Robe da chiodi

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Quattro parole per entrare in Basquiat

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Basquiat, Hand Anatomy, 1982

Appunti per la visita guidata per Casa Testori alla mostra del Mudec.
Basquiat è un artista che non ha bisogno di spiegazioni. Semmai il “guardare” può essere aiutato da una narrazione. La narrazione ad esempio fa capire quanto sia compressa la parabola di Basquiat, come tutto avvenga in un concentratissimo arco di tempo: e c’è una corrispondenza con la fulmineità che è nel dna delle sue opere. Dall’apparizione in New York New Wave, Mostra al Ps1 dove lo scopre Sandro Chia che ne parla a Emilio Mazzoli, alla prima mostra a Modena, all’esordio americano nella galleria di Annina Nosei sino all’invito da parte di Rudi Fuchs per documenta (artista più giovane mai invitato a Kassel), passa poco più di un anno. La velocità è una categoria per “entrare in” Basquiat. Velocità in tutto, appunto anche nel dipingere, risucchiato da una febbre che è sua, ma che è anche del mondo che inizia subito a volerlo, a cercarlo, a correre verso le sue opere.

Basquiat, Three Delegates, 1982


La seconda categoria della narrazione è la regalità. Ovvio il legame visivo con l’elemento della corona messa sul capo di tante sue figure dipinte, che diventa quasi un suo logo, un suo marchio. Basquiat ha un piede nell’abiezione e l’altro nella nobiltà. Regalità è anche una sorta di purezza ultima, di energia redentiva che prende forma, corpo e luce attraverso la pittura. Regalità è la forza che lo fa stare dentro il sistema senza farsene mai definire (meravigliosa la circostanza della mostra del 1982 alla Fun Gallery, un garage di East Village, mostra che lui fa senza avvertire i suoi galleristi: raccontano che fuori si fosse creato un incredibile ingorgo di biciclette e di limousine).
La terza categoria è improvvisazione. Nella New York di fine anni 70 è evidente che la musica ha una forza e una capacità di intercettare lo stato d’animo collettivo, forza e capacità che alla pittura manca. È la libertà istintiva, a volte selvaggia delle nuove forme musicali che manca all’arte, ingabbiata nella logica delle continue sottrazioni del minimalismo. Basquiat, che ha in Charlie Parker il suo Thor, dio, rompe ogni indugi e cavalca la pittura come il free jazz cavalcava il suono della tromba. Libero, senza partitura, affidandosi al rischio/miracolo dell’improvvisazione. Dipingere liberandosi da ogni calcolo: questa è la sorpresa di Basquiat. Si capisce che non possa durare a lungo. Che l’improvvisazione diventi cifra della sua vita: non replicabile, né da lui, né da altri.

Basquiat, Yellow Tar and Feathers, 1982


La quarta categoria è ovviamente la strada. Basquiat è senza recinti, senza categorizzazioni possibili. Non ha protezioni, in senso fisico e morale. È uno che concepisce la vita come uno scorrazzare senza pause, senza pace e senza mete. Non ha un luogo nel quale stare. C’è un randagismo invincibile in lui, espressione di un’insicurezza radicale. La strada è il suo habitat , perché nella strada è sempre aperta la possibilità di perdersi.
Replico la visita il prossimo 28 febbraio.

Written by gfrangi

Febbraio 2nd, 2017 at 6:09 pm

Beuys in Vaticano (se ci fosse stato Ravasi)

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Gianfranco Ravasi, da pochi mesi “ministro” della cultura vaticana, è un uomo intelligente e non affetto da clericalismo. In un’intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (e pubblicata questo mese dal Giornale dell’arte) affronta in modo finalmente coraggioso il tema del rapporto tra la chiesa e l’arte moderna. Bacchetta severamente il sin troppo sbandierato nuovo Lezionario in cui sono state inserite opere di Paladino e Chia («artisti validi ma persino i loro lavori sono parsi privi di ispirazione»). Dice Ravasi: «…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività». «L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi delle chiese. Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un grande segnale».
beuys-crocifissioneLa Crocifissione (nella foto) si compone di due flaconi già usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce. Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in alto. Dissacrante? Non direi. Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi poveri resti ancora pregnanti di un significato.
Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione. Ora guardiamoci da chi dice di avere soluzioni in tasca. Su una materia così bisogna procedere, senza enfasi, tentativamente. L’importante è procedere, e prendersi dei rischi. E tenere gli occhi (e anche le porte: quelle delle chiese) aperti.
Post scriptum: l’importante è invece lasciar fuori dalla porta la retorica della presunte, periodiche rinascite del sacro. E lasciar fuori dalla porta anche le “elemosine” di  quegli artisti che regalano qualche soggetto sacro per vanità. Meglio il balbettio anche ambiguo di un Beuys. Almeno lui si gioca con le sue domande e l’asprezza dolorosa del suo sguardo.

Written by giuseppefrangi

Novembre 9th, 2008 at 4:16 pm