Il peso di certi personaggi lo si misura anche dalla quantità di storia che hanno mobilitato. Germano Celant è uno di questi. È stato interessante ed molto istruttivo leggere alcuni degli interventi pubblicati dopo la sua morte. Per questo mi è sembrato utile raccogliere in un pdf i più interessanti tra questi interventi, compresa l’intervista che Celant aveva rilasciato a Domenico Gnoli nel 2017. Allego la raccolta, perché può essere utile leggerla.
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Fondazione Prada, una mostra che lancia un nuovo paradigma
«Mi sono tirato via come curatore. Il curatore di questa mostra è la storia». È quanto mi dice Germano Celant, in un breve dialogo dopo aver visto la sua nuova mostra a Fondazione Prada, ”Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943”. È la chiave per capire questa operazione destinata, proprio per il metodo usato, a lasciare un segno profondo. Il metodo è il cuore: vedere l’arte italiana tra le due guerre come di volta in volta si presentò. Dice Celant: «L’obiettivo è stato quello di andare oltre l’idealismo espositivo, dove le opere d’arte, nei musei e nelle istituzioni, sono messe in scena in una situazione anonima e monocroma, generalmente su una superficie bianca, per riproporle in relazione a una testimonianza fotografica d’epoca e nel loro spazio storico di comunicazione».
Il risultato è affascinante e insieme imponente, per dimensioni e anche per audacia del tentativo: entrare nel circuito allestito negli spazi di Fondazione Prada, è come entrare nel tunnel del tempo. Di volta in volta piccole foto propongono un fatto espositivo o allestitivo che aveva segnato la storia di quegli anni, e poi ce lo si ritrova davanti in scala uno a uno, intarsiati, ogni volta da opere vere, che irrompono il grigio sgranato del fondo ricostruito. Non ci sono volutamente discorsi critici in questa mostra. L’opera infatti è trattata alla stregua delle centinaia di documenti che corredano le bacheche. La vediamo ogni volta ricollocata nel suo tempo, all’interno di un flusso che riserva una quantità davvero straordinaria di sorprese.
È una mostra immersiva, perché il visitatore è risucchiato da questo flusso; è catturato dentro un pendolo a tratti spiazzante, in cui vediamo l’arte italiana oscillare senza troppe regole tra allineamento al regime e libertà, tra monumentalismo e razionalismo, tra intimismo ed enfasi pubblica. Tutte esperienze che accadevano in una contiguità spaziale e temporale.
La mostra ci porta dentro quest’Italia, strappando molte volte autentici sussulti di ammirazione (la parete che ricostruisce la Maison Rosenberg con i Gladiatori di De Chirico, per esempio; il Dinamismo di un calciatore, di Boccioni, uno dei quadri colossali dell’intero 900, riproposto com’era in casa Marinetti con la ceramica di Tullio d’Albisola: ma si dovrebbero elencare decine di situazioni sorprendenti).
La mostra si chiude con una grande tavolata imbandita di centinaia di libri, simobolo di un cantiere storico e critico da cui questa mostra ha attinto ma che questa mostra contribuisce certamente ad alimentare, oltre gli schemi consueti.
Tintoretto + America= Vedova
Questa recensione è stata scritta per Alias e pubblicata domenica 23 febbraio.
Nella foto lo si vede sbucare dalle scale del metro di New York, con la sua sagoma allampanata e lo sguardo già conquistato dal vortice urbano che che si scatena tutt’intorno a lui. La foto è del 1967 ed è interessante perché attesta con immediatezza una sorta di consanguineità: Emilio Vedova, veneziano ad oltranza, “fratello” di Tintoretto e di Giandomenico Tiepolo, intercettava in quella città esagitata e in tumulto qualcosa di familiare. Un luogo vitale, eccitato, ma che come la sua Venezia sembrava sempre sul punto di poter precipitare in un cumulo di rovine.
Quanto New York e l’America fossero entrati nei pensieri e nella pittura di Emilio Vedova lo rivela oggi una mostra organizzata a Verona dalla Galleria dello Scudo, in collaborazione con la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova: si tratta di una trentina di opere mai viste prima d’ora, realizzate tra 1976 e 1977, e intitolate “De America”. Dalla mostra nascerà un libro di prossima pubblicazione curato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione e da Laura Lorenzoni, in cui verranno ricostruiti tutti i rapporti tra l’artista e gli Stati Uniti (edito da Skira).
È noto come Venezia fosse stata individuata dallo stesso governo Usa come la vetrina perfetta per portare in Europa le grandi novità dell’arte americana. Peggy Guggenheim aveva fatto da apripista; poi le Biennali, a partire dal 1948 con la presentazione di Pollock, erano diventate dei veri avamposti di una stategia studiata puntigliosamente (ben ricostruita da Francesco Tedeschi nel suo La scuola di New York, ed. Vita e Pensiero). Che un trentenne come Vedova si facesse profondamente segnare da quella contaminazione, che oltrettutto si consumava proprio nella sua Venezia, era un po’ nell’ordine delle cose. Vedova sentiva certamente molto più suo quel vento libertario arrivato d’oltreceano che non il realismo ad oltranza che dominava la pittura “politica” nell’Italia di quegli anni. Così nel 1951 lo troviamo già a New York ad esporre da Catherine Viviano; nel 1956 viene insignito del Salomon R. Guggenheim Foundation Award. Lo stesso anno una sua opera entra nelle raccolte del Moma. Nel 1960 arriva il Leone d’oro alla Biennale, da una giuria non a caso presieduta dal britannico Herbert Read. In mezzo ci sono le presenze alle Biennali di San Paolo e l’ingresso nelle collezioni del più americano di tutti i grandi collezionisti europei, Giuseppe Panza di Biumo. Vedova alla fine degli anni 60 tiene anche delle memorabili “lectures” sull’“artista oggi” all’Università di Berkeley. Nel 1967 invece riceve la commessa per il Padiglione Italiano dell’Expo: in quest’occasione presenta una grande istallazione luminosa Spazio/Plurimo/Luce, realizzata attraverso proiezioni con vetrini realizzati a mano dagli artigiani di Murano.
Quello tra Vedova e l’America è dunque un feeling intensissimo durato 25 anni, che nel ciclo del 1976/77 trova una sintesi dal sapore straordinariamente piranesiano. Non è un caso che l’artista abbia scelto di usare solo il bianco e nero, anche se si sa come le varianti dei neri, dei bianchi e dei grigi nella pittura di Vedova siano infinite. Complessivamente il ciclo si compone di tre grandi tele (in mostra ce ne sono due), di 13 carte delle stesse dimensioni, tutte esposte, e di un gruppo di lavori più piccoli ma assolutamente compiuti. Che l’aurea nella quale Vedova si muove sia quella larga dell’espressionismo astratto americano, ci sono pochi dubbi. Ma Germano Celant nel suo testo avverte di una profonda e anche decisiva differenza: «Vedova si ritaglia un territorio importante, quello del sogno errante che procede per balzi e per tagli, per fenditure e per cerniere con cui escludere definitivamente la rigidità e la monoliticità di un Kline, le istanze riduttive di Stella e, poi, di LeWitt. Rispetto agli espressionisti astratti che dimostrano una tendenza a controllare e definire, Vedova lascia che i segni prendano l’iniziativa e dominino la scena».
Il Vedova americano si porta dentro lo stigma di quel catastrofismo che da Tintoretto in poi ha segnato tanta grande pittura veneziana: per questo nelle sue tele ritroviamo un elemento che è estraneo o addirittura ignoto alla nuova arte americana. È il segno delle ombre, che s’infrattano in ogni centimetro di tela, innestando una dimensione di vorticosa precarietà, dando profondità anche storica al dramma dell’evento pittorico. Nel rutilante dispiegarsi di immaginarie geometrie urbane, nella scatenata danza operata con ogni strumento sulla tela, Vedova non censura mai la sofferenza per uno spettacolo che in realtà prevede nel suo spartito tante ferite, illusioni, fallimenti. È lo spettacolo americano, riconosciuto come fattore decisivo di modernità, ammirato per quella sua portata libertaria, ma visto con l’occhio profondo, scafato di chi ha frequentato il buio di Tintoretto o la spericolatezza cupa di Piranesi.
Vedova si lascia conquistare da quest’America, ma non ne resta soggiogato. Anzi, ritenendo che il proprio mestiere di pittore contempli anche un dovere morale, con questo ciclo sembra voler ricambiare il tanto ricevuto, restituendo un qualcosa che sembra un orizzonte, un luogo in cui meditare sul proprio destino, uno sguardo in profondità che liberi per un istante da quello stentoreo obbligo di essere sempre affermativi. «Certo l’America a me è rimasta dentro; come europei ne sentiamo la responsabilità, comprendiamo tante distorsioni e tanti inaridimenti umani, avvenuti per sopravvivere», annota non a caso Vedova. Che poi aggiunge: «Provoca immensa pietà quest’uomo, sradicato, perseguitato, che deve pure credere a qualche cosa per trovare la forza di restare, radicarsi, costruire…».
Davanti a queste tele e carte che costituiscono il De America comprendiamo allora meglio quale fu, verosimilmente, lo sguardo gettato da quell’allampanato veneziano che vediamo sbucare dalle scale del metro newyorkese. Uno sguardo conquistato, intriso di meraviglia, anche grato per tutta quell’energia che vedeva vorticare attorno a sé e che sapeva di poter far sua. Ma in quello sguardo c’era da subito, come lui stesso confessa, anche un sentimento istintivo di pietà. Per questo nel Vedova del De America, sentiamo vibrare passioni, ma anche avvertimenti che danno alla sua pittura un fremito profetico.
Carne svedese
Vista alla Fondazione Prada la mostra di Nathalie Djurberg (Svezia 1978). Una Louise Bourgeois che abbia aggiornato la crudeltà allo standard dei nuovi tempi. Qui non c’è più spazio per intimismi o nostalgie. La realtà è svergognata senza pietà. Dice Celant che i suoi soggetti sono “cannibalizzati dall’arte”. Ci azzecca. È l’uomo che precipita in un destino da bestie, senza scampo. Chi lo sa si infila nella pelle di una lontra e si trasforma addirittura in lontra. Fa pensare questa predisposizione femminile a infierire sul destino del corpo e dell’uomo (pensare a Jenny Saville). Anzi inquieta. È un male profondo, senza soluzione. Se l’”origine del mondo” si schiera sistematicamente contro il mondo, davanti c’è solo il capolinea. A meno che la cifra sia un’altra. E che l’irruenza sarcastica e devastante alla fine non affermi un livello più forte e più desiderato di vita. Nathalie avrà sarà madre?
Forte l’allestimento. Navigando sul sito qualcosa si coglie.