Articolo scritto per Alias, pubblicato l’8 marzo 2020
Lo scatto è del 13 novembre 1972: Josef Beuys, cappello di feltro in testa, giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla, cammina con un passo pieno di convinzioni verso l’obiettivo e quindi verso di noi. È un’immagine che accoppiata al suo famoso titolo, “La rivoluzione siamo noi”, avrebbe segnato un’epoca. Intorno a Beuys si scorge uno scenario un po’ delabré, da architettura mediterranea decaduta: è quello di Villa Orlandi ad Anacapri, una bellissima costruzione di fine Settecento in abbandono che due anni prima Pasquale Trisorio aveva accettato di risistemare e far rivivere. Trisorio ai tempi faceva parte della squadra di Modern Art Agency, fondata da Lucio Amelio nel 1965: una realtà che aveva aperto la scena artistica napoletana a personaggi come Robert Rauschenberg, Keith Haring, Cy Twombly. Trisorio raccontava di aver sentito “suonare i campanelli” quando la fondazione proprietaria della villa nel 1970 aveva lanciato la chiamata per trovarle una destinazione: ne avrebbe fatto la “cosa che non c’era”, un luogo di incontro e di ritrovo per tanti artisti, con possibilità anche di stare per lunghi periodi a lavorare, usando gli spazi della Villa come studio. Sono rimasti dei bellissimi album dei visitatori a documentare lo straordinario flusso di ospitalità fino all’anno in cui la Villa venne lasciata, nel 1989. Tra i primi c’è proprio Beuys che nel 1971 firma con quattro polaroid della sua famiglia (oltre a lui, la moglie, le figlie Wenzel e Yessyka). La selezione degli album occupa quasi la metà del volume monumentale che la moglie Lucia e la figlia Laura hanno voluto per restituire una documentazione soprattutto visiva della parabola di questo protagonista di quella grande stagione artistica napoletana (“Studio Trisorio. Una storia d’arte”, Electa, pag 566, 80 euro). Una stagione segnata anche da un amaro destino: da Marcello Rumma, a Lucio Amelio fino a Trisorio sono tutti morti prematuramente (Trisorio morì a 60 anni a Lione nel 1992).
Il passaggio chiave per Amelio e Trisorio matura alla metà degli anni 70. Per un anno erano stati in società nella Modern Art Agency, ma le loro erano personalità troppo forti per convivere a lungo. Così nel 1974 Trisorio apriva il suo spazio a Riviera di Chiaia, con una mostra di Dan Flavin in collaborazione con la Galleria Sonnabend. «Le luci sono bellissime», disse il meccanico che occupava il cortile. «Ma i quadri quando li appenderete?». Era in questa Napoli vitale e trasversale che Trisorio e Amelio si muovevano; una Napoli in cui fiorivano tante realtà come lo Studio Morra, il Centro di Dina Caróla, la Galleria Lia Rumma. Amelio nel 1975 apriva la sua galleria con un’installazione destinata a segnare la storia: “Tragedia civile” di Jannis Kounellis, pensata all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo stesso Kounellis compare in una foto del 1972 a Villa Orlandi: attorno al tavolo, dove avevano finito di pranzare, si riconoscono Beuys, Germano Celant, Lucio Amelio e Pasquale Trisorio (lo scatto era di Gianfranco Gorgoni). «Tutto in una foto», scrive Michele Bonuomo «Quel giorno di inizio estate l’uomo con il cappello di feltro ha fatto incrociare i destini dei quattro, e lanciando da Villa Orlandi la parola d’ordine “La rivoluzione siamo noi” segna in qualche modo la vicenda futura di ciascuno di loro. Anche Pasquale raccoglie l’esortazione e da quel momento tutto cambia in lui». L’invito di Beuys, espresso in quel passo risoluto sul viale di Villa Orlandi, era quello di fare di Napoli il teatro antropologicamente perfetto per la sua idea di opera d’arte come corpo sociale. Non c’era nulla di ideologico o di antagonistico in quello slogan di Beuys; piuttosto c’era una spinta vitalistica destinata a trasmettere energia alla scena artistica napoletana. Energia e insieme libertà: emblematico al proposito è l’episodio raccontato nel volume, relativo ancora a Kounellis. L’artista greco era uno dei più fedeli a Villa Orlandi, dove passava lunghi periodi a lavorare. Un giorno se ne allontanò dicendo che sarebbe tornato dopo due giorni. In realtà sparì, lasciando vestiti, carte, materiali per dipingere, lavori iniziati. Durante l’inverno un gruppo di scugnizzi di Anacapri entrarono nella Villa e si divertirono a dipingere sulle tele dell’artista. Trisorio raccontava di aver conservato una tela grigia di Kounellis con sopra una chiesetta bianca e una luna dipinta da quei bambini.
C’è una cifra che caratterizza la proposta espositiva di Trisorio: un trasversalismo che gli permise di puntare subito i suoi interessi sulla fotografia. Nel 1976 affidò a Mirella Miraglia la curatela della mostra che portò alla scoperta delle fotografie di Paolo Michetti: una vera rivelazione, con quello scatto di D’Annunzio sulla spiaggia di Francavilla o la sequenza della Mattanza dei tonni ad Acireale. Il rapporto più intenso è stato naturalmente quello con Mimmo Jodice, napoletano doc, altro abituale frequentatore di Villa Orlandi: nel 1978 la Galleria presentò la mostra “Identificazione”, dove le immagini di Jodice erano affiancate a quelle di coloro che lui riteneva i suoi maestri. Nel cartoncino d’invito infatti c’era non una sua immagine ma la celebre e sofferta foto del padre scattata da Richard Avedon.
Aprire alla fotografia comportò anche un’attenzione precoce alla videoarte: è del novembre 1982 la rassegna “Differenza Video”s che in quattro giorni vide alternarsi tutti i maggiori artisti, da Bruce Nauman, a Bill Viola, Nam June Paik, Joan Jonas… Forse è sull’onda di quell’esperienza che Laura, una delle tre figlie di Pasquale, una volta morto il padre decise di avviare l’avventura di Festival Artecinema, una rassegna di documentari d’arte contemporanea, che dal 1996 ogni anno a ottobre invade tanti teatro e cinema di Napoli, a iniziare del San Carlo, con un successo costante di pubblico.
Quanto a Pasquale lo vediamo vivere nella sequenza lunghissima di foto, sempre felice di condividere nuove avventure con gli artisti che si alternavano nella sua Galleria. Si respira sempre un tono di simpatia e di complicità anche laddove le prove erano po’ estreme. Nel 1975 Vincent D’Arista gli propose un progetto che prevedeva la distruzione della Galleria durante la mostra di Shusaku Arakawa. Dopo un po’ di resistenze Trisorio diede il via libera senza sapere quale fosse l’intenzione finale di D’Arista: la distruzione della Galleria prevedeva inevitabilmente l’eliminazione del gallerista. Trisorio venne legato con uno spago e costretto a stare sdraiato. “Don’t Step on Me” era il titolo della performance. “Non calpestarmi”. Nel 1999 Maurizio Cattelan avrebbe ripetuto il rito legando e appendendo Massimo De Carlo al muro della sua Galleria milanese. Trisorio da lassù avrà sorriso…