Robe da chiodi

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L’abbraccio del Sabato santo

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Le immagini che attraverso l’occhio e l’immaginazione dell’arte scandiscono la vita e la passione di Gesù, sono davvero precise al dettaglio: assemblandole se ne potrebbe ricavare il più straordinario film del mondo.

Se prendiamo il momento della Passione e morte di Gesù un fotogramma sarebbe senz’altro dedicato al Seppellimento del Signore, che segue la Deposizione e l’Unzione del suo corpo (il celebre Cristo morto di Mantegna è appunto deposto sulla Pietra dell’Unzione). Il Seppellimento è stato immaginato da decine e decine di artisti, ma c’è un risvolto di questo episodio che è presente in modo quasi sistematico solo nella pittura del 300: è l’istante immaginato dell’abbraccio della Madre al corpo del Figlio prima che scenda nella tomba. È un abbraccio “cercato” che viene a costituire il vero centro della scena, facendo scalare quasi in secondo piano la circostanza del seppellimento. Troviamo questo abbraccio in Giotto ad Assisi, in Duccio nella formella della Maestà emigrata a Londra, in Pietro Lorenzetti ad Assisi, o anche in artisti minori come Ugolino da Siena nella predella del polittico di Santa Croce. L’elenco potrebbe essere ben più lungo. Va sottolineato che queste immagini presentano delle costanti: Maria si distende sempre con un movimento orizzontale, quasi uno slancio, per avvicinarsi il più possibile al corpo del Figlio. L’abbraccio poi avviene in modi diversi, ma è sempre il punto emotivamente cardine della scena. Ad esempio nell’affresco della chiesa di San Nikita, a Cucer, in Macedonia (anno 1320), Mihail Astrapàs immagina che sia Maria stessa nell’abbraccio a sostenere il corpo di Gesù e quindi la sua mano destra passa sotto la testa del Figlio, già avvolto nella sindone.

È la stessa scelta fatta dall’artista che nella Cripta del Duomo di Siena ha dipinto una delle varianti più commoventi del Seppellimento di Gesù. Gli affreschi della Cripta sono il frutto di uno straordinario ritrovamento fatto una ventina di anni fa da uno dei più autorevoli studiosi dell’arte senese, Alessandro Bagnoli. Infatti quegli ambienti erano stati riempiti di terra, pietra e altri materiali per permettere di costruire l’abside del Duomo ad inizio ‘300. In questo modo gli affreschi si sono conservati con delle cromie brillantissime. Siamo in una stagione che precede il fiorire del genio di Duccio a Siena, ma già ci si è staccati dai rigidi stereotipi bizantini. Gli affreschi vibrano perciò di drammaticità e anche di fisicità. Maria, avvolta in un mantello blu si piega a 90 gradi per abbracciare Gesù disteso sulla pietra del Sepolcro. Appoggia il suo volto sul volto del Figlio, mentre con le braccia lo stringe a sé, ripetendo quel gesto che le abbiamo visto fare in mille altre immagini dell’arte quando Gesù era bambino. 

Ovviamente una scena come questa non può non richiamare, per contrasto, l’impossibilità di un abbraccio ai propri cari strappati alla vita dall’epidemia di Coronavirus. È certamente uno dei risvolti più affettivamente dolorosi dell’emergenza che in queste settimane abbiamo vissuto: doloroso per chi è morto senza poter essere accompagnato, e doloroso per chi ha dovuto forzatamente mantenersi a distanza da quel proprio caro. Ma di fronte a questi mancati abbracci si può capire pienamente il senso di una scena come quella di cui abbiamo parlato fin qui: il gesto di Maria non è per sé, ma per il mondo. Per questo gli viene dato una rilevanza così vistosa e anche così “pubblica”. L’abbraccio prende il centro della scena, perché chiunque guarda se ne senta coinvolto. Ed è tale la commozione che gli artisti immettono nelle rispettive opere, che è difficile dubitare che quell’abbraccio nella sua concretezza non ci investi e non ci riguardi.

Written by gfrangi

Aprile 18th, 2020 at 11:12 am

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Quando la pittura “deve” parlare (come guardare la Presentazione al tempio)

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Questo articolo è stato scritto per Il Sussidiario del 2 febbraio, giorno in cui si festeggia la Presentazione al Tempio di Gesù.

Per capire cosa significa essere un grande artista basterebbe osservare come sono state immaginate tante raffigurazioni della Presentazione al Tempio di Gesù . La dinamica dei fatti è elementare e non fornisce spunti spettacolari. È quasi una situazione da routine. L’immaginazione di un artista può tutt’al più fantasticare sulle architetture del grande tempio, può aggiungere dettagli nel descrivere i doni che Giuseppe porta con sé. In realtà in quell’episodio dalla dinamica così normale gli artisti si trovano a dover affrontare un qualcosa che esce dalla routine: ed è la figura dell’anziano Simeone. I quadri sono per antonomasia muti, non hanno parole, invece quell’episodio vive e fa sussultare ogni volta che lo si rilegge, proprio per delle parole che Simeone pronuncia: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola; / perché i miei occhi han visto la tua salvezza / preparata da te davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele».

Duccio, predella della Maestà di Siena


In sostanza il cuore della scena è un cuore verbale, e così all’artista tocca render quel cuore, lavorando solo sulla figura e facendola “parlare”. Guardiamo, ad esempio, quale strategia usa Duccio nella predella della Maestà senese: Simeone, si china e curva la sua vecchia schiena verso Gesù, che Maria ha messo tra le sue braccia. Già questo incurvarsi è un’immagine che parla, che racconta di un’attrazione carica di dolcezza. Ma Duccio aggiunge dell’altro: Simeone ha le mani coperte dal mantello in segno di rispetto e tiene una distanza devota dal Bambino. Gli occhi sono quelli logorati dall’uso di un sapiente anziano: ma lo sguardo è quello di chi consiste tutto in ciò che vede.

Giotto, Cappella Scrovegni


Giotto per natura è diverso. È un artista di corpi solidi e ben piantati per terra. Il suo Simeone alla cappella degli Scrovegni sta infatti saldo e a schiena dritta, nonostante l’età. Per questo Giotto gioca tutta la partita sullo sguardo, che è sottile, profondo, totale e che si incrocia con quello già pieno di consapevolezza del Bambino: una corrispondenza che davvero “parla” di una salvezza vista, incontrata, toccata.

Mantegna, GemäldeGalerie, Berlino


«Lo prese tra le braccia», racconta il Vangelo di Luca: a volte gli artisti si concentrano sull’attimo che precede o su quello che segue. Mantegna, l’austero e “terribile” Mantegna, dispone le figure dentro una scatola spaziale. Simeone è di profilo e sta allungando le mani per prendere il Bambino in fasce: è ancora nella situazione di un attimo prima, cioé di colui che «aspettava il conforto d’Israele», come sempre scrive Luca introducendo l’episodio.

Bergognone, Chiesa dell’Incoronata, Lodi


All’opposto di Mantegna c’è il grande e commosso Bergognone, lombardo capaci di straordinarie intensità affettive. Lui si sofferma invece sull’atto finale, la riconsegna del Bambino a Maria: il suo volto, nella sobrietà della vecchiezza, “parla” di una felicità che si è compiuta. È il momento del “Dimitte nobis Domine”.

Rembrandt, Nationalmuseum, Stoccolma


Bisognerebbe poi raccontare dell’immenso Rembrandt, che dipinse la Presentazione in più varianti, sempre con una libertà interpretativa assolutamente moderna. Nella più folgorante (quella conservata al Museo di Stoccolma) sulla scena restano solo Simeone e Anna. Lui sta seduto, sprofondato in una vecchiezza quasi terminale: eppure, anche in quella condizione di sfinimento fisico, c’è spazio per uno stupore totale. È un quadro meraviglioso dell’ultimo Rembrandt, il quale, dipingendolo, parla a sé e per sé. Un quadro implorazione, verrebbe da dire, in cui l’artista chiede con parlando con i suoi colori rabbuiati, che anche a lui accada come a Simeone. È quasi una preghiera da guardare. Un quadro, in fondo, dipinto anche per noi.

Written by gfrangi

Febbraio 8th, 2017 at 5:47 pm

E i vivi parean vivi. Ricordo di Luciano Bellosi

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Non ho mai avuto la fortuna di conoscere Luciano Bellosi, morto martedì, se non in occasioni di alcune telefonate, una in particolare per un’intervista che gli feci prima della grande mostra su Duccio a Siena nel 2003. L’ho conosciuto molto di più attraverso le sue pagine, che mi sono sempre sembrate all’insegna di una limpidezza di pensiero e di un grande senso civile rispetto alle cose che di volta in volta studiava. Ne ritrovo lo spirito in queste parole che mi disse a sintesi del suo pensiero su Duccio: «Per me la bellezza di Duccio si fonda sulla serietà e sulla convinzione. Ha visto con i suoi occhi la potenza della rivoluzione giottesca, l’ha assimilata a modo suo senza riserve mentali, ma ha avuto la forza di restare se stesso. Ha proiettato nell’intensità dei colori, come in quei rossi vinati e scuri, il proprio stupore per il reale. Ma non ha mai smarrito il senso dell’equilibrio. La profondità di accenti non è mai andata a discapito della raffinatezza».
Mi aveva appassionato il suo procedere sempre così persuasivo e logico nel riconsegnare a Giotto le scene con le Storie di Isacco nella Basilica di Assisi, dove spiccava quella indimenticabile figura di Giacobbe, con l’occhio teso, quasi puntato a ipnotizzare il padre e a nascondere l’inganno.
Sempre a proposito di Giotto ero annotato queste sue parole, riferite al Crocifisso di Santa Maria Novella «per la prima volta in pittura, le forme e le posizioni di un vero corpo umano […], il dolore e la morte non si traducono più in una forma araldica».
E poi come non sentirsi grati a Bellosi per aver scelto per titolo alla sua raccolta di scritti sulla pittura del Due e Trecento E i vivi parean vivi, titolo ripreso dal versetto del 12 del Purgatorio, quando Dante passava davanti ai bassorilievi che rappresentavano le vicende dei superbi.

Unica vera amarezza, che un libro stupendo come La pecora di Giotto (Einaudi, 1985) sia vergognosamente fuori catalogo e assolutamente introvabile. Lo si può leggere qui in pdf.

Written by gfrangi

Aprile 27th, 2011 at 9:29 pm

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