Robe da chiodi

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Dolce&Gabbana “ladri” di mosaici

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Torno su Dolce & Gabbana. L’altro giorno la coppia ha presentato la collezione autunno inverno con una linea ispirata ai mosaici di Monreale. Premesso che come si sarà capito, ho un debole per D&G, e che quindi ritengo la collezione sinceramente stupenda, devo dire che questa scelta si presta a una riflessione. È legittimo o dissacrante fare un uso così di immagini della devozione, di immagini con soggetti sacri, di immagini che sono tra i massimi capolavori dell’arte in Italia? Io non ho dubbi: è assolutamente legittimo. Anzi, di più, è molto opportuno. Primo, perché la bellezza è bellezza ovunque e più ne circola meglio è per tutti. Secondo, perché nella scelta di D@G c’è sicuramente molta furbizia, ma anche una grande ammirazione per la propria terra. Terzo, perché c’è un qualcosa di magnificamente italiano in tutto questo, spregiudicatezza compresa. Ma il motivo vero per me è un altro. Io penso che la vera fortuna dell’Italia sia quella di non avere mai fatto esperienza di una “cultura” separata. La cultura, pur nelle altezze vertiginose sperimentate nella nostra storia, ha sempre un nesso inscindibile con le concrete applicazioni della vita. La cultura in Italia è fortunatamente pervasiva, non è a compartimenti stagni. È nella testa del Brunelleschi, ma è nello stesso tempo come ha detto con una bella battuta Daverio, “nei polpastrelli dei nostri grandi mobilieri”.
Sono livelli ed esperienze diverse, ma sono sempre connesse: la grandezza dell’uno sarebbe impraticabile senza la perizia artigianale diffusa, e la perizia artigianale non potrebbe dotarsi di tanta qualità se non avesse all’orizzonte quei riferimenti. La cultura in Italia è un vero sistema integrato, anti accademico, e alimentato da scambi continui in orizzontale ma anche in verticale. Se questa dinamica si ferma, la cultura rinsecchisce su se stessa e il lavoro si inscialbisce in un anonimato globalizzato. Crediamoci, l’unica chance che l’Italia ha è quello di tenere sempre aperto questo meccanismi di scambi. Comunque li si giudichino, D&G l’hanno capito e non resta che imitarli…

Written by gfrangi

Febbraio 26th, 2013 at 11:21 pm

Ravenna, gli asparagi di San Vitale

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L'abside di San Vitale (foto Skiwalker79)

Seconda visita in poco tempo a San Vitale a Ravenna. È un’occasione obbligata per sguardi non scontati. Per fortuna mi viene incontro un libro casualmente in libreria datato 1935. Ma l’autore è una garanzia, Corrado Ricci. È un libro che ti porta fuori dalla scontatezza, con le sue osservazioni minuziose. Dopo averlo letto capisco che una visita semplice e ben fatta a San Vitale può avvvenire attraverso tre step.
Il primo: il rito d’ingresso dal grande pronao a due porte (quindi non in asse con l’abside). È un rito di disvelamento di una delle più straordinarie architetture del mondo. L’esterno delle chiese ravennati sono sempre scatole di laterizio che non lasciano presagire lo splendore che invece custodiscono all’interno. Dal pronao si è attratti dalla luce dell’ottagono, una meraviglia di spinte convergenti verso il centro (i pilastri triangolari tagliati a tonco di cono nel lato che punta verso l’interno) e di ammorbidimenti con le sette absidiole traforate che si aprono tra un pilastro e l’altro. È un accavallarsi di spazi che si tengono l’un altro, di muri che si aprono e lasciano spazio ad altre organismi architettonici. Non tutto è sotto il controllo dell’occhio: i matronei fuggono risucchiati dalla luce opalina delle finestre di alabastro.
Secondo step: arriviamo ai mosaici, e affrontiamoli sulla base del loro stile. Qui si gioca un passaggio d’epoca. Nei primi, quelli del presbiterio, anno circa 530, soffiano gli ultimi refoli del naturalismo romano ellenistico. Il verde fa dominante indiscussa, l’organizzazione degli spazi non è rigorosa come accadrà con i bizantini: le scene di Mosè, stupende, sono inserite a coprire lo spazio rimasto irrisolto verso l’abside. Le vesti “vestono” ancora i corpi e si agitano al movimento dei personaggi (non c’è più la concitata, palpitante corsa del San Lorenzo di Galla Placidia, di 60 anni prima: ma qualche segno resta ancora). C’è tanta, tantissima natura: nella volta del presbiterio Ricci conta 80 animali; nelle parti basse ce ne sono altri sette e sono animali da palude, a memoria di quella che cingeva Ravenna. Ma, massima sorpresa, nella volta per volte ricorrono tre mazzi di asparagi. Gli asparagi ravennati erano stati magnificati da Plinio e da Marziale. Giovenale, nell’undicesima satira, dice che arrivano addirittura al peso di tre libbre.
Terzo step: l’abside. Siamo al punto topico, certamente oltre il 550 visto che il vescovo Massimiano che si immortala al lato dell’imperatore sale sulla cattedra nel 546. Il mondo è cambiato. Le vesti scendono a piombo sui corpi. Le linee non sgarrano più dall’ordine prefissato. La presa è rigorosamente frontale. La rappresentazione è sfolgorio puro. Ma qui Ricci sotolinea un elemento chiave e che fa da raccordo rigoroso con le scene stilisticamente diverse che precedevano. La frontalità infatti è una forzatura: in realtà i due schieramenti di Giustiniano e di Teodora sono due cortei. Stanno camminando verso il centro dell’abside, come suggeriscono chiaramente le prime due figure. A loro il compito di portare la patena (Giustiniano) e la pisside (Teodosia) all’altare sottostante dove si terrà il sacrificio eucaristico. Lo avevano annunciato le scene chiave del presbiterio: a destra i sacrifici di Abele e Melchisedec; a destra i tre angeli ospiti di Abramo che benedicono il pane. Passano le epoche, passano gli stili, ma tutto si tiene.

Written by gfrangi

Aprile 8th, 2012 at 8:42 am