Il Giornale dell’arte presenta una ragionata anteprima della mostra londinese sugli anni milanesi di Leonardo (“la più importante dopo quella del 39 a Milano”). C’è l’elenco delle opere esposte, con prestiti davvero straordinari, in primis la Vergine delle Rocce parigina. Dalla presentazione si deduce che per non voler intendere e volere gli organizzatori della mostra hanno fatto finta che il libro di Alessandro Ballarin non sia ancora uscito. Lo si deduce dalle date della prima Vergine delle rocce, assegnata al 1486, quando Ballarin ha portato prove molto ragionate che la riferiscono ai primi mesi milanesi. Soprattutto si continua con l’anacronismo della Dama con l’ermellino che stilisticamente non ha senso portata così avanti (primi anni 90). Questa datazione è dettata oltre che da una lettura parziale dei documenti, da una sorta di non detta (e un po’ ridicola) pruderie: si dà per escluso che Ludovico potesse essersi fatto un’amante tredicenne. Invece le cose erano andate così e anche in questo caso Ballarin porta prove difficilmente smentibili. Ovviamente se ne può discutere, ma fa triste impressione questo andare avanti come nulla fosse. Del resto anche l’informazione ci mette la sua: perché il Giornale dell’arte, non ha detto ai suoi lettori dell’uscita di un libro di tanta importanza e che oltretutto rimedia almeno in parte all’umiliazione di vedersi scippati di una mostra come questa, che avrebbe dovuto essere tutta italiana, anzi tutta milanese? Forse perché Ballarin rompe qualche uova di troppo nel paniere degli esperti leonardeschi?
Mi consolo con questi due brani che mi son segnato dalla recensione di Gadda alla mostra del 39.
“Avvicinare Leonardo! Ci troviamo, davanti a lui, come alla sorgente stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i “phaenòmena”: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre: a profittare per “li òmini”: del profitto di ragione e verità”.
“Fantasioso […] può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto percorre bene spesso ogni possa dell’arte (nel senso di tecnica) e del secolo suo: […] appare anche confermata una misura di ragione, un rigore dell’osservazione: una conoscenza faticata e vissuta, e infine assai propria, di molte cose della natura. Non arbitrio o giuoco; ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravvedute verità”.