Uno scrocio della sala dedicata a Morlotti
Vista la mostra su Testori a Ravenna. Ecco qualche prima sommaria valutazione.
È una mostra che riesce ad essere compatta nonostante l’arco temporale che deve coprire e la diversità di esperienze e di personaggi che in qualche modo hanno fatto capo a Testori critico e storico dell’arte. Il merito va Claudio Spadoni che ha saputo tenere in pugno la regia senza cedere a compromessi che avrebbero aggiunto poco e avrebbero reso confuso il percorso disorientando il visitatore. In mostre come queste tener presente l’occhio di chi verrà a vedere è preoccupazione giusta e costringe a render chiaro se stessi l’obiettivo. Tante altre volte abbiamo visto Testori in melassa testoriana, qui per fortuna vediamo un Testori affrontato con lucidità intellettuale.
La mostra è anche una mostra ricca, nel senso che è alta la qualità di gran parte delle opere esposte, e nel senso che tante sono le sorprese che il percorso riserva. Soprattutto il percorso non è affatto monocorde: un dato che fa pensare e che sgombra il campo dal “testorismo”…
Il percorso. Apre con il colpo di scena dell’Apocalisse, il grande ritratto (5 metri di base!) che Varlin fece a T. Si intrattiene fugacemente sul nodo culturale degli anni 40 (tra Matisse e Manzù: belli i disegni delle Erbe). Poi si incammina in modo classico e ben recepibile in senso cronologico. Foppa (l’inizio di tutto, lo si guarda con ammirata gratitudine) e Romanino danno il via. Manca il grande Spanzotti, ma c’è un Gaudenzio giovanile che fa per lui… Poi il primo piano segue con 600 e 700, con la lucidità di Tanzio che tiene banco e con il grande cuore di Ceruti che attraversa i secoli: il suo Pellegrino a riposo, che viene dalla Fondazione Longhi, sembra un quadro dipinto per parlarci oggi. Non c’è nessuna paura del tempo in lui. Solo pienezza umana. Il meno per Ceruti diventa un più.
Il secondo piano balza all’800, partendo da Géricault, passando per Courbet per poi transitarci nel 900 con la Nuova Oggettività e un po’ di Novecento italiano. Poi lo snodo svizzero di Varlin e Giacometti. In queste sale lasciano il segno i due Gruber, tesi e come attraversati da un vento di vetro.
Il terzo piano si apre con una sobria selezione di ritratti a Testori (testimonianza dei sodalizi umani che il suo essere critico comunque originava: qui è meraviglioso il ritratto al Testori malato di Rainer Fetting). Segue la “banda” dei tedeschi che negli anni 80 avevano riacciuffato il filo perduto della pittura. Poi arriva il colpo maestro di una grande sala morlottiana, in cui si dimostra quanto sia impropria la dimenticanza calata sul grande lecchese.
Bacon, After Muybridge, man on a rowing machine, 1952
Nelle ultime sale Spadoni ha messo in scena un cannocchiale prospettico che vede da una parte la “larva” del vogatore di Bacon e dall’altra il sigillo di Caravaggio: un’ottima idea che permette, senza muoversi, di percepire il legante tra quelle due figure caposaldo del mondo di Testori. Su quell’asse, oltre alla sala morlottiana, si apre che una sala che ripropone il ritorno della pittura degli anni 80, ancora con (tra gli altri) Fetting, Hoddicke e Paladino e Cucchi. Chiude un malinconico, stupendo, straziante Guttuso: Passeggiata nel giardino di Velate (1983). Un quadro che resta innamorato della vita, nonostante la vita sfugga… Ed è un quadro che invita a passare alla sala finale, dove con un colpo di teatro Spadoni ha scelto di raccogliere cinque artisti totem di Testori, già visti in mostra, ma qui radunati come per un crescendo finale, al massimo registro: la scossa elettrica del Caravaggio collezione Longhi, si accompagna a Giacometti (il dottor Corbetta, dottore anche di Varlin…), Bacon di nuovo, alla inarrivabile Erodiade di Del Cairo (da cui l’avventura del Testori critico aveva preso il via), alle Bagnanti di Morlotti (1988), vero sorprendente colpo al cuore, grande quadro costruito di tra e di sole.
Punti deboli. Ne ho riscontrati solo un paio: troppo esangue rispetto alla centralità che ebbe per Testori la sala di Gèricault. E nella sala della Nuova Oggettività manca il perno: che non poteva essere altro che Christian Schad (ma degli anni giusti).
Il catalogo. Bello nella parte dei saggi, specie i tre più storicizzanti di Davide Dall’Ombra, di Claudio Spadoni stesso e di Marco A. Bazzocchi. Deludente invece nella parte delle schede. Era molto meglio seguire il percorso della mostra piuttosto che presentare gli artisti un po’ scontatamente in senso cronologico (per altro scorrendo il catalogo si capisce come il “flusso” non organizzato avrebbe generato grande confusione nei visitatori. E quindi indirettamente si apprezza ancor di più la mostra). Certo che le riproduzioni…
Qui le immagini della mostra sala per sala.