Robe da chiodi

Gli spilli di Matisse

leave a comment


Vista la mostra di sui papiers decoupés di Matisse alla Tate Gallery. Ecco alcune annotazioni.

Sicurezza e sperimentazione.
La mano di Matisse con la forbice va via decisa e sicura. Negli spezzoni filmati si vede che l’assistente gli tiene il foglio di carta per facilitare l’azione, ma lui con le forbici sembra muoversi avendo ben preciso nella testa la forma a cui tende. Quindi c’è un’esattezza e una pulizia di visione, che Matisse percepisce letteralmente come un “dono” (parole sue in Jazz). Non se ne prende i meriti…
Dall’altra c’è un aspetto sperimentale che è quello da cui si genera l’esperienza dei Cut-outs: mettere delle sagome su una superficie preparata per avvicinarsi via via alla giusta composizione. Nella grande Laguna polinesiana i ritagli bianchi sono punteggiati dai segni di spillo. Così funzionava il procedimento di Matisse, che spostava le sagome sulla grande superficie, in questo caso beige, sino a trovare il punto d’equilibrio.

Nel corpo del colore.
A Londra sono esposti gli originali di Jazz, conservati al Pompidou. È la prima volta che li vedevo, e così ho capito quella ritrosia che Matisse di fronte all’idea di tradurli in stampa. Matisse infatti non ritaglia semplicemente dei fogli colorati, ma ritaglia direttamente del colore. I fogli hanno una corposità, conferita dalla stesura delle tempere, che nella stampa si smarrisce. Si perde spesso la direzione della pennellata e quel mix di colore e di granuli di bianco che danno un peso specifico diverso al foglio. Si crea anche qualche confusione tra i bianchi, che negli originali non sono mai uguali tra il bianco del foglio di supporto e quello dei papiers inseriti nella composizione. Del resto il nome esatto della tecnica è chiaro: “papiers gouachés decoupés”. Quel “gouaché” non è secondario… Comunque è preziosa l’esposizione in parallelo di originali e stampa, con possibilità di leggere il fantastico testo di “riempitivo” scritto a mano da Matisse (paragonava la sua funzione a quello della paglia che si mette nelle scatole di bottiglie per proteggerle…).

La danza dei contrari.
Vedendo la mostra londinese colpisce questa agilità straordinaria acquisita da un uomo costretto di fatto all’immobilità. In Matisse non c’è mai un segnale di recriminazione rispetto alla propria condizione fisica. Lo si può capire, perché l’esperienza artistica diventa un surrogato più che sufficiente a quel che per il suo fisico era ormai proibito, Matisse danza con le forbici e sulla carta; Matisse si fa acrobata ed equilibrista pur senza muovere un passo. Forse è per questo che una mostra come questa dà un senso infinito di benessere a chi ha la fortuna di vederla…
Anche nei confronti del corpo femminile, sembra arrivare ad allacciare relazioni di una trasparenza che esalta una dimensione fisica di godimento. Se guardate le varianti dei nudi blu, osservate il lavoro sulla gamba destra, quella piegata verso l’alto. Nella piattezza pura del colore, Matisse non tralascia nulla della fisicità e della sensualità del corpo: l’apice, per me, è nel Nudo blu II, dove la coscia prende una forma agile, sensuale e insieme giunonica.
Infine, un vero capolavoro: Zulma, 1950. Ritratto in piedi, tra due tavolini, circa due metri di altezza. C’è una sintesi di tutto Matisse in questo gioiello: la sagoma blu del corpo questa volta si apre al centro, liberando una forma quasi color carne. È come una zip leggera, che si spalanca a sorpresa per svelare tutta la sensualità di questa “dea” planata nello studio di Matisse.

Infine…

Credo che ci sia una chiave solo per spiegare la felicità che Matisse riesce a comunicare. È un concetto che nella straordinaria mostra londinese sui Cut-offs emerge a ogni pie’ sospinto. Matisse “ama” ciò che ha davanti. È un amore pacato ma senza esitazioni il suo. Resta sempre su binari di equilibrio, non dà mai segni di esagitazione, ma s’impone come fattore decisivo, come innesco del suo agire in quanto artista. E’ l’amore la chiave che spiega la bellezza e la libertà di invenzioni di Matisse.

042[amolenuvolette.it]1950 zulma pochoir

Written by gfrangi

Agosto 14th, 2014 at 2:06 pm

Posted in mostre

Tagged with , ,

Une journée au Louvre

leave a comment

Braccesco, particolare del pavimento e della balaustra dell'Annunciazione

Braccesco, particolare del pavimento e della balaustra dell’Annunciazione

Una di quelle giornate che uno sogna da sempre: girare senza ansia e senza limiti di tempo nel più bel più bel museo del mondo. Si entra alle 10 e poco più. La coda è di quelle bibliche. Ma per fortuna pochi sanno che entrando dal Carrousel du Louvre rue de Rivoli, la coda è minima. Per di più il Carrousel è allagato per l’acquazzone del mattino (neanche Parigi è perfetta…; grandi vasconi di plastica azzurri sono disposti a raccogliere l’acqua dai punti dove ci sono perdite, segno che faccenda è abituale).
Si entra dalla porta Denon. Partiamo dalla nuova sezione dedicata all’Islam progettata da Bellini. Molto bella, moderna, calma, con apparati esplicativi ben fatti. Da colonnine audio, per familiarizzare, escono le voci di attori che leggono poesie nelle varie lingue, persiano, turco, arabo. Per la prima volta mi è chiaro perché l’Islam non parla tutto arabo. Colpa dell’invasione mongola del 200 che spacca l’Islam in due. Ci si muove dentro un allestimento che è come una grande scatola nera, che fa risaltare meglio colori e linee, vera ricchezza degli oggetti esposti. Infatti rappresentazioni di figure se ne vedono solo nei primi mosaici ancora d’impronta paleocristiana. Poi si eclissano, con una radicalità che non presenta eccezioni.
I custodi. Vero valore aggiunto del Louvre. Sempre molto discreti ma presenti, cortesi, pazienti. Credo che nove decimi delle domande siamo un aiuto ad orizzontarsi nel museo immenso: la cartina distribuita fa quel che può… Stanno seduti, ma appena fai la domanda si alzano. A una ragazza a cui chiedo come arrivare nella sezione dell’Egitto copto, vien da ripsondermi con soddisfazione: “Vous êtes des grands visiteurs”. Solo alla Gioconda si nota un atteggiamento un po’ più militaresco. Sono in quattro, e il loro ruolo è quello di aprire il cordone sul davanti per far uscire il pubblico che indietro non può certo tornare. Dove hanno più sale da tenere sotto controllo, girano in continuazione: a volte in coppia, parlando sempre fitto fitto tra di loro. Deve essere un servizio anche terapeutico…
Le foto. Dal punto di vista dei comportamenti di massa è l’aspetto davvero emergente. La libertà di fotografia (senza flash, ma molti flash scappano…) ha scatenato una vera frenesia. Non so quante foto si scattino al Louvre ogni secondo, ma il numero deve essere da brividi. C’è chi si fa fotografare davanti all’opera famosa vista tante volte sui libri, chi fotografa quadro e cartellino (a casa si rivedrà tutto?) e chi fotografa e basta, tenendo telefonino o smartphone in alto sopra la testa (le macchinette foto sono ormai una minoranza). Immagino quante di queste foto verranno spedite… È un Louvre virale… Anch’io n’è approfitto e mi diverto a prendere particolari ravvicinati. Noto che gli allarmi lasciano molta libertà… E non sono il solo: mi colpisce una ragazza giapponese che inquadra con il telefonino il volto del Cristo portacroce di Lotto. Cerca l’immagine giusta, sempre più ravvicinata, e dopo un po’ di scatti la trova. Colpita dal patetismo intenso di quel volto? Si capisce che le immagini non sono supporto ma sostanza… Non saremo mai abbastanza grati ai padri di Nicea…
I cartellini. Non c’ê spazio per la sciatteria al Louvre. I cartellini sono sempre ben fatti e includono una spiegazione sintetica in francese dell’opera. So che il nuovo direttore Jean-Luc Gonzales vuole rifarli tutti in più lingue, per venire incontro al pubblico sempre più globale. Mi auguro che conservi questo contenuto misurato di informazioni, dal sapore un po’ scolastico ma molto utili. Ogni tanto si nota qualche reticenza a dichiarare la provenienza dell’opera: si sa che il Louvre è stato messo insieme con la forza. E non è bello ad ogni opera dire da dove è stata portata via… Mi fa arrabbiare solo il cartellino all’Annunciazione capolavoro di Carlo Braccesco, dove si dice l’attribuzione (una delle intuizioni più geniali di Longhi) è ancora discussa.
Le sorprese. Il bello del Louvre è che non finisci mai di vederlo. Ad esempio, nelle sale dell’Egitto copto c’è l’allestimento di alcuni importanti resti della chiesa di Bauit, alto Nilo. La chiesa del VI secolo è riproposta su misura. E sul muro di fondo è posizionata la straordinaria tavola con Cristo che abbraccia l’abate Mena, occhi sgranati e simpatia umana a correre…
Nella sala per me ogni volta imperdibile della scultura italiana degli inizi, mi colpisce la grande deposizione della stessa tipologia di quella di Tivoli, inizio 200. L’immagine del personaggio che a braccia aperte si sbilancia verso il corpo di Cristo è quella che sta sbloccò Arturo Martini alle prese con la sua prima opera monumentale, il Figliol prodigo di Acqui Terme. Infine nelle sali francesi la meravigliosa Deposizione di Jean Malouel, appena acquisita dal Louvre. Un quadro di una delicatezza che non si può raccontare. Dipinto con un riguardo di chi sa che la materia è troppo santa per rischiare di usare il pennello con la minima arbitrarietà. Un quadro che è come una preghiera.

Jean Malouel, particolare della Pietà

Jean Malouel, particolare della Pietà

Written by gfrangi

Agosto 8th, 2014 at 9:27 pm

Posted in pensieri

Tagged with , ,

Dora Maar, pazza di Mozart

leave a comment

image
A Palazzo Fortuny, a Venezia, è in corso una mostra dedicata a Dora Maar. Leggete questa strepitosa pagina di Lea Vergine su di lei (da Schegge, intervista con Ester Cohen).

(Si sta parlando del cantiere delle grande mostra sull’Altra metà dell’avanguardia, del 1980)
«…come rintracciare Dora Maar, grande amore di Picasso con cui volevo parlare… Telefono a Edouard Löb, gentiluomo esperto di faccende russe. Gli telefono e mi dice che quella pazza, l’ho incontrata l’altro giorno al mercato che comperava un rametto di prezzemolo. Ma in che strada? Rue de Savoie. Andai a farmi avanti e indietro la stradina, nel senso che ficcavo la testa in ogni portone e guardavo le targhette delle cassette postali. Non avevo l’aria di una per male, e quindi mi lasciavano fare. Finché ad un certo punto trovai Dora Marcovich: sapevo che era di origini jugoslave. Suono un campanello e vengono fuori due tipe, una agghindata da pittore dell’Ottocento, l’altra nuda, con un drappo davanti. Dico, conoscete la signora Marcovich? Ah, la pazza. Sì, la pazza, al piano di sopra; ma tanto non le apre. Dunque era vero. L’avevo trovata. Feci le scale di corsa, ero dinnanzi ad una porta di legno ben sprangata. Pigiai il campanello. Si udiva la sonata K. 576 di Mozart… Lo ricordo come fosse ogg. Pigiai ancora; all’Allegro teneva dietro l’Adagio. Evidentemente era al piano. Non sentiva. Insistetti. Mozart cessò di colpo. Ci fu un lieve tramestìo. Qualche secondo di silenzio e… di nuovo il piano. Inutilmente ripiglia il campanello, aveva staccato la corrente. Le coinquiline che giocavano all’atelier avevano il numero di telefono. Come giustificazione del fatto che la ritenevano una schiodata di testa, dissero che la Marcovich farneticava di avere la casa piena di Picasso e giù a sghignazzare. La chiamai, ma niente.r Richiamai la sera e questa alzò subito il telefono e mi disse una cosa del tipo, Madame Dora Maar ne reponde pas au téléphone! forte. Mesi fa, alla sua morte , sono andati in asta i Picasso di Dora Maar…»

Written by gfrangi

Agosto 1st, 2014 at 3:45 pm

Monditalia, colpo di genio di Koolhaas

leave a comment

image

E’ geniale il dispositivo messo in campo da Rem Koohlaas all’Arsenale per la mostra Monditalia, all’interno di Biennale Architettura 2014. Una mostra che si compone di 41 micro mostre, in forma di installazioni che riassumono in modo quasi sempre molto efficace dei lavori di carotaggio nel nostro territorio. Non è una mostra depressiva, come chiarisce subito Koohlaas:«In a moment of crucial political change, we decided to look at Italy as a “fundamental” country, completely unique but also emblematic of a global situation where many countries are balancing between chaos and a realization of their full potential. The Arsenale presents a scan of Italy…,Each project in Monditalia concerns unique and specific conditions but together form a comprehensive portrait of the host country». È una mostra che svelando le ferite e le offese fatte al Paese in cui viviamo sembra dargli comunque un credito. Come del resto annuncia la fastosa parete di luminarie da cui inizia il percorso.
La mostra, come nell’icona dell’Italia rovesciata di Luciano Fabro, inizia da Sud. Si entra nel nostro paese da Lampedusa, con una scelta anche potentemente coinvolgente, mentre subito ci si imbatte nell’immenso velario della Tabula Peutingeriana, distesa lungo tutte le Corderie, riproduzione della carta romana dell’Italia, una cui copia è conservate alla HofBibliotek di Vienna (dice Koolhaas: «Che è un’Italia incredibilmente familiare. Ci si trovano tutte le strade e le città più importanti, tutti i principali ingredienti dell’Italia. Questa mappa darà forma allo spazio, come in una Tac che divide il cervello in sezioni». Sulla destra del velario si rincorrono 82 schermi che proiettano spezzoni di grandi film, per raccontare i luoghi dell’Italia (i tre minuti di Stromboli sono da leggenda…)
Inutile qui raccontare tutto. La mostra va vista e anche vissuta come una immersione per capire e avere consapevolezza di chi siamo e su quale terra viviamo. Quello che mi ha colpito è l’intelligenza dinamica del racconto. Che non è mai scontato, che non si chiude mai in soluzioni moralistiche. Si vede la forza di Koolhaas che costringe sempre tutti a considerare l’Italia in prospettiva profonda, a vederla comunque sempre come un paradigma, a cui tutto il mondo ha bisogno di continuare a guardare. Sarà per questo che Koohlaas come spazio si è preso il racconto del suo rapporto con il Vestibolo della Laurenziana di Michelangelo. Lo ha fatto attraverso un’installazione fotografica affidata al figlio Charlie. Perché la Luarenziana? Perché è una sintesi senza paragoni della potenza e della bellezza che sta alla radice del “paradigma” Italia. Una bellezza che non è banale armonia, ma che è tale perché contiene in sé dei dinamismo che non possono essere tenuti sotto controllo. La scommessa riuscita di Monditalia è quella di rimettere l’Italia in questa prospettiva, che è la sua prospettiva.

Written by gfrangi

Agosto 1st, 2014 at 2:59 pm

Giorni Felici, la profondità dei giovani

leave a comment

Elisabetta Falanga, L'Altro livello della terra.

Elisabetta Falanga, L’Altro livello della terra.

Si è conclusa una bellissima edizione di Giorni Felici a Casa Testori, molto vitale, con un un filo preciso e sottile (non invasivo, mai prevaricante) che legava una stanza all’altra, o meglio che lanciava continui rimandi da una stanza all’altra, grazie al lavoro davvero prezioso di Marta Cereda. La prima notazione da fare riguarda la profondità di intuizione poetica che si coglie in tanti giovani presenti. Sono intuizioni non messe in preventivo, perché non ti aspetti da una parte una propensione a toccare certi temi e dall’altra una tale maturità nell’affrontarli. Per dire, s’è vista molta riflessione sul dolore, sul limite, sulle ferite. Ma la modalità di questa riflessione aveva spesso la forza di proporre punti di fuga, di non restare ostaggi del tema senza mai evaderne neppure un centimetro. Mi riferisco in particolare alla installazione di Elisabetta Falanga, 28 anni, ma anche al video proiettato nelle cantine di Fatima Bianchi, stessa età. Due riflessioni che vertono su mondi interni (la famiglia: quindi straordinariamente coerenti con il luogo, una casa, Casa Testori) perciò che hanno un’intimità come orizzonte, che non pretendono di andare oltre, ma che proprio per questo bisogno di mettersi con delicatezza in mostra, di diventare fatto pubblico che chiede di essere condiviso e partecipato, si sono dati una “forma” che per me sarà difficile dimenticare.
C’è come una capacità di inserirsi tra le linee. Di far parlare interstizi esperienzali dimenticati. Di essere espliciti restando impliciti. Nell’installazione di Elisabetta Falanga lo spazio schiacciato della stanza documenta la compressione del dolore, un peso che si allunga su tutti gli oggetti che sono come un bagaglio da cui non ci si può sgravare. Ma sopra l’orizzonte della terra (una lastra di vetro taglia tutta la stanza a 1,50 di altezza ed è tutta coperta di terra), annuncia ancora un mondo, ancora una possibilità che gli affetti del mondo si sotto possano permeare il mondo che verrà. La terra sopra la testa non è solo un peso, ma è anche un orizzonte (non a caso il titolo è L’altro livello della terra).
Anche Fatima Bianchi indaga su un mondo interno, circoscritto, chiuso. È l’attesa del figlio e fratello che lascia orfana una domenica come tutte le altre. C’è silenzio, rotto solo dal ticchettio del tempo, che non è però assillo. C’è un consumarsi calmo delle immagini intime sulle screpolature del muro. Ma soprattutto c’è la breccia della luce del faro di Brunate, proiettato sul muro opposto, che sposta il baricentro là dove ci sono le lettere del fratello nella cassetta, lì da leggere per tutti. Un fatto intimo, privato diventa fatto nostro. Una ferita viene portata con delicatezza e tanta poesia a condivisione comune. Così la vita grazie all’arte non si chiude in sé e si libera dalla trincea. Ma è anche la vita che detta una grammatica inedita all’arte, in cui la pazienza torna ad avere voce in capitolo.

Written by gfrangi

Luglio 19th, 2014 at 6:02 am

Le “smarginature” di Lea Vergine

leave a comment

Recensione al libro di Lea Vergine “La vita, forse l’arte“ (Archinto, pag. 138, 15 euro) scritta per Alias e pubblicata domenica 6 luglio.

Lea Vergine (fotografia di Antonio Mazzotta)

Lea Vergine (fotografia di Antonio Mazzotta)

Si prova una certa titubanza nell’apprestarsi a scrivere una recensione ad un libro che raccoglie recensioni del calibro di quelle che Lea Vergine ha riproposto in un piccolo volume. L’idea che questa e quelle appartengano alla stessa categoria, un po’ paralizza. Ma tant’è, provare si deve. Cominciando proprio dall’oggetto: il libro, che ha in copertina un bellissimo disegno innamorato di Enzo Mari, e che già nel suo formato ha qualcosa di inatteso. È l’opposto di una “summa”, piccolo, agile, in nulla pretenzioso. È una sequenza leggera di pezzi: una “suite” la definisce giustamente Giovanni Agosti nella Prefazione. Sono in tutto 25 recensioni e coprono, a partire dal 2000, con molta calma, un arco di 13 anni. Quasi tutte scritte per Alias, cui se ne aggiungono un paio per Domus e un paio per Abitare. Il ritmo testimonia che l’autrice non ha mai inseguito niente, men che meno gli obblighi dell’attualità culturale, ma che ha scritto solo di persone o mostre su cui aveva cose da dire e di cui aveva voglia di dire. Anche di dir male. Del resto le persone di cui dire certo non le mancavano: nell’indice dei nomi ne ho contate 530, che su 120 pagine di testi, fanno una media di più di quattro a pagina, senza contare quelle che tornano più volte.
Il libro quindi è un libro che nasce dentro una tela fittissima di relazioni, dirette o indirette, ma tutte lucidamente ordinate in quell’archivio foltissimo che s’è venuto a popolare in anni di frequentazioni e incursioni. È un archivio in cui non si è accumulata soltanto cultura; o meglio si è accumulata cultura nella forma di affetti, emozioni, incontri, condivisioni intellettuali. Insomma di vita, come annuncia il titolo.
È forse per questo che le recensioni di Lea Vergine hanno sempre un tono quasi si trattasse i lettere “ad familiares”. Notavo che spesso gli attacchi degli articoli sembrano alludere a pensieri precedenti; quasi gli articoli riprendessero ogni volta discorsi cominciati già da tempo. Quanto al lettore, che si trova subito preso nella rete, in pochi istanti viene messo alla pari. La scrittura infatti non lascia mai nulla di inevaso, non è mai apodittica. Non avanza per tesi o teorie, ma per osservazioni, per rimandi e richiami che allargano la pagina e aprono sempre nuove porte. Più volte troviamo Lea Vergine fare il censimento delle cose e degli artisti che in una mostra sono state dimenticati o trascurati (imperdibile, ad esempio – ma non solo per questo – la recensione alla mostra sui ricami al Mart del 2003). È un esercizio nel quale Lea Vergine si butta senza freni inibitori, con una puntigliosità che non fa sconti, in quanto lo considera un fatto di dovuta giustizia. Si capisce che non le fa scandalo tanto l’approssimazione del lavoro critico, quanto, piuttosto, il fatto che siano state tagliate fuori storie, vite, facce, esperienze. Un nome chiama l’altro e non c’è obbligo di sintesi che giustifichi queste amputazioni alle filiere dell’arte e della poesia. Perché alla fine è come se si volessero tracciare perimetri, o stringere la ricchezza dell’esistere dentro le griglie di un’idea.
Invece in questo moltiplicarsi di anime sta la bellezza e anche l’incontenibilità dell’arte, a cui Lea Vergine guarda con istintiva simpatia come terreno che permette di allacciare intese, di allungarsi (o meglio, di smarginare per usare una parola che come poche altre la rappresenta) verso nuovi nodi di queste grandi costellazioni di nomi e di persone.
Per questo le sue recensioni avanzano per continue fibrillazioni che aggiungono input ad input, con una scrittura esatta e nervosa che è come corrente sempre viva. E non è un caso che gran parte di questi pezzi si concludano su dei punti interrogativi, che funzionano da continui rilanci per il lettore ma anche per se stessa.
Del resto nell’anticonformismo sistematico che contrassegna le recensioni, c’è un aspetto più radicalmente anticonformista di ogni altro: ed è l’impermeabilità ad ogni tentazione di narcisismo. Lea Vergine lo dice con le parole Georgia O’ Keeffe: «Dove sono nata e come ho vissuto è cosa irrilevante. È quello che ho fatto, dei luoghi e dei modi in cui sono vissuta che dovrebbe suscitare interesse». L’esercizio di chi scrive recensioni in fondo è solo quello di farsi sollecitare sempre da questo interesse.

Written by gfrangi

Luglio 7th, 2014 at 8:48 am

Posted in libri

Tagged with , ,

Se la National Gallery torna all’abc

leave a comment

National

Dieci filmati di dieci minuti ciascuno messi sul sito. Tutti dedicati alla figura di Giovanni Battista, attraverso i 120 quadri, conservati nelle raccolte della National Gallery, in cui il santo compare. Il museo londinese inaugura un format semplice e di straordinaria efficacia anche per rispondere a un’emergenza: l’emergenza della progressiva incapacità dei visitatori di “leggere” i soggetti, in particolare dei quadri sacri. È un analfabetismo iconografico dilagante, frutto di una secolarizzazione di cui non si percepisce ancora bene la portata e la profondità. Per un museo come la National però questo è un pericolo che rischia di minare le fondamenta: se le persone che entrano non capiscono quello che stanno guardando, se i soggetti religiosi diventano come degli ideogrammi, alla fine si crea una distanza e una disaffezione. D’altronde è impensabile pensare di drenare i soggetti sacri privilegiando quelli mondani, visto che i numeri sono tutti dalla parte dei primi (basti pensare ai 120 quadri con san Giovanni).
Così alla National hanno provato a vedere cosa succede a prendere il toro per le corne: i dieci filmati si sviluppano in sequenza narrativa seguendo la vita di san Giovanni, visualizzandola sempre con opere delle raccolte. Quindi l’aspetto di alfabetizzazione iconografica è senza dubbio prevalente rispetto ad ogni ragionamento storico o critico. L’obiettivo è chiaro: mettere i visitatori in grado di capire. I filmati molto semplici nella struttura, realizzati nelle sale del museo e costruiti attorno al dialogo tra Jennifer Sliwka assistant curator in Renaissance painting alla National e Ben Quash direttore del Centre for Arts and Sacred del King’s College di Londra. Il percorso non lascia mai zone d’ombre, persino le cose più elementari vengono chiarite (tipo la differenza tra Vecchio e Nuovo Testamento). E ogni particolare narrativo trova rispondenza ed eco poi nelle immagini delle opere.
È un’operazione di “rammendo” della memoria che non funzionerebbe se non potesse far leva sulla carica emotiva delle opere. E infatti colpisce come il dialogo sempre all’insegna della chiarezza, poi si scaldi davanti al modo con cui gli artisti interpretano i vari fatti della vita di san Giovanni. L’aspetto religioso come accade sempre nella bella, grande e sana storia del cristianesimo, alla fine si riaffaccia attraverso l’umano. Provate ad ascoltare le parole di Jennifer Sliwka nel secondo filmato dedicato alla Visitazione, davanti all’opera del Maestro fiammingo del 1518 e capirete cosa intendo dire.
Comunque, chapeau alla National Gallery!
(aggiungo che i filmati hanno anche l’opzione dei sottotitoli in inglese, proprio per non lasciare indietro nessuno).

Written by gfrangi

Luglio 3rd, 2014 at 10:29 pm

Curators are our prophets

leave a comment

Domani mattina a Casa Testori dialogo tra Alberto Zanchetta e Daniele Capra, due curatori a confronto. Un incontro da non mancare. Per prepararlo ho letto il nuovo libro di Hans Ulrich Obrist Fare mostre.

image
Ha il ritmo di una galoppata il libro di Hans Ulrich Obrist dedicato al Fare mostre (Utet, 14 euro). Un libro affascinante come ogni libro capace di aprire prospettive. Obrist è quasi famelico, al punto che pagina dopo pagina, nel regesto degli incotri fatti e delle informazioni accumulate dal passato, si resta con l’impressione che ci sia ancora poco da inventare e da sperimentare, che le idee nuove in realtà sono già state attuate da qualcuno arrivato prima (per dire: nel 1986 un curatore a Gand aveva attuato la formula delle Chambres d’amis, in cui una cinquantina di artisti avevano realizzato pere esposte in altrettante case di Gand e dintorni. Un’esposizione diffusa in luoghi del tutto normali, 30 anni fa…).
Eppure si capisce che l’attività del curatore è pervasa da un’energia inesauribile perché non è legata alla novità delle formule, ma insegue, indaga, cerca di catturare qualcosa che non s’era visto o detto prima. Boltanski nel libro dice «un’esposizione deve sempre inventare una nuova regola del gioco». Ma la regola del gioco non può essere solo la formula furba per sottrarsi a quello che altri hanno già fatto. La “nuova regola del gioco” è l’espansione a livello di creatività espositiva del nuovo che l’opera necessariamente contiene. L’arte è sempre, obbligatoriamente nuova.

Mi ha colpito la riflessione sulla radice linguistica della parola. La derivazione dal verbo curare, che implica una certa vocazione a prendersi cura; tanto che ad un certo punto Obrist sottolinea come in un’altra stagione della storia, il “curatus” era colui che si prende cura delle anime. C’è un’affinità con il consiglio che il giovane Obrist aveva raccolto da Alighiero Boetti «Il senso del mestiere di curatore poteva essere quello di rendere possibili le cose impossibili». La derivazione dal verbo “curare”, sottolinea il fatto che l’identità del curatore non è data da un ruolo ma da un’attività. È il fare che lo qualifica, non un sapere acquisito o un punto di vista da imporre. Il quid del curatore è un’energia di relazioni, una capacità di ascolto, una memoria ingorda, che però non irretisce. Perché è memoria proiettata in avanti. Per questo è oggi anche un’attività ad alta vocazione sociale. Il buon curatore non crea ghetti per specialisti, ma percorre terreni inesplorati. Non esclude ma include. Ad un certo punto Hobrist cita un artista cinese , Huang Yong Ping, che dice: «di solito pensiamo che una persona debba avere un solo punto di vista, ma quando si diventa un ponte, occorre averne due». Che il curatore di oggi sia colui che ha l’apertura per tenere sempre due punti di vista?

P.S.: Il curatore poi deve essere anche realista e ironica. Sapere che il sistema è dotato di dispositivi pronti a cooptarne le idee o addirittura la persona. A trasformare il tutto in moda, come il grande Harald Szeemann raccontò su Monte Verità: «Ascona è un caso di studio su come si producono certe mete turistiche alla moda: prima occorre un gruppo di idealisti romantici, poi ci vogliono delle utopie sociali che attraggano artisti, poi arrivano i banchieri che comprano i dipinti e vogliono vivere dove vivono gli artisti. Quando i banchieri chiamano gli architetti, comincia il disastro».

3746a8e7-7541-465b-b2d4-2cb75a5b1f0e

Written by gfrangi

Giugno 28th, 2014 at 7:42 am

Zurbarán e papa Francesco

leave a comment

Questa è la recensione del libro di Alessandro Zaccuri, Francesco, pubblicata su Alias di domenica 8 giugno. Il libro viene presentato oggi, domenica 15, a Casa Testori alle 11, con l’autore e Marco Dotti.

Zurbarán , San Francesco, Milwaukee Art Museum

Zurbarán , San Francesco, Milwaukee Art Museum


Perché il primo papa gesuita della storia ha scelto un nome come quello di Francesco, un santo che viene da tutta un’altra storia?
Per provare a rispondere a questa domanda nient’affatto banale, Alessandro Zaccuri, scrittore e brillante firma delle pagine culturali di Avvenire, ha avuto l’idea di fare uan roginale indagile su un grande quadro in cui 400 anni fa si erano un’altra volta incrociati i destini di Sant’Ignazio e del poverello di Assisi (Francesco, il melangolo, pag 54, 6 euro). Il quadro in questione è il San Francesco in meditazione dipinto da Francisco Zurbarán nel 1635, cioè in una stagione e in una terra fortemente segnata dalla spiritualità ignaziana. Oggi è conservato al Milwaukee art museum, nel Wisconsin. Zurbarán dipinse più versioni di questo stesso soggetto, non perché fosse legato al movimento francescano più di quanto lo fosse agli altri ordini che garantivano il serrato tessuto sociale della chiesa spagnola nel secolo d’oro, che non a caso è stata definita “democrazia fratesca”. Se Velázquez fu il pittore di palazzo il suo camerata e amico Zurbarán (secolare e due volte ammogliato) fu il pittore per eccellenza dei conventi.
Nella tela si vede un Francesco in piedi e in posizione frontale, con il volto chinato e immerso nell’ombra del cappuccio; in mano tiene un teschio rovesciato: cioè rivolto verso di lui e non verso lo spettatore.

La tesi suggestiva attorno a cui si muove Zaccuri è che in quest’opera avvenga una saldatura tra “l’apparato concettuale” proprio degli Esercizi di Sant’Ignazio e il francescanesimo. Schematizzando si può dire che sono due i punti in cui si rende palese questa saldatura. Il primo è la spogliazione dell’io, comune a tutt’e due le spiritualità («Io, il più lurido di tutti i pronomi», secondo l’icastica definizione di Gadda…). Il secondo è una pratica religiosa che fa leva sull’energia dell’immaginazione, un’energia richiamata sempre anche da Ignazio, all’interno di quell’“apparato concettuale” molto coerente.
Francesco che nasconde il suo volto e medita su un teschio rivolto innanzitutto verso se stesso, incarna la spogliazione dell’io, cioè il primo punto di questa saldatura. Il secondo punto può sembrare più criptico. L’opera di Zurbarán infatti è silenziosa, iconica e isolata da ogni contesto, quindi in apparenza senza particolare “immaginazione”. Tuttavia Zaccuri nota come la perfetta costruzione dell’immagine contenga una piccola anomalia. Se facciamo passare una bisettrice nel centro della tela, scopriremmo un’opera composta da due parti speculari e sovrapponibili (quasi Zurbaràn fosse antesignano dei Rorschach di Warhol…), con un’unica eccezione: il piede sinistro di Francesco è in posizione più avanzata rispetto al destro. Commenta Zaccuri: «Francesco non è fermo, non è chiuso in sé. Si muove, avanza, è in cammino, o per usare un’espressione molto cara a Bergoglio, è “in uscita”». L’immersione nella propria coscienza, rappresentata da questa specie di “rispecchiamento” nel teschio, non esenta da un cammino. L’indagine della propria interiorità è quindi l’esatto opposto di una chiusura, ed è invece propedeutica a un uscire verso il mondo. «Il discernimento ignaziano ha un orientamento ad extra: guarda all’azione, pertanto è strumento di una missione», scriveva nel 1985 Bergoglio in un bellissimo testo appena tradotto, un testo che potrebbe essere una lettura perfettamente complementare a quella del libro di Zaccuri (Chi sono i gesuiti, Emi, 124 pag, 11,90 euro). Continuava Bergoglio: «Se concepissimo il discernimento come un fine in sé, ne seguirebbe tutto il contrario di quello che sant’Ignazio si propone: vivremmo “imbozzolati” in noi stessi».

Francesco ed Ignazio assegnano un valore più che strategico alle immagini. Per il santo di Assisi l’immagine era documentazione riflessa ma oggettiva del fatto reale da cui si è originato il cristianesimo: tanto che non è arbitrario pensare che lo sblocco dalla ieraticità bizantina e la nascita della grande e dinamica tradizione figurativa italiana abbia avuto da Francesco e dal francescanesimo una spinta fondamentale.
Quanto a Ignazio il suo apparato concettuale si regge sul metodo della “visualizzazione interiore” come manifestazione del vero e come elemento di estroversione e di comunicazione con gli altri. È la famosa “composicion viendo el lugar”, la “composizione vedendo il luogo”, che per Ronald Barthes era un fattore di grande innovazione. «L’immagine in sant’Ignazio», scrive Barthes, «diventa un’unità linguistica, elemento di un codice». Parole che sono anche una chiave per capire la novità del linguaggio di Bergoglio.

Written by gfrangi

Giugno 15th, 2014 at 7:57 am

Isgrò e la stupenda “cancellatura” per Testori

6 comments

image

È stata una sorpresa scoprire che nella grande piazza al centro dei tre edifici del Portello (ultimo, forte progetto firmato dal grande Gino Valle, lui che progettò la tomba di Pasolini…), c’è posto per una bellissima installazione dedicata a Testori. Siamo sul margine del lungo viadotto, che all’altro capo inizia proprio dal ponte della Ghisolfa. Quindi Testori qui ci sta bene. Ma l’installazione è qualcosa di più. È firmata da Emilio Isgrò e ha come titolo “Grande cancellatura per Giovanni Testori”: si allunga per una trentina di metri su un muro elegante ed obliquo che chiude a nord la grande spianata (in questo l’installazione ha una doppia funzione: quella ovviamente di cancellatura delle parole, ma anche di elemento che perimetra lo spazio). L’impressione visiva è di grande bellezza, con le righe lunghissime per la gran parte coperte del segno nero della cancellatura, e quell’inclinazione che dà slancio formale all’insieme. Sotto il nero le parole “vibrano”, anche se non le possiamo leggere, se non in piccola parte. Ma è appunto quella piccola parte che Isgrò ha lasciato emergere che fa scattare l’immaginazione su tutte le altre. Ci vien detto che si parla, là sotto, “del ponte che i lampioni illuminavano”; poi emergono due parole non consequenziali, che però si combinano in modo meraviglioso “di tremore smisurato”. E infine a chiudere l’allusione di un “altrove”.
È ben noto che il linguaggio espressivo di Isgrò non ha molto a che vedere con il linguaggio figurativo che Testori aveva amato e difeso a spada tratta in vita. Questo aumenta ancor di più la sorpresa, perché dimostra come gli schemi “uccidano” la memoria, mentre le “segrete intese” la fanno sussultare e la rendono viva. Isgrò si dimostra capace di toccare una corda che ci restituisce Testori meglio e più fedelmente di tante letture “testorianamente ortodosse”. Coglie quella dimensione di “tremore smisurato” che è la dimensione che fa sempre vibrare la scrittura di Testori, che ne descrive anche il profilo psicologico.
Isgrò con Testori aveva avuto rapporti ai tempi della nascita del Teatro Franco Parenti («alcune riunioni si erano tenute a casa mia», ci racconta); c’era stato anche un invito a pensare a una rappresentazione sacra per Gibellina; poi tra loro le relazioni si erano interrotte per una somma di incomprensioni, derivate soprattutto dalla svolta “cattolica” di Testori. Tuttavia nel 1980 Isgrò sul Giorno, dando conto di questa distanza che si era aperta, ne aveva già dato una lettura nient’affatto prevenuta e per certi versi sorprendente: «È ancora da stabilire se Testori… non appartenga a quella stirpe di profeti che hanno bisogno di guardare all’indietro per intravedere il presente e il futuro con una certa approssimazione». L’articolo del 25 gennaio 1980 è stato ripubblicato nel volume di scritti di Isgrò, Come difendersi dall’arte e dalla pioggia (Maretti, 2013).
Si può dire che nel senso di amicizia e anche di magnanimità di quelle vecchie parole, stesse già germinando la bellissima installazione che sabato 14 giugno (alle ore 12) verrà inaugurata al Portello, insieme alla piazza intitolata proprio a Gino Valle. Come mi suggerisce Isgrò, dovrà essere l’occasione di una «grande festa per Milano e per Testori».

Written by gfrangi

Giugno 10th, 2014 at 1:29 pm