Il luogo è straniante. Una fortezza in miniatura, forata dal passaggio incessante di auto nello stretto varco della porta. Siamo a Bergamo, sulla linea di confine tra città alta e città bassa. La microfortezza è una delle porte che i veneziani avevano costruito per passare oltre le gigantesche mura. Della sua forza ci si rende conto appena si entra, perché subito ci si lascia tutto alle spalle, si entra in una situazione altra, sparisce persino il frastuono delle auto; le finestrelle, con squarci suggestivi dell’autunno, danno la sensazione di un luogo separato, dove possono accadere cose là fuori sarebbero impensabili. E in effetti accadono.
Tra i muri della piccola fortezza in queste settimane si sono insediati tre artisti, che lo hanno acceso di nessi strani, affascinanti, volutamente indecifrabili. Sono due tedeschi e un italiano che da tempo lavorano stando in relazione e costruendo percorsi espositivi condivisi. Si chiamano Jochen Fischer, Susanne Windelen e Domenico Pievani. In comune hanno una appartenenza generazionale (generazione metà anni 50) e un linguaggio artistico che cerca poeticità nei resti. Sono tutti figli di quell’arte che dagli anni 70 ha cercato le opere tra le cose più che usare le cose per fare le opere. Ovviamente il tempo è passato e il percorso si è fatto via via più sottile, anche più arduo. Stanze per stranieri hanno voluto titolare questa loro mostra e in effetti la sensazione è che l’esperienza di un artista oggi sia quella di essere non solo straniero al mondo, ma in un certo senso anche straniero a se stesso. Per questo il mettersi insieme, l’esporre opere immaginando e costruendo relazioni tra di loro serve a stanarle. A farle uscire dalla loro stanza.
Non c’è bisogno di accanirsi a cercare significati. La cosa che colpisce in questo percorso proposto da Fischer, Windelen e Pievani è il modo con cui le opere riescono ad abitare questo spazio. Lo abitano nel senso che “ci vivono” dentro, caricandosi ciascuna di uno spezzone di storia da narrare. Anzi da narrarsi l’una con l’altra. Nello spazio più alto, suggestivo e assediato da muri selvatici e possenti, la sensazione è esplicita. Il nucleo più importante di opere è disposto sul grande pavimento e tutte sembrano come convergere verso un centro lasciato libero. Cosa si narrano? Ad esempio narrano del destino della scultura (i piatti di Fisher con le impronte su fogli di carta forati), forse di quello della pittura (Pievani con il suo Pozzo di luce, dai riflessi post monettiani) o forse di quello delle installazioni (Susanne Windelen con il trascinarsi di quella specie di sipario grigio). La sensazione, per noi stranieri, è quella che lì stia accadendo qualcosa di cui ci sfugge il tema. Come un teatro in cui gli attori sono sufficienti a se stessi e che continuano a recitare anche quando noi usciamo e la fortezza è vuota.
Questo per sottolineare che l’idea interessante dell’esperienza di Stanze per stranieri è che l’arte oggi ha bisogno di costruire relazioni; o meglio di identificarsi con queste relazioni. Ha bisogno di interconnettere i discorsi, di stabilire nessi non strumentali. Per stabilirli spesso si pensa che ci vogliano delle buone soluzioni allestitive. Invece bisogna solo lasciare andare le opere, e permettere loro di continuare quei discorsi iniziati in tante chiacchierate, in mille progetti discussi, in scambi di idee che attraversavano le Alpi. Alla fine, portate in uno stesso luogo, le opere iniziano a chiamarsi l’un l’altra. Sorprendentemente familiari tra di loro. Soprattutto sorprendentemente vive, perché libere da noi e anche da chi le ha immaginate.