A proposito di parole che si attaccano agli artisti e non li mollano più, sono quasi spettacolari quelle che Testori incollò al destino Carlo Ceresa, di cui si apre ora una grande mostra a Bergamo. Parole fiondate su Ceresa a 30 anni di distanza le une dalle altre. Più controllate ma comuqnue “definitive” quelle del 1953, dove su Paragone, a proposito dei ritratti scrive: «… da questa accettazione che è sua né più né meno dei suoi personaggi… nasce quella monumentalità urbana che gli è così particolare: non ingrandimento parenetico, ma espansione libera della persona nel proprio ambiente…»
Più libere e immaginifiche le parole usate nel 1983, per la recensione della mostra bergamasca su Corriere della Sera. Ricordando come il padre di Ceresa fosse calzolaio e lui dunque di pelli e di cuoi ne avesse dovuto ben viste passare scrive: «È ben più di un’infantile memoria, … è il luogo d’identificazione del suo croma, diciamo pure la parola, del suo pittorico impasto, non capendo il quale, e prima, non amandolo, poco, credo, si possa capire ed evocare dell’imposto figurale e scenico, in che tale impasto, di volta in volta si realizza». Ma l’apice nella stessa recensione è questo: «…il Ceresa una sua poesia aveva pur saputo crearla: una poesia concreta, familiare, alpigiana, polentesca, cascinesca, catechistica, rosariante, castagnosa, lattea, formaggesca; a questo ci fan pensare, ad esempio, i suoi bianchi… Taleggio della paterna valle se ci sei, batti un colpo!… Il Ceresa non inventò pressoché nulla, ma è la “pasta” che egli impiegò per trasferire le immagini altrui nella sua valle, che risulta una vera invenzione… affinché lei la materia, pur nelle rovine del tempo rivelasse il suo calore lento e profondo, la sua lenta, opaca, ma come lenzuolesca bellezza.
(i corsivi sono miei)