Robe da chiodi

L’occhio di Richter sul Duomo

one comment

9222

Torna in asta questo straordinario quadro di Gherard Richter Domplatz, Mailand. È un quadro importante nel percorso di Richter: lo realizzò su commissione di Siemens Elettra quando la casa tedesca aveva aperto i suoi uffici milanesi nel 1968. Restò a Milano per 30 anni, poi venne messo all’asta nel 1998 e acquisito per poco più di 3 milioni di euro, dalla famiglia Pritzker che lo ha tenuto esposto in uno degli alberghi di loro proprietà, il Park Hyatt Hotel a Chicago e che ora hanno deciso di rimetterlo sul mercato, il 3 maggio da Sotheby’s a New York. Non fosse per il prezzo spaventoso che con ogni probabilità spunterà (la stima è tra i 30 e 40 milioni di dollari: per i Pritzker è stato un buon affare), sarebbe un quadro da avere in museo a Milano…

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Il quadro è importante storicamente, perché è la tela di maggiori dimensioni (275 x 290 cm) tra le photo-painting di quella stagione da “German Pop Artist”. Quattro anni prima Richter aveva dipinto un’altra photo painting, questa volta con la facciata del Duomo, una tela di 130 per 130 cm.
È interessante questa attrazione da tedesco per l’unica cattedrale tedesca dell’architettura italiana: in particolare quello del 1962 esprime una visione fiammeggiante della facciata, come in fuga verso l’alto, contravvenendo a quella dimensione di “gotico per il largo” che caratterizza il Duomo milanese.
Ma ciò che unisce le due tele è quel tono da immagini post belliche: non c’è niente di quieto nell’eleganza della composizione. C’è l’avvisaglia di qualcosa di cupo, in quell’infilata di palazzi di Corso Vittorio Emanuele, o nella facciata della Cattedrale tagliata, quasi “mutilata” per due terzi. Sotto l’apparenza di self control che contrassegna la sua pittura, Richter lascia scorrere visioni e pensieri inquieti. Qui sta il suo fascino e forse la sua grandezza.

Pensavo a queste immagini mentre ieri parlavo del Duomo in un incontro pubblico. Pensavo che davvero quest’inquietudine e questa cupezza è una chiave per capirlo e non cadere nella retorica un po’ beghina della bella, grande, giusta cattedrale. Nel Duomo c’è qualcosa di oscuro, di ansioso, che è proprio del gotico, ma che va oltre il gotico stesso. Mi pare un gotico contro natura: a partire dal fatto che è un gotico fuori posto (che ci fa qui, a sud delle Alpi?); un gotico il cui slancio è sempre destinato a tornare a terra (dice in fondo questo la poesia di Rebora). Quando vi si entra, la sensazione è di entrare in una caverna, con i pilastri in funzione di stalattiti; nel Duomo più che entrare sembra di sprofondare. Ha scritto Doninelli in Cattedrali che il Duomo è come una “roccia chiusa”.

Written by gfrangi

Aprile 6th, 2013 at 11:19 am

Tre pensieri sul meraviglioso Papa Francesco

4 comments

papacroce

Il primo pensiero mi viene da questa foto (cliccate sopra l’immagine per ingrandirla). Di una bellezza da restare senza fiato: complimenti all’autore, Dan Kitwood. Bella l’immagine ma straordinaria la forza del gesto di Papa Francesco, in una San Pietro che sembra oscurata dal buio del Venerdì Santo, con la pianeta rosso sangue e le scarpe da parroco del mondo. Si percepisce l’intensità di affezione per il Cristo in croce, il senso di immensa gratitudine per una salvezza avvenuta attraverso quel sangue versato. C’è la dimensione di un perdono arrivato davvero e arrivato per grazia.
Una postilla a questa immagine: chiaro, io non posso non pensare al papa colpito da una meteorite di Maurizio Cattelan (lo ricordo nel cuore della Sala delle Caritidi, vuota, appoggiato su un tappeto rosso che copriva l’inetro pavimento). Anche quel Papa aveva una croce tra le braccia, e non credo affatto che l’intenzione di Cattelan fosse né beffarda, né blasfema. Identificava un papa da battaglia, come Wojtyla fu, un papa condottiero. Papa Francesco è diverso. È un papa innamorato, che sente la tenerezza di Dio. E se ne lascia abbracciare. In un certo senso questa foto archivia Cattelan.

Il secondo pensiero mi viene da una frase incredibile che il papa ha rivolto ai sacerdoti di tutta la chiesa. La riporto: «…Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini». (qui il discorso integrale) L’odore delle pecore! C’è tutto in questa indicazione, c’è l’amore all’altro che è fatto di contiguità, di prossimità non teorica ma fisica, corporale; c’è condivisione reale di destino. È l’antica immagine del buon pastore che ha la pecora sulle spalle, che se ne fa carico non per eroismo ma per amore. Nessuno ci aveva mai pensato, ma a quel pastore resterà sempre addosso “l’odore delle pecore”. Ed è la cosa che lo rende contento. Luca, 15: «…ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta».

Ultimo pensiero, un po’ malizioso.
Dopo Pasqua si svelerà finalmente il progetto elaborato per il Padiglione del Vaticano alla Biennale. Si sa che il tema è l’inizio del Genesi, si sa che il sito è quello che nella Biennale 2011 ospitava il padiglione… dell’Argentina. Ma mi sorge una domanda: a questo papa gliene importerà qualcosa che il Vaticano sia alla Biennale? Non riesco a trovare punti di contatto tra il suo modo d’essere e il mondo che ha espresso il bisogno di “legittimarsi” portando grandi artisti sotto la propria sigla alla Biennale. Papa Francesco è disomogeneo ad ogni intellettualismo, non ha complessi. Secondo me sarebbe del tutto d’accordo con questo auspicio di Paolo VI: «… come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri…».
In formule accessibili: immagino i murales, immagino Diego Rivera… Oppure presumo che si ritroverebbe nel lavoro fatto da Gianriccardo Piccoli per la chiesa di Portovejo, una cittadina in Equador. Una Pentecoste “in formula accessibile” (ma contemporanea). Ma non penso proprio che queli come Piccoli abbiano chance di entrare nell’elite degli invitati alla Biennale…

Written by gfrangi

Marzo 29th, 2013 at 7:10 pm

Un pre-sguardo alla Biennale di Gioni

one comment

Non si può dire che Massimiliano Gioni abbia sguardi prevedibili. I nomi annunciati per la prossima Biennale, chiamati a costruire il suo “palazzo enciclopedico” sono in buona parte nomi borderline rispetto al sistema artistico. Nomi di cui francamente conoscevo poco e a volte nulla. Per questo sono andato a curiosare. È una piccola selezione della truppa dei 150 artisti chiamati a tentare il sogno di un museo immaginario, sogno brevettato nel 1955 da Mario Auriti, prototipo dell’artista outsider. Si avverte il filo conduttore di un’arte pensata come pratica esoterica, esercitata in cerchi ristretti, mai preoccupata di imporsi come egemone.

Hilma af Klimt

Hilma af Klimt

Augustine Lesage

Augustine Lesage

Aleister Crowley

Aleister Crowley

Anna Zemánková

Anna Zemánková

Emma Kunz

Guo Fengyi

Emma Kunz

Emma Kunz

Fredrich Schröder-Sonnenst

Fredrich Schröder-Sonnenst

Geta Brătescu

Geta Brătescu

Jean-Frédéric Schnyder

Jean-Frédéric Schnyder

Thierry De Cordier

Thierry De Cordier

Varda Caivano

Varda Caivano

Written by gfrangi

Marzo 19th, 2013 at 11:02 pm

Posted in mostre

Tagged with ,

20 anni dopo, il metodo Testori

leave a comment

Vincenzo Foppa, Polittico, Pinacoteca di Brera

Vent’anni fa moriva Giovanni Testori. Oggi, alle 16, alla pinacoteca di Brera di terrà un convegno a lui dedicato. Si terrà nella sala XV, davanti a questo Polittico di Foppa, da lui tanto amato, e su cui scrisse questa stupenda pagina, all’interno del saggio su Gian Martino Spanzotti del 1958. Stupendo rileggerlo.

Per scendere al concreto dell’esemplificazione, io ricordo come nelle visite che, ragazzo, facevo alla Pinacoteca di Brera, vicino a tant’altre pale, il polittico di Vincenzo Foppa mi desse, e non sapevo spiegarmi come, né d’altronde pago del calore che me ne derivava insistevo nel chiedermelo, l’impressione d’un grande armadio domestico, finito nelle sale d’un palazzo per le strane combinazioni di qualche trasloco o di qualche testamento; un po’, insomma, quello che dalle nostre parti si chiama “ el vesté”. Appetto quello delle opere circonvicine, l’oro dei suoi scomparti mi sembrava, lo ricordo bene, tanto meno lussuoso e tanto più vero da confondersi col colore e la sostanza stessa d’un legno stagionato, che avesse custodito per generazioni e generazioni i corredi di chissà quante spose, la biancheria di chissà quanti parenti e tutto lo strano armamentario d’oggetti e cose che piano piano, col tempo, in quegli armadi va a finire.
Passati i tumulti dell’adolescenza, in cui molte cose m’attrassero senza darmi, non dico la quiete, che forse è un bene impossibile, ma neppure la dolorosa pace di coscienza che dà l’accettazione del reale, e rivisitate quelle sale, l’impressione e con essa quell’immagine mi riapparvero come se risalissero dal fondo della mia stessa esistenza a prendermi per mano in un’onda di commozione; una commozione che mi sembrò allora e mi sembra tuttavia simile a quella che si prova rivedendo dopo una lunga assenza la propria madre.

Written by gfrangi

Marzo 16th, 2013 at 10:24 am

Le bombe di Tiziano alle Scuderie del Quirinale

2 comments

Tiziano, Ritratto di Ranuccio Farnese (particolare)

(Questa quasi recensione è stata scritta per il Sussidiario e pubblicata l’11 marzo)
Non ho ben chiaro il senso della mostra di Tiziano appena aperta alle Scuderie del Quirinale, perché non so cosa aggiunga alla conoscenza del genio della pittura veneziano (non ho ancora avuto modo di leggere il catalogo Silvana). Quel che so, avendola visitata giovedì 7, è questo: è davvero difficile trovarsi davanti ad un artista altrettanto capace di farti perdere a ripetizione la testa. Quella di Tiziano è una sorta di stato assoluto della pittura, uno stato assoluto che si ripropone con una frequenza impressionante, anche nelle sale delle Scuderie, dove, per i vincoli di altezza che condizionano ogni volta le mostre, i capolavori sono disseminati in una sorta di disordine sparso. Anche perché c’è una prevalenza fortunata di opere della maturità e vecchiaia di Tiziano. Vecchiaia che non ce n’è stata una pari…
Ecco dunque che cosa vi aspetta una volta varcate le soglie delle Scuderie.

Prima sala.
Di fronte all’ingresso l’immenso Martirio di San Lorenzo (intorno al 1554, dalla chiesa dei Gesuiti, Venezia) reduce dal restauro. Cronologicamente si inizia dalla piena maturità di Tiziano ( nato nel 1490). Ma che importa… Un ingorgo drammatico, con il rosso della brace che sembra pittura che brucia, e i lampi d’argento sugli elmi della soldataglia. L’immenso fondo è una Roma spettrale, popolata dall’ignavia e dai fantasmi. Sulla destra, l’Autoritratto ad anni 77 del Prado, 1567.

Seconda sala.
Si precipita mezzo secolo indietro. Mi resta negli occhi la piccola Madonna dell’Accademia Carrara, con quel paesaggio per metà fradicio di verde e per l’altra metà fradicio di blu cielo. Fradicio di una dolomitica nostalgia.
(qui c’è anche la Pala per Aloisio Gozzi da Ancona).

Terza sala.
La Pala Vaticana proveniente da San Nicolò a Venezia. Sei santi che sembrano intrappolati dal muro grigio di un’abside diroccata. Fanno comunque quel che gli pare: Antonio ci dà addirittura le spalle per guardare all’insù la Madonna che sembra rovesciare su di loro il Bambino. Il senso della suprema stato di libertà della pittura.

Quarta sala.
Botta e risposta tra il Cristo Crocefisso (1555) dell’Escorial (raro vederlo) e la Crocifissione (1558) di Ancona. Nel primo un senso di impressionante solitudine, con le figurine in basso che un po’ vigliaccamente lasciano la scena. Nel secondo il San Domenico abbarbicato alla Croce, e la Madonna con il volto letteralmente affondato nel dolore. Pazzesco il cielo, che lascia intravedere squarci di blu giorno, ma sul quale è calata una tenebra d’inchiostro.

Quinta sala.
Da tenersi forti. La Deposizione del Prado (1559) a destra, l’Annunciazione di San Salvador (1564) al centro. Nella Deposizione il blu del manto della Madonna sembra bucare non solo la tela ma il mondo. La Maddalena invece è quintessenza di affezione: vola, sospinta da un amore, sulle ali di un abito bianco. Leggera lei, tanto è greve il compito di Nicodemo/Tiziano che regge il corpo a peso morto di Cristo. L’Annunciazione è un vertice. La vediamo dal basso dei gradini che salgono alla camera di Maria, vin la fuga delle mattonelle che sono all’altezza del nostro occhio. Sulla destra, nell’angolo, un vaso di vetro dipinto trasparente senza una sbavatura: vi si vede riflessa un finestra, quella dello studio di Tiziano? L’effetto è che sia un vaso con fiori di un giallo fiammeggiante. Ma è un magistrale inganno ottico. Il giallo è dei riccioli del leggio di Maria, bombardati dai bagliori dell’apparizione.

Primo piano, sesta sala.
Un assolo del ritratto di Paolo III senza camauro (1543). Meglio non fissarlo troppo. Cinque secoli dopo ha ancora uno sguardo che ti inchioda.

Settima sala.
Inizia la teoria dei ritratti, con un altro riavvolgimento cronologico. L’uomo con il guanto (1523) va da sé: eleganza allo stato più puro, bellezza, senso di superiorità non supponente, sguardo di un’intelligenza quieta. Poi il guanto, vero epicentro di una tela che resta magra e supremamente sobria. Il guanto, lì per dimostrare quanto possa essere suprema la pittura.

Ottava sala.
Avanti con i ritratti con il grande Carlo V con il cane. Ma più impietoso è quello del doge Francesco Venier (1554), con i capillari sottopelle sul punto di scoppiare, e la laguna fosca di sciagure in quella stretta fetta di sfondo. Ma il più energico della sala è il dodicenne Ranuccio Farnese (1542, arrivato da Washington), nipote di Papa Paolo III. Altro capolavoro di forza dispiegata con assoluta suplesse. Il ragazzino sta già perfettamente nei suoi panni, in tutta sicurezza e completo controllo. Sta al potere come Tiziano alla pittura.

Nona sala.
A sinistra la Danae (1545), a destra Venere che Benda amore (1565). Gambe aperte Danae e spuma d’oro a sublimare un orgasmo chissà se solo pittorico. Del cielo sopra Venere non c’è bisogno di dire, non si capisce se è pittura che si fa luce o viceversa (ma la luce di Tiziano non è solo luce, è intrisa di tutto, dall’oro al sangue).

Decima sala.

Una parete impedisce la vista di un quadro che chiude la mostra e che avrebbe disseminato sgomento, Lo scorticamento di Marsia, che viene da Kromeric, repubblica Ceca. Un quadro degli anni estremi (tra 1570 e 76), un capolavoro tragico, di un bruno mono-tono, di corpi che si fanno bosco, cortecce sfibrate. È un quadro feroce, di una brutalità che conosce pochi paragoni (Tiziano non ci risparmia niente, neanche il cagnolino che si abbevera nel rivolo di sangue di Marsia: apice del politicamente scorretto…). Ma nonostante tutto, si sente sotto la pelle della pittura il tambureggiare insistente della gloria.

Written by gfrangi

Marzo 12th, 2013 at 9:29 am

Posted in mostre

Tagged with ,

Manet non è quello che si crede

one comment

Manet, Ritratto di Berthe Morisot

C’è qualcosa di indicibile nel ritratto di Berthe Morisot che campeggia sui manifesti della mostra di Edouard Manet alla Royal Accademy di Londra: con quella pelle di crema, quegli occhi sgranati, il nero di velluto del cappello, il bianco di luna dello sfondo, i ciuffi di pittura sempre sul confine dell’ingordigia. Eppure quella di Manet è pittura di altissima temperie mentale, e la bellezza esagerata della stesura a volte può ingannare, inducendo a pensare che tutto inizi e tutto finisca lì. Non è così come ha dimostrato il grande Michel Foucault nella sua conferenza a Tunisi del 1971: la bellezza stregante è infatti funzionale a un processo di incantamento. Il quadro slitta fuori da se stesso, invade il mondo di chi guarda. Basta osservare questo stupefacente particolare ricavato, grazie a Google art Project, da Le chemin de fer (Victorine Meurent, davanti alla cancellata di Saint-Lazare, presente alla mostra di Londra; cliccate sull’immagine per ingrandirla). Lo sguardo di Victorine è straniante perché sembra assolutamente altro rispetto alla bellezza di cui è pur fatto. È uno sguardo che buca la protezione calda della pittura magistrale, che se ne tira fuori. Manet, scrive Foucault, «ha posto la condizione fondamentale affinché un giorno ci si potesse liberare della rappresentazione». Il quadro si fa oggetto che sfugge alle definizioni e alle delimitazioni; sembra di assistere a una mutazione genetica senza clamori, e probabilmente è davvero così. Comunque è una mostra che non andrebbe persa (come pure quella che arriverà a Venezia ad aprile su Manet e l’Italia).

Manet, particolare del volto di Victorine Meurent, da Le Chemin de fer

Written by gfrangi

Marzo 6th, 2013 at 9:52 pm

Posted in mostre

Tagged with ,

Dolce&Gabbana “ladri” di mosaici

2 comments

Torno su Dolce & Gabbana. L’altro giorno la coppia ha presentato la collezione autunno inverno con una linea ispirata ai mosaici di Monreale. Premesso che come si sarà capito, ho un debole per D&G, e che quindi ritengo la collezione sinceramente stupenda, devo dire che questa scelta si presta a una riflessione. È legittimo o dissacrante fare un uso così di immagini della devozione, di immagini con soggetti sacri, di immagini che sono tra i massimi capolavori dell’arte in Italia? Io non ho dubbi: è assolutamente legittimo. Anzi, di più, è molto opportuno. Primo, perché la bellezza è bellezza ovunque e più ne circola meglio è per tutti. Secondo, perché nella scelta di D@G c’è sicuramente molta furbizia, ma anche una grande ammirazione per la propria terra. Terzo, perché c’è un qualcosa di magnificamente italiano in tutto questo, spregiudicatezza compresa. Ma il motivo vero per me è un altro. Io penso che la vera fortuna dell’Italia sia quella di non avere mai fatto esperienza di una “cultura” separata. La cultura, pur nelle altezze vertiginose sperimentate nella nostra storia, ha sempre un nesso inscindibile con le concrete applicazioni della vita. La cultura in Italia è fortunatamente pervasiva, non è a compartimenti stagni. È nella testa del Brunelleschi, ma è nello stesso tempo come ha detto con una bella battuta Daverio, “nei polpastrelli dei nostri grandi mobilieri”.
Sono livelli ed esperienze diverse, ma sono sempre connesse: la grandezza dell’uno sarebbe impraticabile senza la perizia artigianale diffusa, e la perizia artigianale non potrebbe dotarsi di tanta qualità se non avesse all’orizzonte quei riferimenti. La cultura in Italia è un vero sistema integrato, anti accademico, e alimentato da scambi continui in orizzontale ma anche in verticale. Se questa dinamica si ferma, la cultura rinsecchisce su se stessa e il lavoro si inscialbisce in un anonimato globalizzato. Crediamoci, l’unica chance che l’Italia ha è quello di tenere sempre aperto questo meccanismi di scambi. Comunque li si giudichino, D&G l’hanno capito e non resta che imitarli…

Written by gfrangi

Febbraio 26th, 2013 at 11:21 pm

Proviamo a “Rovesciare il 900”

2 comments

«Spesso mi sono chiesto perché la pittura fosse così progredita e perché la letteratura si fosse lasciato tanto distanziare». Lo scrisse Andée Gide nel suo Faux-Monnayeurs. Non ho competenze tali per dire se l’ammissione di Gide corrisponde alla realtà, ma mi piace molto pensare che davvero le arti figurative nel secolo scorso abbiano saputo metter a segno una progressione clamorosa. “Progressione” dà l’idea di un’intensità incalzante di esperienze che portano avanti la storia molto più di quanto si sarebbe potuto immaginare. Progressione è anche una coscienza che si fa sempre più acuta, pur nella molteplicità delle visioni e delle sensibilità. Io penso che, come diceva Testori (che pur è stato amico solo di un pezzo di 900…), l’espressione artistica abbia giocato a suo vantaggio un fattore costitutivo: quello di aver comunque sempre (o quasi sempre) a che fare che l’irriducibile fisicità del manufatto. E quello che poteva sembrare un vincolo si è trasformato in stimolo e fattore di forza.
Insomma, mi piace davvero pensare che il secolo passato sia stato, dal punto di vista delle arti figurative, davvero un grande secolo, forse uno dei più grandi. E che letture complessivamente un po’ “depressive” (venute dopo quelle ideologiche) non tengono conto della quantità di energia e anche di positività messa in campo. Sono letture scontate, stereotipate, che ingabbiano tutto il “nuovo” emerso. Per questo mi è venuta l’idea (e la voglia, soprattutto) di organizzare con l’Associazione Testori e il Centro culturale di Milano questo percorso, e di intitolarlo proprio Rovesciare il 900. È un percorso in otto tappe (la prima lunedì 25), che affronterà con la voce di esperti che hanno accettato questa “sfida” otto nodi (Elena Pontiggia, Marco Meneguzzo, Elio Grazioli, Flavio Fergonzi, Riccardo Venturi, Maria Teresa Maiocchi e Demetrio Paparoni). Avrebbero potuto essere infinitamente di più, ovviamente, a testimonianza di quanta ricchezza c’è stata in questo secolo. Il secolo più irruente della storia artistica. Mi piace provare a rivederlo come secolo vitale, positivo aldilà delle grandi inquietudini che lo hanno percorso. Un secolo che ha nelle Demoiselles d’Avignon la clamorosa porta d’accesso. (nell’immagine sopra, un disegno di Picasso dai Taccuini per le Demoiselles d’Avignon). Un quadro che ha dentro l’energia di una scossa tellurica, un quadro esito di una lotta, un vertice espressivo furioso che ha dato slancio a tutto il secolo. Come se Picasso avesse detto a tutti: si può fare, si può essere assolutamente moderni e assolutamente grandi (quindi anche classici) al livello dei grandi del passato. Cominciamo da lì.

Written by gfrangi

Febbraio 23rd, 2013 at 10:21 am

Gabriele, due Michelangeli e Giovanni

leave a comment

Venerdì è stata una giornata per Basilico. Il momento dell’addio è sempre rivelatore della statura e della ricchezza di chi ci ha lasciato. Nel caso di Basilico prima c’è stato un funerale a Sant’Ambrogio: una scelta nient’affatto scontata. «Per lui la chiesa più bella», mi aveva confidato la moglie Giovanna. Poi dalla predica (semplice e molto bella) ho scoperto che Gabriele regalava a Giovanna, ad ogni compleanno, non un fiore ma una foto di Sant’Ambrogio. Un gesto che dice tantissimo della persona, della sua delicatezza, di un amore che definirei religioso per la compagna di una vita. Don Jacopo, nella predica, indica la bellezza delle navate sotto le quali Gabriele ha convocato gli amici. E sottolinea che gli studenti quando vengono a studiarla armati di computer e collegati ai satelliti, scoprono come quelle arcate che sembrano così misurate e giuste in verità siano tutte storta. Metafora della vita, che non segue mai le linee rette che sogneremmo, ma che alla fine ha ricchezza proprio sa questi imprevisti.
Al pomeriggio, commemorazione alla Triennale. Tante voci davanti ad una platea fittissima. Voci sobrie. Pochi minuti per ciascuna. Ma quello che colpisce è la coralità che attorno a Basilico si esprime. Una coralità che viene allo scoperto, rivelando una cultura capace di intessersi di affettività (bello quel che dice a proposito Alberto Garutti), che lascia da parte lamenti, che confessa una nuova passione per la città: Milano. Qui si vede quel che ha generato Basilico con il suo lavoro e l’intreccio sempre aperto dei suoi rapporti: una vocazione a cercare il positivo, a lasciarsi alle spalle ogni fatalismo. Ricordo la dedica che ci lasciò nel 2009 sull’albo di Giorni Felici: «È stato un grande onore. Con la speranza di un futuro condiviso».


Scopro questo filmato di Michelangelo Antonioni, realizzato nel 2004, per celebrare il restauro del Mosé del genio suo omonimo. 15 minuti di silenzi solitari sotto le navate di San Pietro in Vincoli, rotti solo da musiche di Michael Nyman e dal Magnificat di Palestrina nel finale. È bella l’intensità dello sguardo del vecchio Antonioni, che indaga la statua come specchiandosi in un destino. È un’intensità attraversata come da un fremito muto. Poi si vede la cinepresa che indaga, proprio come fosse l’occhio del regista, le pieghe della statua. Poi nell’indagine entra in gioco anche la mano, che accarezza, s’incunea, sfiora, con la pelle avvizzita al perfezione misteriosa della pietra.


Bella la visita guidata da Antonio Mazzotta alla piccola mostra che raduna quattro Pietà di Bellini attorno a quella appena restaurata del Poldi Pezzoli. Manca quella di Brera, a sua volta in restauro, e questo purtroppo è spia dell’irrazionale mancanza di coordinamento che affligge la politica museale milanese: fare una mostra unica a restauri conclusi non era pensabile? Comunque la mostra raccoglie quattro capolavori, attestando quel bilanciamento che Bellini attua tra l’estremo patetismo del soggetto e la capacità di costruzioni formali impeccabili. Stupefacente ad esempio nel particolare qui sopra, l’intreccio tra gambe degli angeli e braccio di Cristo nella Pietà di Rimini, quindi dipinta sotto influsso Pierfancescano. Ma anche nella Pietà del Poldi Pezzoli, Mazzetta ha giustamente sottolineato come le braccia di Cristo si facciano quasi architrave del paesaggio retrostante. Una geometria ricercata che non raffredda la dolcezza ma la struttura, creando una fusione tra figura e natura.

Written by gfrangi

Febbraio 17th, 2013 at 4:54 pm

Gabriele Basilico, grandi sguardi e grande cuore

one comment

Un paio di mesi fa ho avuto il privilegio di presentare una mostra di Gabriele Basilico a Milano. Basilico presentava il ciclo di fotografie realizzate nell’Area Falck, insieme alle opere di un’amica pittrice, Domenica Regazzoni. Una mostra alla Galleria Belvedere. Queste sono le pagine che lo riguardano. Quello con Basilico per me non è stato solo l’incontro e l’amicizia con un grande fotografo, ma con un uomo dolce, intelligente, aperto, sempre disponibile. Basilico è morto oggi, 13 febbraio. Mi e ci mancherà.

Lì alzavano la loro mole Unione, Concordia, Vulcano, Vittorio: nomi teneramente retorici per quei giganteschi capannoni da dove ogni giorno usciva acciaio a tonnellate. Lì c’era il gigantesco forno T5, quello rivestito di lamiera, che da lontano potevi scambiare per una cattedrale. Lì c’erano le “vasche Pompei”, così ribattezzate perché così simili ai sistemi ipogei dell’antichità: sterminato sistema sotterraneo che connetteva tutti i capannoni dove avveniva la produzione. Lì c’era il forno T3, con la sua copertura a forma di gigantesca ganascia, che per tutti era la Pagoda.
Lì soprattutto c’erano gli uomini, migliaia di uomini che presidiavano 24 ore su 24 questo immenso villaggio di fuoco. Lì manovravano i “serpentatori” «quelli che, afferrandolo con lunghi tenaglioni, bloccavano e dirigevano il filo di acciaio appena fuso, che guizzava contorcentosi paurosamente» (Emilio Tadini). Lì manovravano gli “attrappatori” «quelli che accompagnavano il percorso delle sbarre incandescenti sui rulli» (sempre parole di Tadini). Lì lavoravano le sole 300 donne ammesse in questo girone di fuoco, al reparto dei bulloni. Lì si dormiva pure, dormivano a centinaia, quando i trasporti mancavano e neanche i pulman della Grattoni permettevano di tornare per tempo al paese, la sera: dormivano nel “palasun”, il Vecchio Albergo Operaio. Camere doppie per gli impiegati, grandi stanzoni da 50 letti per gli operai.
Era una città dentro la città, la Falck. Teatro di un’epopea industriale ma soprattutto luogo di lavoro a testa bassa, grandioso precipitato di abilità e di fatica, terreno di migliaia di storie individuali che varrebbero ciascuna un romanzo. Nel gennaio 1996, l’ultimo forno era stato spento, il grande carroponte aveva finito il suo pachidermico avanti indietro, sui binari sospesi nel vuoto. Quando tre anni dopo, nel 1999, Gabriele Basilico era entrato con la sua macchina fotografica, di quell’epopea non restavano più che grandiose rovine. Il tempo sembrava aver macinato con una velocità, che a noi sembra quasi rapinosa, i segni pur colossali di quella storia.
C’è in queste immagini qualcosa che lascia attoniti, quasi feriti: come può la storia – non quella lontana del passato remoto, ma quella vicina di un passato a noi molto prossimo – ridurre in briciole simili grandezze? Come guardare all’annientamento rapido di quella che era pur una grande costruzione umana? L’impressionante rombo di potenza si era ridotto al silenzio rotto solo dal vento e dal volo allibito di qualche uccello; il furore del fuoco aveva lasciato il posto a quella luce fioca che filtra tra le rovine e si fa largo tra mille pertugi. Non è passata nessuna guerra da queste parti, come invece a Basilico era accaduto di raccontare nei suoi lavori da Beirut; non è passata nessuna guerra ma gli esiti non sembrano dissimili. Qui è passata solo quella logica che, con poche deroghe, regola il corso della storia, consumando il senso e la funzione delle creazioni umane, anche delle più strabilianti.
Per questo le immagini di Basilico suscitano struggimento; c’è un qualcosa di altamente patetico nel solenne dispiegarsi delle rovine; un qualcosa di esemplare, che intercetta l’eco di un destino. È il destino delle città, quelle creazioni complesse e meravigliose dell’uomo che però nel loro tessuto comprendono ineluttabilmente le scorie di tanti fallimenti, i frammenti di storie interrotte, le imperfezioni di processi usciti fuori controllo. Per quanto ci abbiano abituati a sognare e addirittura a desiderare organismi perfetti, regni asettici di efficienza e di benessere, quell’entità che chiamiamo città non può esistere se non prende il rischio di tener dentro di sé quelle macchie vistose, impossibili da nascondere; se non accetta di aver addosso tracce di una sporcizia a volte incancellabile. (…)
Ma proprio così sono le città: luoghi che sommano imperfezioni. O meglio, luoghi che per loro natura, sono destinati a custodire le imperfezioni. Le loro mappe oltre che di strade, di vicoli, di piazze, di fiumi, di palazzi, di case, di chiese, di fabbriche sono in realtà fitte anche di cicatrici. Raramente le scorgiamo. A volte si sorvola, non ci si fa caso. A volte addirittura ci si industria per nasconderle, come se fossero qualcosa di sconveniente. A volte invece – e per fortuna – c’è chi le porta allo scoperto. E svelandole ce la fa anche amare.

Written by gfrangi

Febbraio 13th, 2013 at 3:02 pm

Posted in pensieri

Tagged with