Robe da chiodi

Quando la pittura “deve” parlare (come guardare la Presentazione al tempio)

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Questo articolo è stato scritto per Il Sussidiario del 2 febbraio, giorno in cui si festeggia la Presentazione al Tempio di Gesù.

Per capire cosa significa essere un grande artista basterebbe osservare come sono state immaginate tante raffigurazioni della Presentazione al Tempio di Gesù . La dinamica dei fatti è elementare e non fornisce spunti spettacolari. È quasi una situazione da routine. L’immaginazione di un artista può tutt’al più fantasticare sulle architetture del grande tempio, può aggiungere dettagli nel descrivere i doni che Giuseppe porta con sé. In realtà in quell’episodio dalla dinamica così normale gli artisti si trovano a dover affrontare un qualcosa che esce dalla routine: ed è la figura dell’anziano Simeone. I quadri sono per antonomasia muti, non hanno parole, invece quell’episodio vive e fa sussultare ogni volta che lo si rilegge, proprio per delle parole che Simeone pronuncia: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola; / perché i miei occhi han visto la tua salvezza / preparata da te davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele».

Duccio, predella della Maestà di Siena


In sostanza il cuore della scena è un cuore verbale, e così all’artista tocca render quel cuore, lavorando solo sulla figura e facendola “parlare”. Guardiamo, ad esempio, quale strategia usa Duccio nella predella della Maestà senese: Simeone, si china e curva la sua vecchia schiena verso Gesù, che Maria ha messo tra le sue braccia. Già questo incurvarsi è un’immagine che parla, che racconta di un’attrazione carica di dolcezza. Ma Duccio aggiunge dell’altro: Simeone ha le mani coperte dal mantello in segno di rispetto e tiene una distanza devota dal Bambino. Gli occhi sono quelli logorati dall’uso di un sapiente anziano: ma lo sguardo è quello di chi consiste tutto in ciò che vede.

Giotto, Cappella Scrovegni


Giotto per natura è diverso. È un artista di corpi solidi e ben piantati per terra. Il suo Simeone alla cappella degli Scrovegni sta infatti saldo e a schiena dritta, nonostante l’età. Per questo Giotto gioca tutta la partita sullo sguardo, che è sottile, profondo, totale e che si incrocia con quello già pieno di consapevolezza del Bambino: una corrispondenza che davvero “parla” di una salvezza vista, incontrata, toccata.

Mantegna, GemäldeGalerie, Berlino


«Lo prese tra le braccia», racconta il Vangelo di Luca: a volte gli artisti si concentrano sull’attimo che precede o su quello che segue. Mantegna, l’austero e “terribile” Mantegna, dispone le figure dentro una scatola spaziale. Simeone è di profilo e sta allungando le mani per prendere il Bambino in fasce: è ancora nella situazione di un attimo prima, cioé di colui che «aspettava il conforto d’Israele», come sempre scrive Luca introducendo l’episodio.

Bergognone, Chiesa dell’Incoronata, Lodi


All’opposto di Mantegna c’è il grande e commosso Bergognone, lombardo capaci di straordinarie intensità affettive. Lui si sofferma invece sull’atto finale, la riconsegna del Bambino a Maria: il suo volto, nella sobrietà della vecchiezza, “parla” di una felicità che si è compiuta. È il momento del “Dimitte nobis Domine”.

Rembrandt, Nationalmuseum, Stoccolma


Bisognerebbe poi raccontare dell’immenso Rembrandt, che dipinse la Presentazione in più varianti, sempre con una libertà interpretativa assolutamente moderna. Nella più folgorante (quella conservata al Museo di Stoccolma) sulla scena restano solo Simeone e Anna. Lui sta seduto, sprofondato in una vecchiezza quasi terminale: eppure, anche in quella condizione di sfinimento fisico, c’è spazio per uno stupore totale. È un quadro meraviglioso dell’ultimo Rembrandt, il quale, dipingendolo, parla a sé e per sé. Un quadro implorazione, verrebbe da dire, in cui l’artista chiede con parlando con i suoi colori rabbuiati, che anche a lui accada come a Simeone. È quasi una preghiera da guardare. Un quadro, in fondo, dipinto anche per noi.

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Febbraio 8th, 2017 at 5:47 pm

Quattro parole per entrare in Basquiat

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Basquiat, Hand Anatomy, 1982

Appunti per la visita guidata per Casa Testori alla mostra del Mudec.
Basquiat è un artista che non ha bisogno di spiegazioni. Semmai il “guardare” può essere aiutato da una narrazione. La narrazione ad esempio fa capire quanto sia compressa la parabola di Basquiat, come tutto avvenga in un concentratissimo arco di tempo: e c’è una corrispondenza con la fulmineità che è nel dna delle sue opere. Dall’apparizione in New York New Wave, Mostra al Ps1 dove lo scopre Sandro Chia che ne parla a Emilio Mazzoli, alla prima mostra a Modena, all’esordio americano nella galleria di Annina Nosei sino all’invito da parte di Rudi Fuchs per documenta (artista più giovane mai invitato a Kassel), passa poco più di un anno. La velocità è una categoria per “entrare in” Basquiat. Velocità in tutto, appunto anche nel dipingere, risucchiato da una febbre che è sua, ma che è anche del mondo che inizia subito a volerlo, a cercarlo, a correre verso le sue opere.

Basquiat, Three Delegates, 1982


La seconda categoria della narrazione è la regalità. Ovvio il legame visivo con l’elemento della corona messa sul capo di tante sue figure dipinte, che diventa quasi un suo logo, un suo marchio. Basquiat ha un piede nell’abiezione e l’altro nella nobiltà. Regalità è anche una sorta di purezza ultima, di energia redentiva che prende forma, corpo e luce attraverso la pittura. Regalità è la forza che lo fa stare dentro il sistema senza farsene mai definire (meravigliosa la circostanza della mostra del 1982 alla Fun Gallery, un garage di East Village, mostra che lui fa senza avvertire i suoi galleristi: raccontano che fuori si fosse creato un incredibile ingorgo di biciclette e di limousine).
La terza categoria è improvvisazione. Nella New York di fine anni 70 è evidente che la musica ha una forza e una capacità di intercettare lo stato d’animo collettivo, forza e capacità che alla pittura manca. È la libertà istintiva, a volte selvaggia delle nuove forme musicali che manca all’arte, ingabbiata nella logica delle continue sottrazioni del minimalismo. Basquiat, che ha in Charlie Parker il suo Thor, dio, rompe ogni indugi e cavalca la pittura come il free jazz cavalcava il suono della tromba. Libero, senza partitura, affidandosi al rischio/miracolo dell’improvvisazione. Dipingere liberandosi da ogni calcolo: questa è la sorpresa di Basquiat. Si capisce che non possa durare a lungo. Che l’improvvisazione diventi cifra della sua vita: non replicabile, né da lui, né da altri.

Basquiat, Yellow Tar and Feathers, 1982


La quarta categoria è ovviamente la strada. Basquiat è senza recinti, senza categorizzazioni possibili. Non ha protezioni, in senso fisico e morale. È uno che concepisce la vita come uno scorrazzare senza pause, senza pace e senza mete. Non ha un luogo nel quale stare. C’è un randagismo invincibile in lui, espressione di un’insicurezza radicale. La strada è il suo habitat , perché nella strada è sempre aperta la possibilità di perdersi.
Replico la visita il prossimo 28 febbraio.

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Febbraio 2nd, 2017 at 6:09 pm

Il rametto di Van Gogh

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È stato molto interessante l’incontro attorno al libro di Mariella Guzzoni su Van Gogh, che si è tenuto alla Casa della Cultura. Protagonisti l’autrice e Rocco Ronchi, filosofo capace di intelligenti “disvelamenti” delle immagini. Punto di partenza una questione lanciata nel libro: perché in una delle più celebri versioni dei suoi quadri con le scarpe Van Gogh nell’angolo destro trasfigura la stringa in una sorta di rametto? Perché spiega Guzzoni nel suo libro, l’attenzione (o meglio l’autentica infatuazione) di Van Gogh per le stampe giapponesi è qualcosa di così profondo da toccare il dna della sua pittura. Quel rametto è un’inserzione che cambia le carte in tavola e introduce un elemento che non rientra nello schema con cui abitualmente si legge Van Gogh: la realtà come punto di verità. Non a caso Martin Heidegger nel suo L’origine dell’opera d’arte sceglieva proprio questo quadro come emblema del suo ragionamento: «L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa veramente sono le scarpe […] il quadro di van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità». Ma quel dettaglio del rametto mette in crisi questa lettura. Come ha spiegato Ronchi dettaglio è diverso da particolare. Dettaglio è un qualcosa in eccesso che cambia l’insieme. E il rametto ha questa funzione.
Cosa è successo allora? Che l’impatto con l’arte giapponese non ha giocato solo come aspirazione o come suggestione di superficie, ma ha agito nel profondo, come già era accaduto con Manet. L’arte giapponese fissa un punto di non ritorno, in quanto riporta la storia della pittura sulle due dimensioni. La pittura perciò non ha più una profondità. La grande costruzione del 400 italiano aveva esaurito tutte le sue potenzialità e quindi c’era da riaprirsi un’altra via, se non si voleva ridurre la pittura a mera illustrazione.
Se è su due dimensioni, la pittura diventa di natura simile alla scrittura, ha spiegato Ronchi. Tra loro non c’è più una differenza di natura ma solo di grado, come appunto avviene abitulamente nelle stame giapponesi. La pittura è scrittura; e l’orizzonte nel quale agisce l’artista è quello di “dipingere la pittura” (così Morandi parlava di sé). Gli orizzonti che si aprono sono ovviamente infiniti, come dimostra tutta l’arte del 900: il linguaggio diventa il cuore dell’evento pittorico, la sua scommessa. Ovviamente, a differenza dell’arte giapponese la natura dell’arte in occidente è quella di non restare mai bloccata. Quindi quel contatto ha funzionato da reagente per far ripartire la storia…

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Gennaio 26th, 2017 at 9:47 am

Le Croci dipinte, ovvero dipingere sulla croce

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La mostra sulle Croci dipinte di Perugia è una di quelle mostre che stimola molti pensieri, dettati dalla pregnanza del percorso che viene ricostruito e proposto. Il tema è semplice e chiaro: lo sviluppo nel mondo francescano, subito dopo la morte del santo, del motivo delle grandi Croci dipinte il cui prototipo è quella perduta di Giunta Pisano commissionata nel 1236 per la Basilica Superiore di Assisi. Quella Croce la possiamo vedere ripresa, per uno straordinario gioco di rimandi, nella scena dell’Accertamento delle Stimmate dipinta da Giotto negli affreschi della navata della stessa Basilica. Le Croci dipinte (che si rifanno alla croce di San Damiano, fondamentale nella biografia di Francesco) mi sembrano formidabili nella loro portata “concettuale”. Infatti è potente l’idea che il supporto della pittura corrisponda nella sua forma con l’oggetto della scena che vi viene rappresentata. È così potente da determinare anche una sorta di tipologia architettonica, che viene replicata tantissime volte nelle chiese francescane, riuscendo ad attutire anche i cedimenti che la pittura a volte mostra, quando al lavoro sono maestri minori.
Viste in sequenza è proprio la stabilità di quella struttura, sedimentata in una forma perfetta nelle sue linee di forza, che potrebbe essere anche vista come pianta-tipo per un edificio ecclesiastico.
Questa stabilità concettuale apre poi le porte ad un inedito realismo nella resa della Crocifissione. Con Francesco si affaccia la figura del “Christus patiens”, quindi carico di sofferenza anche fisica. Tutto corrisponde ad una fattualità, proprio come era accaduto con l’idea del presepe a Greccio. Ed è una fattualità che crea uno stile, perché la forza architettonica della struttura determina di riflesso una tipologia per la costruzione dell’immagine: il motivo dell’inarcamento del corpo di Cristo è l’architrave di questa tipologia. Un motivo in cui coincidono realismo, forza intellettuale e dolcezza. Come recita il titolo del bel saggio in catalogo di Emanuele Zappasodi, “La Croce dipinta in Umbria al tempo di Giunta e Giotto, tra eleganze dolorose e coinvolgimento emotivo”.

Nell’immagine, Croce del Maestro di San Francesco

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Gennaio 15th, 2017 at 10:30 pm

Paolo Gallerani, uno scultore fuori copione

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Ho avuto modo di vedere in extremis la mostra di Paolo Gallerani alla Casa della Memoria di Milano. Una mostra forte, rude, senza fronzoli, che invadeva quegli spazi senza “un’impaginazione”. È scultura piena di dolore e di indignazione, ma che non si richiude nel lamento. Al contrario resta forte, sapientemente pensata e “costruita”. Ostinatamente fuori da ogni copione.
Parlano le foto (molto belle di Fabio Mantegna) più che le parole. Il catalogo è stato pubblicato da Officina libraria.
Sono debitore a Gallerani la scoperta di questo frammento di pensiero di Paul Virilio, messo a “didascalia” di una sua opera.

«In un mondo dominato dalla comunicazione e dagli spin doctors, gli artisti non esercitano più nessuna influenza. In una società dove l’otticamente corretto si sovrappone al politicamente corretto, non c’è spazio per artisti e pensatori. Non resta allora che l’autoemarginazione. Un artista deve guardarsi dalla celebrità, deve restare anonimo e solitario. La grandezza della povertà deve esser contrapposta alla grandezza della potenza… L’arte reale – non quella virtuale dei mercati – ha bisogno di riappropriarsi dell’anonimato e della povertà. Sul piano estetico, l’artista deve confrontarsi con l’incidente, non per godere del terrore e del dramma, ma per rivelarlo al mondo». «L’arte deve avere il coraggio di confrontarsi con la catastrofe con intelligenza e spirito critico. La vera arte contemporanea non è rivoluzionaria ma solo rivelatrice. Ci aiuta a comprendere la finitezza del mondo. Gli artisti devono inventare un’estetica non della fine del mondo ma della sua finitezza, vale a dire dei suoi limiti. Oggi il fantasma dominante è quello del binomio vedere/potere. In nome del principio di responsabilità caro ad Hans Jonas, sarebbe però necessario tornare al binomio vedere/sapere. Solo così l’arte potrà resistere all’accecamento in cui sta sprofondando»
Intervista a Paul Virilio
A cura di Fabio Gambaro, La Repubblica 12 maggio 2007

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Gennaio 12th, 2017 at 7:17 pm

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Mostre 2016, la mia classifica

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Un bilancio di un anno di mostre, con pochi spostamenti e tanti “vuoti”. Mi manca il nuovo allestimento della Galleria Nazionale di Cristiana Collu, che intuisco pieno di magie. Credo sia indimenticabile la sala manzoniana della mostra di Isgrò nella sede staccata di Casa Manzoni a Milano. Mi resta impressa l’emozione della mostra di Andrea Di Marco in coppia con le foto di Ghirri. Ci sarebbe voluto posto anche per Mondino a Villa Croce. E per la sorpresa di Antonio Calderara a Lugano. Comunque sia questa è la mia classifica 2016.

1.Bacon a Montecarlo. Personalmente la mostra dell’anno. Un senso di grandezza che ormai è raro respirare. Bacon è un artista sovrastante, che attraversa il suo mezzo secolo senza mai venire a patti con niente e con nessuno. Una forza ancora intatta, che esplodeva negli spazi dilatatissimi e fieristici del Grimaldi Forum.

2. Sigmar Polke a Palazzo Grassi a Venezia. In un certo senso è l’opposto di Bacon perché è un artista che può declinare la sua grandezza fagocitando ogni stile. Un artista per questo imprendibile, libero da ogni definizione. Linguisticamente splendido ed enigmatico.

3. De Chirico, gli anni ferraresi, al Palazzo dei Diamanti. Impressionante la sequenza di opere serratissime e concentrate su un unico problema degli anni dieci nella sua Ferrara. De Chirico mette sul tappeto quelle che saranno le questioni di un intero secolo. Il senso di un artista futuribile, reso da una selezione quasi completa dei lavori di quei tre anni “in apnea” creativa.

4. Christo a Brescia. È stato l’anno di Christo con la magia di The Floating Piers. La mostra dedicata ai suoi progetti sull’acqua o che hanno avuto l’acqua come oggetto è stato un modo complementare e intelligente di accompagnare il grande evento. Mostra dal percorso affascinante in cui spiccavano le grandi tavole progettuali di Christo, veri gioielli capaci di travalicare la dimensione progettuale.

5. L’accoppiata delle mostre concepite da Guido Beltramini a Venezia (Aldo Manuzio) e Ferrara (Orlando Furioso). In entrambi i casi si tratta di mostre concepite imperniandole su una vera sceneggiatura. Il visitatore si muove come dentro una rappresentazione scenica, con un copione che si snoda senza falle. La forza di questo modello di mostre è la capacità di stabilire nessi che allargano la scena. L’aldina con la prima messa a stampa delle Georgiche di Virgilio ha come “nesso” la nuova visione del paesaggio di Giorgione.

6. L’Image Volèe alla Fondazione Prada. Mostra, o meglio metamostra, perché mette a tema il rifluire dell’arte dentro l’arte. Percorso raffinato, ritmato alla perfezione da Thomas Demand. A ben vedere la mostra alla fine si è rivelato una sua opera d’arte, una spettacolare installazione a firma sua.

7.Armin Linke al Pac. Altra mostra molto installativa, che dialoga quasi con venerazione con lo spazio che l’ha accolta. Linke non tocca i muri di Gardella, ma usa lo spazio come luogo di transito, allestendo le opere come nella provvisorietà di un atelier. Il tema è ciò che non si vede, ciò che sta dietro la scena. Allestimento concettualmente perfetto rispetto al tema.

8. Perugino e Raffaello a Brera. Mostra minima, perché costituita di un quadro (il Perugino arrivato da Caen) e dal capolavoro “clonato”, lo Sposalizio di Raffaello. Mostra minima, ma mostra modello di come si possa fare un’operazione intelligente e anche attrattiva spostando un solo quadro. Una mostra che segnala anche la resurrezione di Brera, uno degli eventi espositivi di quest’anno.

9. Kentridge da Lia Rumma a Milano. Come per Christo è una mostra di appoggio per l’installazione realizzata lungo i muraglioni del Tevere a Roma. Un artista capace di grandi narrazioni, di un respiro epico e corale, pur nella singolarità a volte eclettica dei suoi linguaggi.

10. Le sculture del Sacro Monte a Casa Testori. Altra mostra minima, con due sole opere, ma con un doppio impatto. Emotivo, perché le due sculture gaudenziane arrivavano nella casa di colui che le aveva scoperte. Critico, perché ha permesso un ragionamento ravvicinato su quel capolavoro enigmatico che è la statua del soldato: in partenza data a Gaudenzio, oggi invece messa in dubbio.

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Dicembre 31st, 2016 at 4:25 pm

La Natività selvatica di Nolde. Ovvero il Natale non è mai uguale a se stesso

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Mi piace questa Natività inselvatichita e un po’ incendiaria. Una Natività aspra, in linea con i tempi… Una Natività fuori dalle righe, fuori dal mood consueto del Natale, dipinta voltando le spalle a tutte le Natività dipinte prima. Ma non c’è intenzione provocatoria in questa scelta di Emil Nolde. Il quadro fa parte di un insieme di grande respiro, il Polittico con la Vita di Cristo, dipinto tra 1911 e 1912 e oggi custodito a Neukirchen, nella Stiftung Seebüll Ada und Emil Nolde, in quella che era la casa dell’artista. C’è evidentemente un soggettivismo dichiarato in questo approccio. Un soggettivismo di impronta luterana che punta a saltare le mediazioni e quindi che non si preoccupa di accantonare anche la tradizione. Ma questo soggettivismo può essere letto anche come un’urgenza. Come un bisogno di strappare gli stereotipi e di restituire attualità e anche realtà a quei soggetti. In questa Natività in particolare è bella e spiazzante l’intuizione di Maria che orgogliosamente innalza il figlio, lo mostra al mondo, quasi con spavalderia e ostentazione. È un modo con cui Nolde attesta un “qui ed ora” e non un semplice atto di memoria storica. La Natività, viene da dire, nasce ogni volta. Mai uguale a se stessa. Non è mai una replica. Nolde con la sua pittura bruciante cerca questo (sulle tracce di Grünewald e dei grandi tedeschi del 500). Poi all’acidità dei colori e al disegno selvaggio e a tratti brutalizzante delle figure unisce l’intuizione così poetica del cielo notturno e stellato contro il quale si staglia la figura del Bambino. Un po’ ringraziamento (e affidamento) a Dio per aver dato al mondo quel figlio, un po’ richiamo al fatto che quella nascita è cosa che, pur nella sua natura circoscritta, ha relazione con l’infinito e con l’eterno.

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Dicembre 24th, 2016 at 6:34 pm

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Rivedere Balla, con lo stile della Fondazione Ferrero

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Questa recensione è stata pubblicata su Alias, domenica 18 dicembre.

Le mostre alla Fondazione Ferrero di Alba hanno sempre qualcosa di sorprendentemente (e piacevolmente) inconsueto. Qualcosa che mette in evidenza un senso civile del fare cultura proprio di altre stagioni piuttosto lontane della nostra storia. L’ingresso è gratuito; all’inizio del percorso i visitatori sono invitati nell’auditorium dove viene proposto loro un video ben fatto e molto utile per capire la mostra che di li a poco vedranno; l’allestimento è sobriamente essenziale; la guardiania è affidata a pensionati molto compresi nel ruolo. La selezione delle opere infine obbedisce a criteri di qualità senza perdere però mai di vista la funzione formativa e divulgativa di una mostra, destinata ad un pubblico largo. Un’impostazione che è stata accuratamente rispettata anche in occasione di questo appuntamento al Balla futurista e prefuturista, curata da Ester Coen (FuturBalla, sino al 27 febbraio, catalogo Skira).
Com’è giusto che sia, la prima opera che ci accoglie è un autoritratto datato 1894. Balla aveva 23 anni, ed era alla vigilia del suo trasferimento definitivo da Torino a Roma, capitale in grande fermento. Ha uno sguardo un po’ sfidante, più per posa che per natura: ci avverte che la sua autocoscienza artistica è fatto compiuto. I primi 15 anni di attività sono all’insegna di un verismo pieno di sentimento per un’umanità dolente e scartata. La tavolozza buia si accende di tanto in tanto, quasi per delle fiammate, a contatto con l’insegnamento divisionista. Nel 1910, quando già da un anno è scoppiata la bomba futurista, Balla dipinge un quadro molto intenso e poetico, intriso di neri morbidi e di luce soffusa. Il titolo dice tanto di lui: “Affetti”. È l’allievo Boccioni a squadernargli la novità, che Balla accetta con “meraviglioso” slancio. Ecco come lo racconta Boccioni stesso, in una lettera all’altro allievo Gino Severini: «Ci ammira e condivide le nostre idee in tutto, è però ancora troppo fotografico ed episodico ma ha 42 anni, ha una volontà quasi vergine e intatta e lo spettacolo della sua coraggiosa evoluzione ha commosso me e Marinetti come di un eroismo di cui difficilmente si vedono esempi». Parole che disegnano alla perfezione il profilo di Balla, e di cui non è difficile trovare puntuali riscontri nel percorso della mostra.

Il 1912 è l’anno chiave. Una permanenza in Germania lo apre alle esperienze dell’astrazione, nella forma di scomposizioni di colore che però, come chiarisce Ester Coen nel catalogo, non derivano dalle ricerche scientifiche, che pur avevano suggestionato tanti artisti, ma sono esito di «una ricerca squisitamente pittorica di accostamenti che simulano i timbri cromatici osservati in natura». Da Düsseldorf Balla torna con un piccolo quadro sorprendente e molto meditato: una veduta del Reno dalla finestra di casa, affondata in una luce biancastra. Quadro di uno sperimentalismo delicato, in cui l’audacia è temperata da un spirito di osservazione sempre attento e rispettoso. Nel 1912 entrano in gioco la luce e il movimento, due capisaldi della mens futurista. Ma Balla, per quanto entusiasta e categorico nei suoi proclami, quando si mette davanti al cavalletto torna sempre ad essere fedele a se stesso. Il suo così si palesa come un futurismo scevro da furori, un futurismo gentile. In quell’opera caposaldo, arrivata da Buffalo, che è Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912), più che l’oltranzismo da ricerca di avanguardia, prevale il senso del ritmo, la delicatezza musicale della composizione. L’eccitazione per il nuovo è addolcita da un istinto che lo porta sempre a far prevalere il dato di natura.

Neanche nella bellissima sala in cui il tema della velocità la fa da padrone e dove più si avverte la vicinanza – o la pressione di Boccioni, Balla viene meno a se stesso. Non c’è ansia nei suoi dinamismi, regolati da armonie cromatiche e da un immancabile senso di equilibrio. Non si avverte la tensione visionaria del Boccioni a cui il rettangolo della tela davvero non è più sufficiente e che sembra in procinto di andare definitivamente oltre la tradizione. Invece, come scrive Ester Coen «Balla è ancora pienamente immerso in un’idea estetica, in una morale legata al concetto di rappresentazione». Più che un’opzione culturale sembra proprio una questione di ordine psicologico. Così, nonostante le colorite intemperanze dei messaggi veicolati attraverso le sue cartoline creative (presenti in mostra), alla fine Balla trova il vero se stesso su lidi ben più pacifici. Questo spiega perché la Linea di velocità dell’aereo (da guerra, ndr) Caproni, pastello del 1915, si trovi ad attraversare vortici di un azzurro sereno, senza il minimo accenno bellicista. Eppure era il 1915…
Già due anni prima, in pieno tourbillon futurista, aveva dipinto un quadro dominato da azzurri intensi che disegnano linee addolcite; un quadro dal titolo emblematico: Velocità astratta-L’auto è passata. Il sottotitolo potrebbe essere: è passata e l’abbiamo scampata. Torniamo all’amata pittura.

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Dicembre 19th, 2016 at 8:53 am

Nuovissime su Testori

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Bella giornata quella di sabato a Casa Testori: un rendez-vous di giovani studiosi della “materia” testoriana. Tantissimi gli spunti. Me ne sono segnati alcuni, in modo del tutto rapsodico. Mattia Patti ha portato il risultato delle sue ricerche sulle 103 lettere che il giovane Testori aveva scritto a Walter Ronchi, direttore di Pattuglia, la rivista universitaria del Guf di Forlì (nell’immagine sopra un autoritratto di Testori, inviato a Walter Ronchi, ora nella raccolta del figlio Rocco). Lettere che documentano l’intensità della collaborazione e l’attenzione a tutti i dettagli. Ma quello che emerge dall’approccio di Patti è la vivacità con cui queste riviste di “regime” riuscivano a garantirsi spazi imprevisti di libertà. Erano dei nodi di rete, ciascuno con le sue caratteristiche, collegati tra di loro, che permettevano l’emersione di esperienze, favorivano confronti, s’avventuravano nella presentazione di novità non propriamente “ortodosse”. Notevole l’intuizione di pubblicare nel 1942 un librettino con i disegni di Guernica, supplemento ad una rivista che doveva essere degli universitari fascisti…
Giuditta Fornari ha ricostruito la vicenda del ritrovamento delle Lombarde, testo teatrale scritto nel 1950, che Testori aveva affidato a Gianfranco De Bosio (27 anni, 25 l’altro…). Scritto in seguito alla tragedia dei 40 bambini morti nel naufragio di Albenga, è una prova di dramma corale, un modello che lo scrittore riprenderà solo alla fine degli 70. La lettera di accompagnamento è una sorpresa, per maturità e attualità: «È probabile che le tragedie non s’inventino, esistono; e il fatto tragico è tale in quanto accade e accadendo si brucia e si denuncia. La mia fobia per i “messaggi” che ben conosci, ha avuto finalmente ragione – e sono contento quanto più ha durato fatica – sui residui moralisti di cui spesso incrocio la verità delle situazioni che affronto. Un difetto, questo, molto comune nei cristiani».
Daniela Iuppa ha sviluppato, sulla situazione della peste, il rapporto tra Testori e Manzoni. Peste e Monaca di Monza sono le due situazioni su cui Testori, da figlio libero, va scavare. Due situazioni che Manzoni nella costruzione finale del romanzo aveva ritenuto di arginare per preservarne l’equilibrio letterario e anche morale. Testori si scosta e proprio su quelle sue situazioni va a lavorare, quelle situazioni che Giovanni Macchia definì l’ora buia del romanzo. Come accade nell’inedita Peste di Milano del 1975. Gli interessano le zone oscure di Manzoni, quelle messe prudenzialmente in un angolo. Ma sempre dentro un grande amore e un’infinita stima verso “quel padre”. La definizione più efficace di Daniela Iuppa, è che Testori in questo modo fa dei “fuori sentiero” manzoniani. Che però manzoniani restano. I padri vanno sempre riguadagnati attraverso il rischio di altri percorsi.
Sullo sfondo della giornata la voce impressionante, libera come quella di un’Edith Piaf, di Rina Morelli che Federica Mazzocchi ha fatto ascoltare raccontando le sue ricerche sull’Arialda. Una voce che è aleggiata nella sala, aggrappandosi al cuore e alla gola di tutti quelli che erano lì ad ascoltare.

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Dicembre 5th, 2016 at 7:32 am

Chi è straniero nelle stanze per stranieri?

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Il luogo è straniante. Una fortezza in miniatura, forata dal passaggio incessante di auto nello stretto varco della porta. Siamo a Bergamo, sulla linea di confine tra città alta e città bassa. La microfortezza è una delle porte che i veneziani avevano costruito per passare oltre le gigantesche mura. Della sua forza ci si rende conto appena si entra, perché subito ci si lascia tutto alle spalle, si entra in una situazione altra, sparisce persino il frastuono delle auto; le finestrelle, con squarci suggestivi dell’autunno, danno la sensazione di un luogo separato, dove possono accadere cose là fuori sarebbero impensabili. E in effetti accadono.
Tra i muri della piccola fortezza in queste settimane si sono insediati tre artisti, che lo hanno acceso di nessi strani, affascinanti, volutamente indecifrabili. Sono due tedeschi e un italiano che da tempo lavorano stando in relazione e costruendo percorsi espositivi condivisi. Si chiamano Jochen Fischer, Susanne Windelen e Domenico Pievani. In comune hanno una appartenenza generazionale (generazione metà anni 50) e un linguaggio artistico che cerca poeticità nei resti. Sono tutti figli di quell’arte che dagli anni 70 ha cercato le opere tra le cose più che usare le cose per fare le opere. Ovviamente il tempo è passato e il percorso si è fatto via via più sottile, anche più arduo. Stanze per stranieri hanno voluto titolare questa loro mostra e in effetti la sensazione è che l’esperienza di un artista oggi sia quella di essere non solo straniero al mondo, ma in un certo senso anche straniero a se stesso. Per questo il mettersi insieme, l’esporre opere immaginando e costruendo relazioni tra di loro serve a stanarle. A farle uscire dalla loro stanza.
Non c’è bisogno di accanirsi a cercare significati. La cosa che colpisce in questo percorso proposto da Fischer, Windelen e Pievani è il modo con cui le opere riescono ad abitare questo spazio. Lo abitano nel senso che “ci vivono” dentro, caricandosi ciascuna di uno spezzone di storia da narrare. Anzi da narrarsi l’una con l’altra. Nello spazio più alto, suggestivo e assediato da muri selvatici e possenti, la sensazione è esplicita. Il nucleo più importante di opere è disposto sul grande pavimento e tutte sembrano come convergere verso un centro lasciato libero. Cosa si narrano? Ad esempio narrano del destino della scultura (i piatti di Fisher con le impronte su fogli di carta forati), forse di quello della pittura (Pievani con il suo Pozzo di luce, dai riflessi post monettiani) o forse di quello delle installazioni (Susanne Windelen con il trascinarsi di quella specie di sipario grigio). La sensazione, per noi stranieri, è quella che lì stia accadendo qualcosa di cui ci sfugge il tema. Come un teatro in cui gli attori sono sufficienti a se stessi e che continuano a recitare anche quando noi usciamo e la fortezza è vuota.
Questo per sottolineare che l’idea interessante dell’esperienza di Stanze per stranieri è che l’arte oggi ha bisogno di costruire relazioni; o meglio di identificarsi con queste relazioni. Ha bisogno di interconnettere i discorsi, di stabilire nessi non strumentali. Per stabilirli spesso si pensa che ci vogliano delle buone soluzioni allestitive. Invece bisogna solo lasciare andare le opere, e permettere loro di continuare quei discorsi iniziati in tante chiacchierate, in mille progetti discussi, in scambi di idee che attraversavano le Alpi. Alla fine, portate in uno stesso luogo, le opere iniziano a chiamarsi l’un l’altra. Sorprendentemente familiari tra di loro. Soprattutto sorprendentemente vive, perché libere da noi e anche da chi le ha immaginate.

Written by gfrangi

Novembre 26th, 2016 at 11:26 am