accaduto, in un momento di difficoltà psicologica, ricevere un messaggio come quello che Luzi scrisse a Lombardi, ricoverato al Fatebenefratelli a Roma. «Sandro risorgi presto, perché manca una parte essenziale del discorso quando non ci sei. Buon Natale, Mario». Commenta Lombardi: «Notai commosso, che dicevi “risorgi” non “guarisci”: avevi compreso la mia morte nell’anima».
C’è una densità umana in questa relazione, che traspare sin dalle prime pagine, quando Lombardi conosceva Luzi solo sulla pagina. «Imparavo, grazie a te, la realtà delle cose che amavo, e la loro dicibilità»: vero laboratorio prezioso di formazione.
Un orizzonte che si delinea ancora più chiaro e commosso quando si stabilisce un confronto con l’amatissimo Pasolini (un autore che «mi aveva rivelato a me stesso», scrive Lombardi). A PPP, scrive Lombardi, per un limite psichico e non letterario, non riuscì di «compiere – se non in alcuni film – ciò in cui tu sei riuscito: uscire da sé per “dire di te, la maestà del mondo”. Agli occhi di Pasolini, insomma, la vita è una chimera: amata, cercata, pretesa – ma alla fine inarrivabile. Per te è il contrario: punto di partenza e di arrivo».
Ovviamente non possono non piacermi le pagine così “longhiane” dedicato cantiere del Viaggio di Simone Martini, portato in scena da Lombardi con la regia di Tiezzi. L’immaginare quella decisiva esitazione di Simone nel metter piede a Firenze, dove avrebbe dovuto affrontare lo sguardo di Giotto, è intuizione bellissima. Scrive Luzi: «.. Evita il paragone, /non desidera il confronto. /Lo soppiantano – si dice -/ Avverte il mutamento. Subentrano / più rudi / più solidi e corposi / e prossimi ai mercanti,/ i nuovi artisti. / Irridono la sua sublimità…». Conclude Luzi, «meglio prendere la via di Siena, immantinente». Una geniale, sintetica pagina di storia dell’arte.
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Domenica la cover della Lettura aveva un disegno di Tracey Emin, artista che ha in corso una personale a Roma nella galleria. Tra gli artisti della sua generazione Tracey certo è la più furba, spregiudicata, sfacciatamente disinvolta nel percorrere tutte le strade che il mercato le prospetta. Come dice il mio amico Daniele Capra, è una che “zoccoleggia”. Quello che mi colpisce in lei è quel qualcosa di irriducibilmente acido cheuo tratto. Quella sfrontatezza sbandierata. Quella vocazione a rendersi indisponente. È una che, per usare un termine oggi molto di moda, gioca a disintermediare tutti i rapporti. Ci riesce o non ci riesce? A me pare che spesso nella sua opera, a Tracey Emin riesca, con la impudenza che le conosciamo, a rapprendere molta vita.
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Ho visto Violette, il film di Martin Prevost dedicato a Violette Leduc, la straordinaria scrittrice francese, autrice de La Bastarda. Ho visto riapparire figure nel film che Testori mi aveva reso familiare, come Jacques Guerin, collezionista, che Violette aveva invano amato. Poi c’è il ricordo di quel bellissimo ritratto, così libero, di Violette nuda, fatto da Paolo Vallorz, pittore grande amico di Testori. Ho cercato invano un’immagine su internet. Un’ingiusta dimenticanza.
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A proposito della mostra dell’Atelier dell’Errore, in via Monte di Pietà a Milano: anche i titoli sono dei piccoli capolavori. Ve ne propongo alcuni come incentivo ad andare a vederla. Carniforo Tortura Ossa (di Arianna); Catoblepa che si nutre delle parti molli dei bambini (Francesco); Lo Squalatore Sessuale che si bacia le ferite (Giovanni); Pangolino che sta vomitando per farsi notare da una femmina (autori vari); Tritatore di uomini TerraMare a caccia nelle Banche di Milano Centrale (Marco); Vendicatore di Notte che divorisce dei compagni di classe io mi avvicino e loro si allontanano e dicono che puzzo (autori vari); Bronchiolosaurus Rorcofugo (Autori Vari); Frullatore di uomini nero paura che va a scassinare la nuova Jeep Renegade (Luigi il Papa); Trapus Murtorus, dicono che sia un Custode mandato da Dio per divorare le povere anime inutili (Dieolhak); Animale Vendicatrice che attira il maschio con la parte esterna dell’utero (autori vari); Isopode fango e sangue mi dicono mongoloide e io reagisco e mi difendo (Samuel).
Da Lucca a Baranzate, arte e senso civile
Giovedì 18. Visita al Museo di Villa Giunigi a Lucca. Museo tenuto pulito e ordinato all’interno della magnifica e vivibilissima casa di colui che fu a inizio 400 il signore della città. Sono solo nel museo, in orario un po’ improvvido (pausa pranzo). Non ci sono guardiani nelle sale, ma durante la visita mi “sorveglia” Martina, simpatica e intelligente allieva del quarto anno del liceo linguistico, che qui sta facendo uno stage. Mi colpisce l’orgoglio con cui di tanto in tanto mi segnala qualche segreto delle opere esposte. Mi ferma davanti all’anello della quarta moglie di Giunigi, oro e diamante: il dito della sposa quant’era sottile… Sa tutto del grande quadro con l’allegoria della libertà lucchese di Paolo Guidotti (1611): al tesoro della città i bambini ricchi portano l’oro, quelli poveri il cuore. Giustamente mi ferma affascinata davanti alla grande tavola di Fra Bartolomeo con Dio padre in gloria tra Santa Maria Maddalena e Santa Caterina. L’azzurro di vetro del cielo spettacolare e inverosimile che invade metà del quadro sembra un monocromo di oggi. Brava Martina. Auguri.
Domenica 21. Visita alla mostra a Palazzo Reale sui Visconti e gli Sforza. Non entro nel merito, perché non ne ho i titoli. Resto solo sorpreso da un allestimento inutilmente buio, a tratti un po’ kitsch (vedi gli stendardi con i testi dei pannelli), che non riesce a dare una dimensione d’insieme alla mostra. Alla fine del percorso una sala presenta le foto dell’allestimento della mostra del 1958. Firmato da Ferdinando Reggiori, era tutto opposto, bianco, luminoso, con un ritmo pausato che si avverte anche dalle immagini. Capisco che, scelta delle opere a parte, la vera differenza tra la mostra di ieri e quella di oggi sta in questa tensione a fare del percorso della mostra un qualcosa di avvolgente. Le opere erano presentate come componenti di una scena molto corale a cui i visitatori erano chiamati a partecipare. C’è tanto da trattenere da quelle immagini. Anche come senso del fare una mostra…
Domenica 21. Il mio nomadismo per le messe domenicali mi porta a Baranzate, chiesa di vetro, firmata Mangiarotti – Morassutti. È appena stata restaurata, con il rifacimento dei vetri che non hanno più polistirolo o lana di vetro nell’intercapedine, ma sono oggi semplicemente stati resi di un’opacità che restituisce un effetto molto simile, anche se molto più compatto e meno mosso. Ma la soluzione è razionale. La chiesa è bellissima. In alto dove le grandi travi a forma di croce si appoggiano alla struttura, tra una e l’altra le aperture sono chiuse da vetri. Si vede il cielo passare come fosse una installazione di Turrell. Il prete, don Claudio, sottolinea con orgoglio la bellezza di questa chiesa povera voluta con coraggio da Montini. Ricorda la bomba che nel 1968 la devastò. Oggi è tutta in ordine e molto amata. Quando esco le campane in cima al campanile a traliccio iniziano a suonare con forza. Sono al telefono con Lea Vergine, che, sentendole, mi chiede in qual posto di paradiso mi trovavo. Ero semplicemente a Baranzate….
L’opera d’arte come liberazione. Quattro situazioni da vedere (o leggere)
A maggio con Vita abbiamo fatto (grazie al lavoro di Anna Spena, in particolare, e di Marta Cereda e Daniele Capra) una copertina che lanciava la domanda “L’arte può salvare il mondo?”. In scia allo spunto di quel numero, ho intercettato molte suggestioni che meritano, secondo me, di finire in un ideale taccuino, in vista di una continuazione di quel lavoro avviato. Ecco alcune di quelle suggestioni, molto libere e assolutamente trasversali.
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Uomini come cibo.
È geniale il tema che Luca Santiago Mora ha dato ai ragazzi del suo Atelier dell’Errore per il lavoro di quest’anno, ribaltando il tema dell’Expo, così come loro con le loro opere ribaltano qualsiasi gerarchia nella scala della produzione artistica. Come sempre negli Atelier che sono diventati tre (quello storico di Reggio, quello di Bergamo, e quello iniziato da quest’anno per gli allievi che hanno superato i 18 anni e che è stato ospitato alla Fondazione Maramotti di Reggio Emilia), soggetto unico sono gli animali. Animali fantastici, a cui i ragazzi assegnano nomi che meriterebbero un’antologia. Ma quest’anno il tema del mangiare gli uomini ha fatto scattare nella fantasia dei ragazzi una potenza inedita. A tratti davvero travolgente. La mostra apre il 18 giugno, sostenuta da Maramotti che ha sposato pienamente il progetto, in un palazzo centralissimo di Milano, in via Monte di Pietà, 23. Si tiene su cinque piani. Ho avuto la fortuna di vederla in anteprima. È assolutamente imperdibile. È la vita che torna ad occupare fisicamente la città. (nell’immagine: VendicatoreDiNotteCheDivorisceDeiCompagniDiClasseIoMiAvvicinoELoroSiAllontananoEDiconoChePuzzo)
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I tre Crocifissi di Donatello a Padova.
A proposito della relazione tra l’arte e la vita, nessuno probabilmente nel passato aveva capito il nesso meglio di Donatello. A Padova ho potuto vedere la mostra dei tre Crocifissi: quello celebre del Santo, affiancato da quello giovanile di Santa Croce e da quello ritrovato pochi anni fa, a Santa Maria dei Servi, sempre a Padova. Ci sono immagini da questa piccola mostra che non ci si toglie più dagli occhi. La prima: il perizoma di Cristo nel Crocifisso del Santo. Un piccolo straccio di bronzo disperatamente strappato da un vento che scuote la storia. La seconda: il ventre di Cristo, contratto nello spasmo della morte. Dal punto di vista plastico un pezzo di intensità drammatica con pochi paragoni. Bronzo sottoposto a contrazioni esplosive. Un punto di scontro di forze, tra la muscolatura dell’addome e la corona delle costole che sporgono in fuori con uno strappo doloroso.
La terza immagine: è relativa all’altro Crocifisso padovano, che è in legno, e che è stato recuperato eccezionalmente nella policromia originale. La linea del muscolo della coscia e il rossore del ginocchio sono di una verosimiglianza carnale che quasi domanda una carezza. La quarta immagine: il clamoroso retro di questo stesso Crocifisso che l’allestimento lascia giustamente libero. Il corpo di Cristo è completamente nudo, e schiena e natiche sono intagliate con una delicatezza che toglie il respiro. Ma come sempre quello che spiazza è la libertà di Donatello, che affronta l’iconografia senza retorica e senza moralismi (ovvero quando il cattolicesimo non aveva il complesso culturale del corpo e della carne…)
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Longhi e il senso dell’opera d’arte.
Letto il libricino con le Proposte per un critica d’arte di Roberto Longhi (ed. Portatori d’acqua, con prefazione – bella – di Giorgio Agamben). A proposito della relazione tra Arte e vita, cito questo passaggio di Longhi: «È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra. Qui è il fondo di un nuovo antiromanticismo illuminato, semantico, terebrante, analitico, empirico o quel che volete, purché non voglia svagare. L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri e alieni. Strappandosi non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna andare a trovarlo, perché qualcosa ancora manca al suo pieno intendimento».
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Matisse e il suo maestro.
Sto leggendo L’intervista perduta di Matisse con Pierre Courthion. È un libro a cui Matisse lavorò tanto e che alla fine non volle pubblicare. Oggi esce per l’editore che lo allora lo aveva (invano) commissionato, Skira. Matisse vi racconta ad esempio il suo rapporto con Gustave Moreau, suo maestro. «Per lavorare con Moreau bisognava avere talento e temperamento per tenergli testa. Mi ha strapazzato spesso. Mi diceva: “Lei semplifica troppo la pittura”. Ma duceva anche: “Non mi presti ascolto. Quel che dico non ha importanza. Un professore non è niente. Faccia quello che vuole, questa è la cosa principale. Tutto quello che fa mi piace più di quello che fanno altri e che non sgrido”». Così fa un vero maestro…
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Post scriptum: Visita di Alessandro Mendini a Casa Testori per la mostra su Bonvesin. Con lui anche Fabio Novembre. Bello il riconoscimento di un grande maestro come lui alla vitalità dei giovani illustratori. «Sono più avanti di noi designer», ha detto. Bel segno di libertà intellettuale.
La dinamite di Serodine
Come sempre la coppia Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa non si smentisce. Qualsiasi progetto affrontino puoi star certo che non vedrai niente di scontato. Una mostra su Serodine, per quanto sia un artista che non si smette mai di amare, poteva essere scontata, visto che come loro stessi scrivono, di nessun altro caravaggesco si sono fatte tante mostre come per lui. Una era stata fatta solo due anni fa nello stesso museo, la Pinacoteca Zust di Rancate. Questa volta il pretesto di partenza è il prestito obbligato al museo della grande pala di Ascona, causa lavori di restauro della chiesa. Da qui l’intelligente idea della direttrice del museo, Mariangela Agliati Ruggia, di farne l’occasione per costruirci attorno un qualcosa. E chi se non la coppia Agosti- Stoppa poteva inventarsi questo “qualcosa”?
L’idea è semplice, radunare tutti i Serodine presenti in Canton Ticino (che sono 10 ma sono più della metà del catalogo). Su questa idea semplice se ne sono innestate altre, di cui una però determinante: quella di un allestimento sinergico con la pittura di Serodine. Cioè che ne facesse emergere, quasi a contatto, senza bisogno di parole, l’energia; o meglio, l’ardore. Di qui l’arruolamento di Stefano Boeri e la realizzazione di un dispositivo allestitivo tutto concentrato in un unico ambiente. Si tratta di una sala coperta per metà da un ballatoio. Tirate le pareti a nero, i quadri sono stati posizionati tutti a pari altezza di cornice, a 5 metri. Entrando nell’ambiente alto si vedono le quattro pale, di cui solo quella di Ascona scende quasi sino a terra. Salendo sul ballatoio, abbiamo le opere ad altezza occhio, mentre i quadri di dimensioni minori risultano appese più bassi del normale.
L’effetto è straordinario, perché la pittura di Serodine, vista così, parla senza neanche bisogno che si vada dentro i singoli soggetti. Sono come fiammate di pittura che ti investono ovunque tu ti giri. Il fatto poi di misurarti, sul ballatoio, con quadri appesi bassi dà l’idea di una pittura da cui non ci si può sottrarre. Una pittura, che stando alla tua altezza, ti chiama dentro. E davanti al San Pietro si capisce bene quanto fosse esatta la metafora messa in campo da Roberto Longhi nel 1942: «una capsula di dinamite gettata in un fornello». Serodine è in effetti un pittore con la dinamite dentro, un pittore che brucia il colore sulla tela. Non mi son chiesto che temperatura ci fosse in quella sala, ma certo la sensazione è che, se si allungasse la mano, ci sarebbe davvero da scottarsi…
Altre cose da segnarsi di questo Serodine. Il catalogo, innanzitutto, con una campagna fotografica eccezionale e di un formato che esalta immagini e pittore (Officina libraria, prezzo “politico” rispetto alla qualità, 30 euro). Catalogo curiosamente con doppia copertina, a scelta di chi compera. Una classica, con l’infiammato San Paolo dalla pala di Ascona che punta il dito in alto. L’altra con un dettaglio della stessa pala un po’ spiazzante: un angolo di paesaggio in cui si scorge il Maggia buttarsi nel lago Maggiore, sotto un cielo che sembra denso di sabbia.
Il catalogo poi è l’occasione per capire di più della biografia di questo grande artista vissuto davvero troppo poco: morì a 30 anni. Una biografia che scopre anche i lati intimi, perché Serodine nelle sue opere porta dentro anche il suo coté privato. Come in quel quadro, una Sacra famiglia, dove il padre posa per San Giuseppe, Maria ha il volto della cognata rimasta vedova, e il bambino è forse quello che lo stesso Serodine ha fatto con la cognata…
Infine la piccola tela appena ritrovata, qui proposta come Serodine, comprata da un collezionista che l’ha lasciata al museo di Rancate in deposito. Un ritratto di ragazzino, con lo sguardo puntato verso destra. Uno sguardo, acuto, teso, struggente, indimenticabile. Non so quanto pagherei per sapere cosa sta guardando…