Non dimenticherò facilmente il volto di Brigitte Mira, l’attrice protagonista di “Il viaggio in cielo di mamma Küsters”, film di Fassbinder del 1975 (visto ieri sera). Lei interpreta Emma Küsters, anziana signora che deve affrontare la tragica scomparsa del marito Hermann: lui, dopo aver avuto la notizia di licenziamenti di massa nella sua fabbrica, ha infatti ucciso il figlio del titolare e si è tolto la vita.
Di fronte ad un mondo che infanga suo marito, con dei figli che non spendono una parola per difendere la memoria di loro padre, Emma Küsters trova dei compagni di strada solo in alcuni militanti del partito comunista. Emma nella sua ingenuità e sincerità tiene un discorso davanti ad un gruppo di loro per spiegare la sua adesione. È un discorso doloroso e stupendo, che Fassbinder gira tenendo quasi sempre la cinepresa sul volto umanissimo di Emma. Mamma Küsters dovrà presto ricredersi anche rispetto alla loro buona fede e si troverà un’altra volta abbandonata. Fassbinder girò due finali del film: in uno la mamma muore dopo un tentativo di occupazione del giornale che più aveva infangato la memoria del marito. Nell’altro finale, con un’intuizione poetica meravigliosa, Fassbinder dà un esito imprevisto a quella occupazione solitaria e senza speranza: il portiere del giornale invita mamma Küsters a desistere e ad andare a mangiare insieme a lui uno dei suoi piatti preferiti, Himmel und Erede, “cielo e terra”, un pasticcio a base di mele e carne. E lei, sorridendo, lo segue. È il suo “viaggio in cielo”…
Ho trascritto il discorso di mamma Küsters davanti ai militanti del partico comunista.
«Buonasera a tutti, questa è la prima volta ce parlo a tante persone contemporaneamente, Io non so parlare bene come gli altri. Ma credo di potervi comunque spiegare perché alla mia età ho deciso di aderire a questo partito. Devo confessarvi che non è per la politica, che capisco poco, ma per le persone che ho trovato tra di voi. Queste persone mi hanno detto che non bisogna accettare tutto come un disegno di Dio. Non tutto è destino. Io ho creduto loro e per questo sono qui. E ho capito che c’è una ragione per tutto. Per tutte le cose terribile che accadono ogni giorno nel mondo. Sono stata sposata con mio marito per 40 anni. È un tempo lungo ma anche troppo corto. E cos’ho fatto per tutti questi anni? Ciò che tutti si aspettavano da me, ciò che tutti si aspettano da ogni donna: avere figli, prendersi cura della casa… E Hermann ha fatto ciò che ci si aspettava da lui: è andato a lavorare, è andato in guerra… È andato tutto come doveva andare. Ma oggi mi chiedo: questa è vita? Questa è davvero vita? O abbiamo semplicemente vissuto come altri volevano che vivessimo? È stata davvero la “nostra” vita? Non lo so. Chi sta in una valle davanti a sé vede solo la montagna. Ma chi scala la montagna vede altre valli e altre montagne. 40 anni insieme sono tanti per due persone. Pensavo di conoscerlo, pensavo che non ci fosse bisogno di parlare, tanto sapevamo già tutto. Ma non è così. Non è affatto così. Non sappiamo niente. Quanto deve aver sofferto mio marito per arrivare a fare quello che ha fatto! E io non sapevo niente. Questa è vita? I problemi degli altri, ecco di cosa parlava lui. Ma non abbiamo mai imparato davvero a vivere insieme o forse non siamo stati capaci di comunicare. Quanto deve essere stato disperato, senza sapere da che parte girarsi! E lui non aveva persone come voi con le quali parlare, che avrebbero potuto dirgli che cosa era giusto. Le cose sarebbero andate diversamente. E dopo la sua morte non sarebbe stato usato per riempire i giornali di bugie. Mio marito non è un assassino. E non è nemmeno un pazzo. È un uomo che ha reagito dopo essere stato colpito tutta la vita. Colpito e… calpestato. Se quello che ho sentito qui è vero, che l’1% della popolazione detiene l’80% delle ricchezze, allora lui a modo suo ha cercato di combattere l’ingiustizia. Il modo con cui l’ha fatto è sbagliato, ma io voglio rimediare. Io Emma Küsters voglio unirmi a voi nella lotta per la giustizia».
Smisurato è stato il sogno che l’ha fatta essere. E smisurata è stata la tragedia che l’ha ridotta in rudere. È all’interno di queste opposte iperboli che tra 1962 e 1987 si è consumata l’epopea di Casa Iolas, la villa che uno dei più grandi e chiacchierati galleristi del secondo Novecento aveva costruito ad Agia Paraskevì, sobborgo a nord di Atene.
Esagerati fasti ed esagerata rovina: un po’ com’era nel dna di Alexandre Iolas, eccentrico all’eccesso, geniale come pochi. Era nato da genitori greci ad Alessandria d’Egitto nel 1907, con il nome di Constantine Koutsoudis. La sua prima ambizione, coltivata nella Parigi degli 30, era quella di fare il ballerino. Anni che aveva comunque messo a frutto frequentando il mondo artistico da Picasso a Braque, a Max Ernst, De Chirico, Cocteau… Così quando per un incidente nel 1944 mise fine alla carriera sul palco, era già pronto per iniziarne una nuova come direttore di una galleria newyorkese, la Hugo Gallery, fondata da esponenti della crème del capitalismo americano. Nel 1952 aveva messo a segno il primo colpo: esordio di un ragazzo dalla pelle chiara arrivato da Pittsburg bravo a disegnare scarpe per la moda. Era Andy Warhol e la mostra si intitolava “Fifteen Drawings Based on the Writings of Truman Capote”. Così lo dipinse Iolas: «Quando hai un’espressione stupida come quella di Andy nell’istante in cui tace, prima che scatti il sorriso, puoi fare tutto quello che vuoi al mondo». Amico, confidente e art dealer di tanti tycoon americani, li aveva guidati nel costruire le rispettive collezioni, a volte fantasmagoriche, come nel caso dei De Menil, emigrati da Parigi a Houston per scappare all’occupazione nazista. Nel 1955 aveva inaugurato una galleria sua in società con un altro ex ballerino, Brooks Jackson. Di lì, a cascata, sarebbero arrivate le aperture di sedi a Parigi, Milano, Madrid, Città del Messico e Roma, quest’ultima in società con Mario Tazzoli.
Non aprì ad Atene, perché per la città delle sue radici aveva un sogno più ambizioso: costruire una casa che avrebbe dovuto diventare insieme punto di riferimento immancabile per il jet set dell’arte mondiale e centro di residenza per sostenere gli artisti. Il cantiere durò dal 1965 al 1968. In realtà come ha raccontato Renos Xippas, cugino in seconda di Iolas e a sua volta gallerista a Parigi, «… all’inizio era stata concepita come una piccola casa di campagna dove alloggiare le sorelle e la nipote. Poi, col tempo, il progetto gli sfuggì di mano e cominciò ad aggregare a quel primitivo nucleo centrale una successione di corpi, di volumi, di padiglioni costruiti attorno a un progetto espositivo della collezione privata che era tutto nella sua testa. Nessuno abitò mai realmente quegli ambienti. Nei periodi di permanenza ad Atene Iolas viveva in cucina, in compagnia di Sula, la sua governante. Lei gli preparava i piatti dell’infanzia, gli faceva le carte e gli accarezzava la testa quando aveva il raffreddore» (questa testimonianza di Xippas è contenuta nel bel catalogo della mostra dedicata alla vicenda di Casa Iolas, che nel 2017 si era tenuta al Palazzo Costa Grimaldi di Acireale, a cura di Cristina Quadrio Curzio, Leo Guerra e Stefania Briccola).
Chi vide la casa negli anni fulgenti ricorda il soffitto laminato argento, la scala a chiocciola a corto raggio, le copie di torsi virili da Prassitele e Lisippo, la parete con disegni su carta d’oro di Ioannis Kardamatis. E poi quadri e oggetti di ogni tipo in un mix sfacciatamente hollywoodiano. Si dice, ma nulla lo conferma, che per la progettazione dell’edificio Iolas si fosse avvalso di Dimitris Pikionis, il grande architetto greco, che aveva firmato il progetto della trama di camminamenti di fronte all’Acropoli, alla base dei Propilei, i cosiddetti “sentieri di Pikionis”. Secondo la testimonianza del cugino Xippas, il fregio minoico che come un nastro incorniciava l’intero edificio sarebbe stato realizzato da un’indicazione di Pikionis. Per arrivare all’ingresso della casa si percorreva un sentiero pavimentato da 55 lastre di marmo pario. E il marmo con il suo bianco dominava anche all’interno, anche negli scaffali della biblioteca dove i libri erano a loro volta tutti ricoperti di plastica, ugualmente bianca. «Era un palazzo rivestito di marmo», ha testimoniato Xippas. «Il marmo era economico allora e pratico. Non si sporcava e si lavava con acqua. Mio cugino era un uomo pratico sotto certi aspetti. Il marmo è un materiale eterno e forse credeva di essere eterno anche lui». Con il marmo pario Iolas aveva pavimentato anche la galleria milanese, aperta nel 1970 (ma già dal 1967 aveva una sede in città) in via Manzoni allo stesso numero civico del Museo Poldi Pezzoli: galleria che era stata progettata dall’amico Giovanni Quadrio Curzio.
Altro oggetto feticcio nella casa ateniese era il “Golden Cloth” di Marina Karella, artista greca moglie del principe Michele di Grecia. Si trattava di un’installazione con una poltrona nascosta da una coperta; quando Iolas la vide le chiese di fonderla in bronzo e di darle una patina d’oro. A fianco di pezzi antichi Iolas schierava con assoluta disinvoltura gli oggetti in metallo creati dalla fantasia di Claude e François Lalanne, “les Lalanne”, animali che popolavano la casa, come la grande rana collocata nel bagno. Erano fantasmagorie dispiegate in assoluta libertà in quegli spazi disegnati con mente “attica”, «dove giovani bellissimi che apparivano e scomparivano tra le stanze… Tutto era parte della sua scenografia», come ricorda Fausta Squatriti, artista milanese che per Iolas aveva disegnato cataloghi e manifesti delle mostre, sempre eleganti e rigorosi (aveva fatto disegnare un font apposito).
Esistono rare testimonianze visive di quegli interni. C’è un servizio di “Vogue America” del 1982, dove Iolas compare sull’ingresso di casa vestito in doppiopetto bianco. E ci sono le sequenze di “Consiglio di famiglia”, un film del 1986 di Costa Gavras con Fanny Ardant protagonista. In una scena esilarante si vedono due gemelli bulgari in pigiama e con i capelli ossigenati che si divertono a vandalizzare alcuni arredi della casa e anche una tela di Picasso. È una sequenza amaramente profetica perché nel frattempo su Iolas si era abbattuto un ciclone scandalistico, un vero rovesciamento del destino degno di una tragedia greca. Il gallerista aveva licenziato Anonis Nikolaou, un travestito che si faceva chiamare Maria Kallas e che lavorava in casa occupandosi della collezione. L’accusa era di alcolismo e di furti ripetuti. Anonis si vendicò con un’intervista al quotidiano “Avriani”, nella quale accusava Iolas di traffici di opere d’arte, di pedofilia e di spaccio di droga. La campagna stampa fu violentissima. Il quotidiano aveva addirittura pubblicato il numero di telefono di Iolas invitando i lettori a chiamarlo e maledirlo. Costa Gavras promosse una petizione in difesa del gallerista firmata da 150 personalità europee, tra le quali François Mitterrand. Iolas, malato di Aids, aveva lasciato Atene riuscendo a seguire l’ultimo progetto espositivo: “Last Supper”, il ciclo di lavori di Andy Warhol attorno al capolavoro di Leonardo, esposto alla Galleria del Piccolo Credito Valtellinese (il tramite era stato Giovanni Quadrio Curzio) in Corso Magenta a Milano. All’inaugurazione, nel gennaio 1987, Iolas non aveva potuto presenziare perché per una crisi era stato ricoverato nell’ospedale di Treviglio. Sarebbe morto a giugno, a New York: il mese successivo avrebbe dovuto comparire davanti al tribunale ad Atene.
Nel frattempo la casa era stata svuotata di quasi tutte le opere e abbandonata a se stessa, preda di ogni tipo di vandalismo. Oggi giace come un impressionante relitto, con i marmi ricoperti da scritte e da murales, i serramenti divelti; dei fasti che furono restano solo poche e devastate reliquie. Un “caso” che verrà riproposto in occasione di due mostre programmate per settembre a Milano: “Casa Iolas” è il titolo di quella che si terrà nella galleria di Tommaso Calabro, con una scelta di opere che erano passate dalla sua collezione e la raccolta dei cataloghi e dei manifesti delle sue mostre (con un omaggio di Francesco Vezzoli). Nella Galleria del Credito Valtellinese verrà invece allestita una rievocazione della storica mostra di Warhol, “Last Supper Recall”.
Questo articolo è stato pubblicato su Alias, 3 maggio 2020, con il titolo “Dorata sfacciataggine su marmo pario”.
Il peso di certi personaggi lo si misura anche dalla quantità di storia che hanno mobilitato. Germano Celant è uno di questi. È stato interessante ed molto istruttivo leggere alcuni degli interventi pubblicati dopo la sua morte. Per questo mi è sembrato utile raccogliere in un pdf i più interessanti tra questi interventi, compresa l’intervista che Celant aveva rilasciato a Domenico Gnoli nel 2017. Allego la raccolta, perché può essere utile leggerla.
Devo questa scoperta ad Andrea De Marchi, storico dell’arte che si concede generosamente a Instagram. Il suo è un account che suggerisco a tutti
Il pulpito del Battistero di Pisa è un capolavoro di Nicola Pisano firmato e datato 1260. Sono cinque le scene scolpite ad altorilievo per il parapetto, e tra queste c’è la Crocifissione. Lo stile di Nicola, che poi trasmetterà a suo figlio, il grande Giovanni Pisano, è uno stile intenso: lo scalpello entra nella pietra senza concedersi pause e senza lasciare zone libere. Dappertutto è un “pieno” di corpi che popolano lo spazio, e si affacciano sul primo piano emergendo dal fondo della predella di pietra. Quello di Nicola, a differenza di Giovanni, è uno stile sempre molto misurato, studiato, senza quelle impennate espressionistiche che caratterizzeranno i capolavori di suo figlio.
Così anche la scena della Crocifissione, nella sua drammaticità, è ultimamente contrassegnata da una compostezza e da un grande controllo nella composizione. Un controllo che porta Nicola a mettere a punto una soluzione straordinaria: come ha notato un attento studioso, Andrea De Marchi, attorno al corpo di Cristo Crocifisso Nicola ha lasciato una fascia libera, un interstizio, che isola la sua figura.
Ha scritto Andrea De Marchi, nel saggio intitolato “Aureole e aura”: «Qui il marmo era scavato fino ad un limite virtuosistico, tanto che in un punto si è perfino rotto, in previsione consapevole di un effetto che tuttora si riproduce in alcune giornate di sole, all’ora del tramonto, per cui i raggi provenienti da occidente filtrano attraverso il marmo assottigliato e creano un alone abbagliante attorno al corpo di Cristo, come se fosse circonfuso di fuoco!». È l’effetto che si vede nella foto fatta dallo stesso studioso. Soluzione straordinaria, frutto non solo di abilità tecnica, ma di una mano che si muove “per grazia”. La luce che s’accende dietro il Crocefisso fa memoria dell’oro sfolgorante dei mosaici bizantini.
Anche nel pulpito di Siena l’effetto è lo stesso. Me lo ha segnalato Alessandro Bagnoli e grazie all’archivio dell’Opera del Duomo ho ritrovato la foto della formella della Crocifissione al tramonto, con i raggi del sole che penetrano la “pellicola” di marmo e irradiano la Cristo in Croce. Il Pulpito di Siena realizzato tra 1265 e 1268, cioè cinque anni dopo quello del Battistero di Pisa, è il capolavoro di Nicola. Come mi scrive Bagnoli, «anche gli altri rilievi fanno lo stesso effetto, perché sono scavati moltissimo. Certo per questi giorni è più significativo il rilievo con la Crocifissione. Ci pensi che effetti cromatico e luminoso dovevano avere questi rilievi, quando erano tutti dipinti e dorati». Il pulpito è stato restaurato pochi anni fa. Nel restauro sono emerse tante novità importanti che meritano di essere raccolte e presentate in una nuova pubblicazione.
Le immagini che attraverso l’occhio e l’immaginazione dell’arte scandiscono la vita e la passione di Gesù, sono davvero precise al dettaglio: assemblandole se ne potrebbe ricavare il più straordinario film del mondo.
Se prendiamo il momento della Passione e morte di Gesù un fotogramma sarebbe senz’altro dedicato al Seppellimento del Signore, che segue la Deposizione e l’Unzione del suo corpo (il celebre Cristo morto di Mantegna è appunto deposto sulla Pietra dell’Unzione). Il Seppellimento è stato immaginato da decine e decine di artisti, ma c’è un risvolto di questo episodio che è presente in modo quasi sistematico solo nella pittura del 300: è l’istante immaginato dell’abbraccio della Madre al corpo del Figlio prima che scenda nella tomba. È un abbraccio “cercato” che viene a costituire il vero centro della scena, facendo scalare quasi in secondo piano la circostanza del seppellimento. Troviamo questo abbraccio in Giotto ad Assisi, in Duccio nella formella della Maestà emigrata a Londra, in Pietro Lorenzetti ad Assisi, o anche in artisti minori come Ugolino da Siena nella predella del polittico di Santa Croce. L’elenco potrebbe essere ben più lungo. Va sottolineato che queste immagini presentano delle costanti: Maria si distende sempre con un movimento orizzontale, quasi uno slancio, per avvicinarsi il più possibile al corpo del Figlio. L’abbraccio poi avviene in modi diversi, ma è sempre il punto emotivamente cardine della scena. Ad esempio nell’affresco della chiesa di San Nikita, a Cucer, in Macedonia (anno 1320), Mihail Astrapàs immagina che sia Maria stessa nell’abbraccio a sostenere il corpo di Gesù e quindi la sua mano destra passa sotto la testa del Figlio, già avvolto nella sindone.
È la stessa scelta fatta dall’artista che nella Cripta del Duomo di Siena ha dipinto una delle varianti più commoventi del Seppellimento di Gesù. Gli affreschi della Cripta sono il frutto di uno straordinario ritrovamento fatto una ventina di anni fa da uno dei più autorevoli studiosi dell’arte senese, Alessandro Bagnoli. Infatti quegli ambienti erano stati riempiti di terra, pietra e altri materiali per permettere di costruire l’abside del Duomo ad inizio ‘300. In questo modo gli affreschi si sono conservati con delle cromie brillantissime. Siamo in una stagione che precede il fiorire del genio di Duccio a Siena, ma già ci si è staccati dai rigidi stereotipi bizantini. Gli affreschi vibrano perciò di drammaticità e anche di fisicità. Maria, avvolta in un mantello blu si piega a 90 gradi per abbracciare Gesù disteso sulla pietra del Sepolcro. Appoggia il suo volto sul volto del Figlio, mentre con le braccia lo stringe a sé, ripetendo quel gesto che le abbiamo visto fare in mille altre immagini dell’arte quando Gesù era bambino.
Ovviamente una scena come questa non può non richiamare, per contrasto, l’impossibilità di un abbraccio ai propri cari strappati alla vita dall’epidemia di Coronavirus. È certamente uno dei risvolti più affettivamente dolorosi dell’emergenza che in queste settimane abbiamo vissuto: doloroso per chi è morto senza poter essere accompagnato, e doloroso per chi ha dovuto forzatamente mantenersi a distanza da quel proprio caro. Ma di fronte a questi mancati abbracci si può capire pienamente il senso di una scena come quella di cui abbiamo parlato fin qui: il gesto di Maria non è per sé, ma per il mondo. Per questo gli viene dato una rilevanza così vistosa e anche così “pubblica”. L’abbraccio prende il centro della scena, perché chiunque guarda se ne senta coinvolto. Ed è tale la commozione che gli artisti immettono nelle rispettive opere, che è difficile dubitare che quell’abbraccio nella sua concretezza non ci investi e non ci riguardi.
«Il collezionista in qualche modo lascia la sua anima nella collezione. Quando essa diventa pubblica, il collezionista per così dire le appartiene».
Sono parole di Giuseppe Panza, tratte dal libro che raccoglie le conversazioni con Philippe Ungar (Giuseppe e Giovanna Panza collezionisti, Silvana editoriale, 2011). L’“anima” nel caso di Panza coincide con quella tensione spirituale che lo ha guidato nelle scelte degli artisti e delle opere, creando un cosmo perfetto in cui ogni frammento si trova ricomposto dentro un insieme coerente. A 10 anni dalla morte del grande collezionista, avvenuta il 24 aprile del 2010, il Fai, oggi proprietario della villa di Biumo, ha deciso di ripresentare l’allestimento integrale originale della collezione permanente, secondo i criteri museografici indicati da Panza stesso al momento della donazione nel 1996. È un allestimento che dimostra in modo palese quella «stretta relazione tra il suo “occhio esplorativo” e il suo pensiero che hanno fatto di lui uno tra i più importanti collezionisti del Novecento», come ha scritto Anna Bernardini, direttrice di Villa Panza. A distanza di anni si potrebbe pensare che l’orizzonte di una collezione come questa sia ormai ampiamente storicizzato e in un certo senso “musealizzato”. Invece il riallestimento mette in evidenza proprio come quell’“occhio esplorativo” di Panza, agisca, sorprenda ed emozioni ancora il visitatore. Ce ne si rende conto ad esempio entrando nei meravigliosi spazi delle Scuderie, che ora accolgono una grande scultura in legno di Martin Puryear, artista afroamericano, protagonista del padiglione Usa all’ultima Biennale. S’intitola “Desire” ed è un’opera di straordinaria perizia artigianale, che si slancia nell’ambiente luminoso con l’afflato proprio di uno struggente desiderio: da una gabbia rovesciata, che suggerisce lo stato di costrizione delle popolazioni nere, parte una lunga asta che si fa perno di un’immensa ruota di bicicletta, evocazione incantata di un sogno di liberazione. L’opera è del 1981 e lascia stupiti pensando a come l’occhio esploratore di Giuseppe Panza sapesse inoltrarsi anche nei territori periferici del minimalismo americano, accettando la scommessa di opere così materialmente impegnative. C’è infatti un aspetto pionieristico nel suo stile collezionistico, che convive perfettamente con quell’ansia di rarefazione formale che fa da modulazione di fondo dell’intera raccolta.
Così si spiega la predilezione per un artista formidabile come Allan Graham, che occupa una sala del primo piano, con quelle sue opere dalle forme che esplodono dentro i telai, ibridi tra pittura e scultura, dense di un’energia primitiva, tutte costrette nella rigorosa elementarità del nero e del bianco.
Si coglie spirito pionieristico anche nell’attenzione ad un artista che lavora sul suono, senza essere musicista, come Michael Brewster. La sua installazione, che occupa una stanza sigillata da ogni fonte luminosa nell’ala dei rustici, è appena stata restaurata e rimessa in funzione. “Aerosplane” è una scultura acustica che riempie lo spazio plasmando una serie di rumori confusi di un aereo: anche in questo caso Panza è affascinato sia dal rigore formale dell’operazione, sia dalla capacità dell’arte di mettere in atto un’espansione sensoriale. La Villa per Panza è infatti anche terreno di sperimentazione di nuovi criteri estetici e museografici, come nel caso delle celebri sale dedicate a Dan Flavin, dove il collezionista propone e alla fine impone un’idea di allestimento inedito ed emotivamente forte per le sculture luminose dell’artista americano.
Altro tema a cui Panza si dimostra sempre molto sensibile è il dialogo con il contesto e in particolare con lo scenario naturale che circonda la Villa: in tanti casi la relazione interno/esterno diventa la leva che molti artisti hanno usato per installazioni site specific entrate nella storia dell’arte contemporanea, quelle di Robert Irwin e di James Turrell su tutte. La natura è vista da Panza naturalmente non in senso naturalistico, ma in quanto proiezione verso un’idea di infinito: anche nel caso dell’infinitamente piccolo, il che spiega la predilezione negli ultimi anni per le opere di Christiane Lohr, con le sue sculture vegetali minuziosamente costruite con materiali essiccati.
Infine un’altra dimensione centrale della collezione è certamente quella del tempo. È un’idea di tempo sottratto all’erosione della transitorietà, un tempo sospeso nella calma di tante opere, come i grandi monocromi di Phil Sims o le trame infinite delle tele di Ann Fredenthal. Un tempo che ha a che fare con quell’aspirazione all’assoluto che stava sempre al cuore delle scelte di Giuseppe Panza. Speriamo dunque arrivi presto il tempo per poter inoltrarci alla riscoperta di questa collezione, che è unica anche per la capacità di aprire orizzonti al di là delle tante ansie di una stagione come quella che stiamo vivendo.
“Tre maestri”: il libro di Lóránd Hegyi meriterebbe di essere letto anche solo per aver rispolverato nel titolo questa categoria da cui la nostra epoca sfugge.
Maestro è qualcuno che con la sua presenza o la sua opera segna e spinge in avanti la vita e la coscienza di chi segue. Nel caso del libro di Hegyi i maestri sono tre artisti che non sono stati legati da rapporti particolari e che sono uniti dal fatto di essere tutti e tre migranti, com’è migrante lo stesso autore, che è nato a Budapest e ha diretto per 15 anni una delle istituzioni più vive sul fonte dell’arte di oggi, il Musée d’art contemporaine di Saint-Etienne. Roman Opalka, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis: sono loro i tre maestri che Hegyi raduna in questo libro, tenendo come filo conduttore quello delle loro “interrogazioni sul tempo” (“Tre maestri. Interrogazioni sul tempo. Roman Opalka, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis”, Electa, 20 euro, 92 pag.). È un libro che procede con grande chiarezza, senza mai sovrapporre le posizioni e le esperienze dei tre protagonisti, ai quali vengono dedicati singoli capitoli che, come vedremo, risentono, nell’approccio e persino nella scrittura, del singolo magistero di ciascuno. Opalka, polacco di origine; Kabakov, russo, anche se nato a Dnipro, che poi è tornata all’Ucraina; Kounellis, greco: sono tutti esuli per volontà e non per costrizione. Una decisione più professionale che morale o politica la loro, anche se i primi due hanno dovuto varcare la “cortina di ferro”. Li unisce anche quella che Harald Szeemann definiva “una tendenza all’opera d’arte totale”, che supera le classificazioni e che lascia libero campo a tutti i media e le forme d’espressione, e a tutti gli approcci tecnici e metodologici. L’altro tratto unificante che Hegyi coglie e da cui resta affascinato, è la capacità di ciascuno dei tre maestri di dare vita un’estetica scaturita da una rigorosa coscienza etica.
Infine ognuno dei tre maestri opera, per vie diverse, “un’interrogazione del Tempo” (il maiuscolo è una scelta di Hegyi): ed è precipuamente questo che li rende maestri, nel senso più oggettivo del termine. Agiscono in direzione «di un Tempo ingrandito, ampliato, che ci permette di evadere dalla prigione della limitatezza, dall’isolamento, dalla chiusura in noi stessi e di creare nuovi collegamenti con altre dimensioni del vissuto e nuove realtà mentali».
Roman Opalka a partire dal 1965, quando ancora era a Varsavia, ha iniziato a dipingere, su tele sempre della stessa dimensione (equiparata alla sua altezza, 1,93 x 1,35: assoluta specularità tra arte e vita), i numeri da 1 in progressione, da destra a sinistra. Li dipinge sempre con colore bianco su un fondo che dal nero è andato invece con gli anni via via schiarendosi. È stato un percorso artistico che ha assorbito la sua vita, fino all’ultima tela (tutte titolate “Détail” con il numero relativo), in un percorso di incredibile ascesi. Nel 2011, quando è morto improvvisamente a Roma, era arrivato a al numero 5.607.249 sull’ultima tela della lunga serie, “Détail 233”. Opalka ha dipinto il tempo nella sua ineluttabile progressione, non tanto per imprigionarlo come tante volte si è detto, ma per farsene prendere per mano. Si è inoltrato in quello spazio dove si fa impercettibile il confine tra il transitorio e lo spirituale, grazie alla sublimazione del segno, diventato alla fine un bianco su bianco. Giustamente Hegyi, a proposito di Opalka, parla di una «stabilità mozzafiato» e di una concezione «quasi sacrale del lavoro», che ritualizza la vita personale facendone un tutt’uno con l’opera d’arte.
Il tempo per Ilya Kabakov è invece un qualcosa che ha a che fare con la memoria, e quindi con un «qualcosa di inconfondibilmente russo». Se Opalka è fedele ad una fissità ascetica, invece la grammatica espressiva di Kabakov è caratterizzata da una narratività affascinante, enigmatica e di «una poeticità indimenticabile». L’artista parte dal quotidiano, con un’attenzione da etnografo e da archeologo. Poi nell’assemblaggio delle sue installazioni opera delle sintesi in cui realismo e surrealismo si mischiano e si confondono. In un saggio del 1999 l’artista parla di una strategia della “dissimulazione” per mettere chi guarda davanti ad un labirinto di riferimenti: «Descrivo una situazione in cui si implica qualcosa che non si intende dire esplicitamente». In questo modo, le opere di Kabakov, scrive Hegyi, «non ci permettono di adagiarci nella passività… la loro intensità emozionale è una conseguenza della narratività del “reale” che l’artista con esse veicola». Essere maestri significa far scattare delle corde particolari in chi segue: così la prosa di Hegyi in queste pagine cambia registro, si riscalda nell’inoltrarsi in quella concentrazione di vissuto proprio delle opere di Kabakov. È un vissuto che ogni volta riformula la storia individuale e personale come paradigma universale. Il capitolo si chiude non a caso con una pagina di grande slancio poetico in cui si immagina che una catapulta abbia proiettato Kabakov nello spazio, oltre il “buco” nel soffitto di una sua celebre installazione. «Egli è lassù», scrive Hegyi. «Kabakov ci fa pensare: cosa sono i nostri sogni di libertà e di sovranità, quali sono le nostre strategie per liberarci dall’imprigionamento».
Nell’ultima parte del libro dedicata a Jannis Kounellis la scrittura torna a farsi serrata, per restituire quella compressione della dimensione del tempo operata dall’artista greco. Con Kounellis siamo di fronte, scrive Hegyi, ad «uno stato temporale nell’ambito del quale la Storia, tutte le possibili storie, tutti i possibili episodi, tutte le possibili attività e azioni vengono compressi in un singolo e drammatico momento». «L’“hic et nunc”», sottolinea in un’altra pagina, «assorbe la storia della creazione mantenendo i riferimenti storici, gli accenni temporali, le relazioni cronologiche». Sono affondi che dimostrano come il critico abbia saputo inoltrarsi nell’opera di Kounellis, decifrandone quella potenza che non ha solo straordinari esiti formali ma è in grado di «amplificare, intensificare la percezione personale concreta» di chi guarda. Il magistero di Kounellis si esercita attraverso drammaturgie come quella su cui Hegyi si sofferma in modo dettagliato: è l’installazione realizzata nel 2013 per la mostra alla Wooson Gallery in Corea. Due grandi sedie ricoperte di stoffa nera, presenze molto corporee, presidiano lo spazio centrale occupato da una grande tela quadrata dipinta di rosso. Ma non si tratta di un rosso di stampo «avanguardista e costruttivista», bensì di un rosso sensuale e seducente, scoperto proprio nel soggiorno in Corea. La forma radicale del quadrato si carica di nuovi connotati che ancora una volta coinvolgono la storia e il suo vissuto: una forma di catarsi che si spalanca davanti a noi e alla quale siamo convocati.
Pubblicato su Alias, 5 aprile 2020
Condivido questa mail inviatami da Lóránd Hegyi dopo aver letto la recensione.
Questo libro è piccolo, ma involge molti anni di esperienza con questi tre artisti, molti discussioni e anche lavori insieme. Paradossalmente il primodi tre Maestri, che io ho incontrato in persona, è stato Ilya Kabakov, anche se Opalka e Kounellis sono divenuti piu intimi amici, durante degli ultimi trenta anni. Con Roman Opalka io avuto un rapporto quasi “familiare”, come con un fratello vecchio, come qualcuno, chi ha fatto una simile stradadel nomadismo, come io: da Polonia in Germania, Svissera, Italia, Francia, come io da Ungheria in Austria, in Italia, in Francia e dopo di nuovo in Italia. Io ho visitato Kabakov in suo appartamento a Mosca, in dicembre 1984. Era un inverno infernale, freddissimo, con molto neve. Il progetto del riforma delsistema politica ed economica “Perestroika” di Gorbachew era ancora completamente nuova, nessuno sapevo, dove andiamo, dove va il blocco sovietico… Era una incertezza grandissima, un feeling della insicurezza e anche una profonda crise dell’orientazione ideologica. La guerra di Afganistan è stata catastrofale, la situazione in Polonia ha fatto angoscia, tutti di noi anno avuto paura di un nuovo intervento russo contra il movimento di “Solidarnost”, allora tutto era in movimento, completamente destabilizzato. Io ho abitato ancora a Budapest, lavorato in Istituto della Storia dell’Arte della Accademia di Scienza di Ungheria, e pubblicato il mio primo libro sul cambio del paradigma dell’arte contemporanea. In questo libro io ho scritto molto sul Kounellis, anche c’è una riproduzione bianco-nero del suo opera in libro, ma non ho scritto ancora sul Kabakov. Quando io sono arrivato a Mosca, un altro artista, Jankilewski, un amico di Kabakov, Bulatov, Bruskin, Komar&Melamid, Sternberg, allora degli artisti “dissidenti”, mi ha accompagnato a Kabakov. Noi abbiamo parlato un pocissimo “paruski” (in russo, perché io ho studiato la lingua russa alla scuola elementare a Budapest), solo per la buona educazione, ma molto più in tedesco, perché Kabakov parlato un po tedesco. Dopo, durante di anni ed anni, sempre parlato con Kabakov in tedesco. Come anche con Opalka: la nostra lingua è stata la lingua tedesca. Io ho incontrato Jannis Kounellis come il ultimo di tre grandi “Maestri”, ma lui resta al fine della sua vita un vero amico, con chi io potevo parlare sul tutti temi, prima di tutto, sulla storia e la politica – in senso molto largo e anche metaforico. Quando noi siamo andati con la mia moglie a Umbria, in sua casa di campagna, Michelle Kounellis ha sempre detto, che noi due, noi non facciamo altra cosa, solo parliamo, parliamo… E vero, questa attività passiva è stata la nostra vera piacere e passione… Caro Giuseppe, questa piccola “post-introduzione” personale – e forse troppo aneddotica – è una piccola notizia privata. Sono molto contento e ringrazio di nuovo per il suo bellissimo testo e spero anche io, che – dopo questa imprigionamento – possiamo incontrarci anche personalmente. Noi siamo – in tempi normali – quasi ogni mese a Roma, allora aspetto il nostro incontro!
Un ritratto di uomo, a testa alta, con le braccia conserte, e lo sguardo puntato lontano. È l’ultimo quadro che mi è capitato di vedere dal vero, prima che tutto chiudesse. Era esposto alla mostra di Palazzo Reale a Milano che presentava una selezione di opere del Guggenheim di New York (per la precisione della collezione Tannhaüser, poi donata al museo americano). Quel quadro era il primo della mostra, ma ricordo che mi aveva fatto una tale impressione da averlo voluto vedere di nuovo, facendo a ritroso il percorso e uscendo dall’entrata. Quel quadro è un capolavoro di Paul Cézanne, datato 1899: “L’homme aux bras croisés”. Non si sa chi sia il soggetto. Il figlio dell’artista disse che si trattava di un orologiaio parigino, ma non si sono mai trovate conferme. Certamente, con il suo abbigliamento, rivela un profilo sociale diverso dai contadini che abitualmente posavano per Cézanne ad Aix, la sua città natale, dove sarebbe morto nel 1906. Venne dipinto nello studio parigino di rue Hégésippe-Moreau, come si evince dalla tavolozza e dalle tele appoggiate sulla sinistra.
Se c’è una caratteristica che definisce la grandezza di Cézanne è quella di essere un artista che qualunque cosa affronti, si proietta sempre in una prospettiva biblica. Ed ha qualcosa di biblico anche questo ritratto, per quanto sia il ritratto di un borghese parigino. L’uomo dalle braccia conserte ha infatti un che di pacato e insieme di risoluto. Non lascia nessuna concessione agli estetismi. Sta con la schiena ben eretta, e con lo sguardo sembra operare determinatamente uno strappo: sposta il centro via da sé stesso e anche dal quadro. Sta guardando oltre, nella consapevolezza di tutte le battaglie che in quell’oltre si prospettano. È forte, come dimostra quel gesto un po’ sfidante di tenere le braccia conserte. Ma la sua forza è data soprattutto da quella fermezza morale che lascia trasparire. Non è una forza espressa dalla solidità della posa (Cézanne è artista sommamente inquieto, nel ritratto lascia tante incertezze); è una forza che scaturisce da dentro, da una consapevolezza da cui è stato come investito. Non è un caso che il Nobel Peter Handke, folgorato da questo quadro ad una mostra parigina nel 1978, scrisse che avrebbe voluto farne un eroe di un suo romanzo.
L’uomo senza nome di Cézanne è un avamposto. Un avamposto che scavalca il tempo e si presenta come contemporaneo a noi. Per lui potrebbero valere le meravigliose parole che Charles Péguy dedicò alla figura del padre di famiglia: «Lui non solo è coinvolto dappertutto nella città presente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discendenza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella citta futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il temporale accadere della città».
È l’uomo che senza dirci una parola, ci mette davanti all’unico atteggiamento che occorre per il domani, quando ci saremo lasciati alle spalle non solo l’incubo del virus ma anche le macerie morali e materiali del “mondo di prima”. Ci dice di una necessità di un nuovo inizio, di una determinazione a ricostruire innanzitutto le nostre coscienze, di un coraggio che sappia spazzare via i mezzi piaceri e il narcisismo del passato. Ci dice anche che ci sarà da lottare. Ora capiamo che se l’uomo senza nome di Cézanne ha quell’atteggiamento un po’ sfidante, è perché davvero ci sta lanciando una sfida…
Scritto per la rubrica Riquadri del sito Piccole note di Davide Malacaria
Albino è un centro della Bassa Val Seriana, una delle zone più colpite in queste settimana dall’epidemia di Covid-19. Ad Albino nel 1522 era nato Giambattista Moroni, un artista, che sarebbe diventato famoso per i suoi ritratti (alla National Gallery di Londra gli hanno dedicato un’intera sala) e che Roberto Longhi annoverava tra i più importanti precedenti di Caravaggio (anche lui bergamasco, anche se della Bassa). Ma Moroni era stato anche autore di molte opere sacre, e oggi se si percorre la Val Seriana non c’è paese che non ne vanti una. Sono opere semplici, senza orpelli e senza retorica, di una sobrietà che risente delle raccomandazioni che San Carlo andava distribuendo durante le sue instancabili visite pastorali. Nel suo paese Moroni ha lasciato, tra le altre opere, questa Crocifissione per la parrocchiale di San Giuliano, databile intorno al 1560. È un quadro che si sviluppa in altezza e che alla base ha i santi Bernardino e Francesco inginocchiati in adorazione. Quello che però colpisce di questa è la figura di Gesù crocefisso che si staglia contro un paesaggio fosco e temporalesco, dove tutti i fedeli potevano riconoscere le montagne che circondano Albino a cominciare dalla massa isolata del Monte Misma. Nel cuore di questo cielo oscurato, Gesù è dolorosamente solo, in quel contesto scarno e spogliato di ogni enfasi. È quasi un’icona, che chiama alla meditazione e all’adorazione, ma nello stesso tempo, nella sua semplicità e povertà, è assolutamente reale. La solitudine di questo Gesù crocifisso per analogia richiama quella che stanno sperimentando i tanti conterranei di Moroni, chiamati oggi ad affrontare la morte nelle terapie intensive senza poter contare sulla compagnia delle persone care. È un’analogia che fa capire quanto questa immagine sia vera e vicina alla vita, loro e anche nostra. È un’immagine che nella sua umiltà e compostezza dice quanto Gesù si sia piegato alla nostra condizione umana. C’è poi in quel quadro un tocco che non si può non notare: è il perizoma di Gesù, agitato dal vento tempestoso. Ha un colore dissonante e imprevisto. Un tocco che è l’equivalente di un palpito di cuore: il cuore di Gesù che abbraccia il destino degli uomini.
Articolo scritto per Alias, pubblicato l’8 marzo 2020
Lo scatto è del 13 novembre 1972: Josef Beuys, cappello di feltro in testa, giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla, cammina con un passo pieno di convinzioni verso l’obiettivo e quindi verso di noi. È un’immagine che accoppiata al suo famoso titolo, “La rivoluzione siamo noi”, avrebbe segnato un’epoca. Intorno a Beuys si scorge uno scenario un po’ delabré, da architettura mediterranea decaduta: è quello di Villa Orlandi ad Anacapri, una bellissima costruzione di fine Settecento in abbandono che due anni prima Pasquale Trisorio aveva accettato di risistemare e far rivivere. Trisorio ai tempi faceva parte della squadra di Modern Art Agency, fondata da Lucio Amelio nel 1965: una realtà che aveva aperto la scena artistica napoletana a personaggi come Robert Rauschenberg, Keith Haring, Cy Twombly. Trisorio raccontava di aver sentito “suonare i campanelli” quando la fondazione proprietaria della villa nel 1970 aveva lanciato la chiamata per trovarle una destinazione: ne avrebbe fatto la “cosa che non c’era”, un luogo di incontro e di ritrovo per tanti artisti, con possibilità anche di stare per lunghi periodi a lavorare, usando gli spazi della Villa come studio. Sono rimasti dei bellissimi album dei visitatori a documentare lo straordinario flusso di ospitalità fino all’anno in cui la Villa venne lasciata, nel 1989. Tra i primi c’è proprio Beuys che nel 1971 firma con quattro polaroid della sua famiglia (oltre a lui, la moglie, le figlie Wenzel e Yessyka). La selezione degli album occupa quasi la metà del volume monumentale che la moglie Lucia e la figlia Laura hanno voluto per restituire una documentazione soprattutto visiva della parabola di questo protagonista di quella grande stagione artistica napoletana (“Studio Trisorio. Una storia d’arte”, Electa, pag 566, 80 euro). Una stagione segnata anche da un amaro destino: da Marcello Rumma, a Lucio Amelio fino a Trisorio sono tutti morti prematuramente (Trisorio morì a 60 anni a Lione nel 1992).
Il passaggio chiave per Amelio e Trisorio matura alla metà degli anni 70. Per un anno erano stati in società nella Modern Art Agency, ma le loro erano personalità troppo forti per convivere a lungo. Così nel 1974 Trisorio apriva il suo spazio a Riviera di Chiaia, con una mostra di Dan Flavin in collaborazione con la Galleria Sonnabend. «Le luci sono bellissime», disse il meccanico che occupava il cortile. «Ma i quadri quando li appenderete?». Era in questa Napoli vitale e trasversale che Trisorio e Amelio si muovevano; una Napoli in cui fiorivano tante realtà come lo Studio Morra, il Centro di Dina Caróla, la Galleria Lia Rumma. Amelio nel 1975 apriva la sua galleria con un’installazione destinata a segnare la storia: “Tragedia civile” di Jannis Kounellis, pensata all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo stesso Kounellis compare in una foto del 1972 a Villa Orlandi: attorno al tavolo, dove avevano finito di pranzare, si riconoscono Beuys, Germano Celant, Lucio Amelio e Pasquale Trisorio (lo scatto era di Gianfranco Gorgoni). «Tutto in una foto», scrive Michele Bonuomo «Quel giorno di inizio estate l’uomo con il cappello di feltro ha fatto incrociare i destini dei quattro, e lanciando da Villa Orlandi la parola d’ordine “La rivoluzione siamo noi” segna in qualche modo la vicenda futura di ciascuno di loro. Anche Pasquale raccoglie l’esortazione e da quel momento tutto cambia in lui». L’invito di Beuys, espresso in quel passo risoluto sul viale di Villa Orlandi, era quello di fare di Napoli il teatro antropologicamente perfetto per la sua idea di opera d’arte come corpo sociale. Non c’era nulla di ideologico o di antagonistico in quello slogan di Beuys; piuttosto c’era una spinta vitalistica destinata a trasmettere energia alla scena artistica napoletana. Energia e insieme libertà: emblematico al proposito è l’episodio raccontato nel volume, relativo ancora a Kounellis. L’artista greco era uno dei più fedeli a Villa Orlandi, dove passava lunghi periodi a lavorare. Un giorno se ne allontanò dicendo che sarebbe tornato dopo due giorni. In realtà sparì, lasciando vestiti, carte, materiali per dipingere, lavori iniziati. Durante l’inverno un gruppo di scugnizzi di Anacapri entrarono nella Villa e si divertirono a dipingere sulle tele dell’artista. Trisorio raccontava di aver conservato una tela grigia di Kounellis con sopra una chiesetta bianca e una luna dipinta da quei bambini.
C’è una cifra che caratterizza la proposta espositiva di Trisorio: un trasversalismo che gli permise di puntare subito i suoi interessi sulla fotografia. Nel 1976 affidò a Mirella Miraglia la curatela della mostra che portò alla scoperta delle fotografie di Paolo Michetti: una vera rivelazione, con quello scatto di D’Annunzio sulla spiaggia di Francavilla o la sequenza della Mattanza dei tonni ad Acireale. Il rapporto più intenso è stato naturalmente quello con Mimmo Jodice, napoletano doc, altro abituale frequentatore di Villa Orlandi: nel 1978 la Galleria presentò la mostra “Identificazione”, dove le immagini di Jodice erano affiancate a quelle di coloro che lui riteneva i suoi maestri. Nel cartoncino d’invito infatti c’era non una sua immagine ma la celebre e sofferta foto del padre scattata da Richard Avedon.
Aprire alla fotografia comportò anche un’attenzione precoce alla videoarte: è del novembre 1982 la rassegna “Differenza Video”s che in quattro giorni vide alternarsi tutti i maggiori artisti, da Bruce Nauman, a Bill Viola, Nam June Paik, Joan Jonas… Forse è sull’onda di quell’esperienza che Laura, una delle tre figlie di Pasquale, una volta morto il padre decise di avviare l’avventura di Festival Artecinema, una rassegna di documentari d’arte contemporanea, che dal 1996 ogni anno a ottobre invade tanti teatro e cinema di Napoli, a iniziare del San Carlo, con un successo costante di pubblico.
Quanto a Pasquale lo vediamo vivere nella sequenza lunghissima di foto, sempre felice di condividere nuove avventure con gli artisti che si alternavano nella sua Galleria. Si respira sempre un tono di simpatia e di complicità anche laddove le prove erano po’ estreme. Nel 1975 Vincent D’Arista gli propose un progetto che prevedeva la distruzione della Galleria durante la mostra di Shusaku Arakawa. Dopo un po’ di resistenze Trisorio diede il via libera senza sapere quale fosse l’intenzione finale di D’Arista: la distruzione della Galleria prevedeva inevitabilmente l’eliminazione del gallerista. Trisorio venne legato con uno spago e costretto a stare sdraiato. “Don’t Step on Me” era il titolo della performance. “Non calpestarmi”. Nel 1999 Maurizio Cattelan avrebbe ripetuto il rito legando e appendendo Massimo De Carlo al muro della sua Galleria milanese. Trisorio da lassù avrà sorriso…
O meglio perché faccio questo blog: perché penso che la storia dell'arte liberi la testa, perché è stupido vedere 150 mostre all'anno senza lasciare una traccia di pensiero.