Lunedì 19 marzo Repubblica ha pubblicato nel paginone di cultura un lungo articolo di Alberto Arbasino sulla mostra di Ravenna dedicata al Testori critico d’arte. L’articolo si conclude con una raccolta citazioni tratte da dialoghi che Arbasino ebbe con Testori in diversi momenti e pubblicate in alcuni suoi libri. È una raccolta realizzata con l’acutezza e l’intelligenza caratteristiche dello scrittore di Voghera. Per questo mi sembra importante riproporla.
Pessimi i giudizi sulla cultura contemporanea. «Mi pare fatta di piccoli particolari. Non fa che seguire viottoli di piccole esperienze e piccole emozioni. Un fatto privato, insomma. Anche se sembra e afferma di essere molto pubblica. Si vende alle occasioni, continuamente, non ha tenuta. Nessuno di noi è più in grado d’affrontare un argomento totale, pur partendo, come si deve, da un fatto particolare. A questo modo mi pare che si voglia riscrivere il mondo, invece di interpretarlo, dandone tutte le lacerazioni e i nonsensi…»
E da noi? «In Italia la letteratura non mi interessa quando testimonia la sua insoddisfazione e non se suppone di distribuire talismani. Mi pare che si tenda troppo a far credere d’aver tra le mani una giustificazione della vita, una speranza esterna e obiettiva che dia alla nostra vita una ragione sicura. Mentre forse è vero che uno scrittore, per dare veramente una speranza, non deve averne alcuna. O almeno, neanche una che sia sicura e preventiva».
E proprio qui? «L’interesse di fondo, affettivo, per dir così, è per la cultura lombarda. Soprattutto per le sue arti figurative. Sono quelli i miei testi, non è una novità: io guardo i quadri assai più di quanto non legga. Mi paiono sempre più materiati e meno facili a lasciarci adescare dalle chimere ideologizzanti…»
E i tuoi autori contemporanei, quali sono? «In pittura, seppure con molte riserve, Bacon. E comunque Caravaggio è il mio mito di sempre. E Ceruti, il Pitocchetto: per quanto concerne l’umano, l’amore e il sentimento umano, è sicuramente il più grande poeta che sia mai apparso. E quello che forse è stato l’ultimo momento di allarme e ribellione totale nella cultura dell’uomo: il tragico connubio tra romanticismo e realismo che vide nascere Géricault, Delacroix Courbet. E Gros. Quando entro nel salone del Louvre dedicato a quei maestri, ricevo una emozione e una spinta di vitalità incomparabile. È strano, non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte per farci amare la vita. O per non farcela odiare troppo».
Ma fra gli scrittori? «L’ultimo grande libro che ho letto rimane Sotto il vulcano di Malcom Lowry. Ma in teatro morto Brecht? Prendiamo Beckett: a me sembra più forte nel romanzo. Nel teatro mi pare troppo scopertamente favolistico, troppo esemplificatore.Tutti gli scrittori come lui mancano, secondo me, di quel fondo, di quelle radici e quelle viscere senza le quali ogni sforzo per arrivare a proposte universali diventa astratto. Si ha l’impressione che possa fra tutto quello che vuole, manovrando i suoi manichini per portare una tesi a conclusioni estreme. E poi? Perché non fare i conti con cose più precise? Perché chiamare una certa faccenda Godot e non Dio? A me sembra una soluzione parziale: mentre in Kafka i personaggi chiamati con una certa lettera dell’alfabeto si riepmiono sempre di un certo uomo, quelli di Beckett se ne vuotano continuamente».