Qualche riflessione dopo la visita alla mostra (bella e formativa) di Enzo Mari con Francesca Giacomelli, curatrice insieme a Hans Ulrich Obrist.
Il lavoro. È un dogma per Enzo Mari. Uscire dal lavoro alienato significa rimettere in movimento la creatività che è connessa con l’agire. In sostanza il lavoro non realizza l’opera progettata ma ne determina alcuni connotati. È un’utopia che cerca di farsi pratica, come accade nei centro tavola in lamiere saldate con ottone per Danese, dove la saldatura dorata è affidata alla libertà esecutiva dell’operaio. Anche il monumento a Franceschi fa leva su questa idea potente del lavoro: il grande maglio piazzato clandestinamente sul marciapiede della Bocconi, nella sua brutalità è l’affermazione di un valore, di una centralità, al di là di tutte le contraddizioni del modello produttivo. Monumento a tutti gli effetti.
L’autocostruzione fuori dalle mitologie. L’idea nasce da un fallimento, quello del divano Day and Night del 1971. È sulla base di quell’esperienza che Mari immagina un percorso che torni alle radici: non tanto insegnare al consumatore a fare da sé, quanto farlo partecipe dei processi creativi e produttivi in modo da renderlo più consapevole e maturo nelle scelte. È una sorta di disperazione che muove Mari in direzione di questo ritorno al chiodo e martello: una disperazione che verrà invece equivocata in modo spontaneista.
C’è uno spirito monacale nel modo con il quale Mari approccia le ceramiche, in particolare quelle della serie Samos (1973). Le spoglia, le rende fragili, le scolora. Lui spiegava: «La bellezza mi colpisce al cuore, mi emoziona, ma questo per me non è sufficiente: voglio capire a tutti i costi come ci si arriva». In quel semplificare c’è forse l’ansia di intercettare la bellezza nel suo scaturire, o in una sua condizione essenziale. Quelle ceramiche sviluppano un’aura, che le rende preziose per essere toccate. Quasi delle ostie.
Infine i bambini. Il desiderio di progettare per loro va di pari passo con un desiderio di innocenza. In fondo Mari con i libri, con gli animali, con le sue mele progetta un nuovo paradiso terrestre. Si trova a suo agio perché il processo conta più dell’esito e l’esito è frutto di una libertà che non elude la disciplina. Così l’esito ha un che di matissiano… (nella meravigliosa oca, in particolare).