Robe da chiodi

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Pensieri fluidi a proposito del Guggenheim di Ghery

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«Quando il Guggenheim aprì i battenti, ciò che rimaneva della prosperità di Bilbao era un lungofiume dickensiano disseminato di arruginite piattaforme per i cargo e di spettrali magazzini». Così scriveva Danny Lee, inviato del New York Times. Faccio questa citazione perché alla base del fenomeno Guggenheim c’è un fattore che nell’incontro tenuto al Museo Diocesano ieri sera non ho esitato a definire miracolistico. L’architettura di un non architetto (mai laureato) come Frank Ghery che plana su una città uscita malconcia dal fordismo riuscendo a trascinarla ad un’imprevedibile riscossa, ha qualcosa di miracolistico. È tale addirittura nel suo Dna: con quella capacità di conciliare gli opposti. È artificiosità pura, ma poi insegue forme organiche (dall’alto si leggono i petali di un fiore; di lato la sagoma di un grande pesce); è arbitrarietà, ma controllatissima; è colossale rispetto alle misure di una città come Bilbao, ma poi la scopri integratissima, addirittura osmotica rispetto al fiume e connessa senza forzature con gli assi di scorrimento della città. Notavo che l’escamotage di far passare l’edificio sotto il ponte che attraversa il Nervion e farlo rispuntare al di là con la torre che si apre a doppia punta, sembra una mimesi del fiume: come l’acqua anche l’architettura di Ghery scorre, fluisce sotto il ponte. Bello quello che dice un architetto antitetico a Ghery come Gregotti: «Ghery sembra aver guardato con grande cura l’ambiente circostante ed aver scelto la metafora della grande nave, e quella della memoria della tradizione siderurgica della città, per costruire l’eccezionale argentea immagine del suo museo».
Notavo soprattutto che per quanto “miracolistica” l’architettura di Ghery si nutra di rapporti, non espliciti ma profondi. Notavo ad esempio che lo sconfinamento morfologico dell’architettura nel vegetale o nell’animale è esperienza che Gaudì aveva portato a livelli ancor più estremi. Notavo che ci sono quadri cubisti di Picasso (anche in collezione Guggnheim) possono anche essere visti come sovrapporsi di squame con tutte le sfumature del grigio (vista da vicino la copertura di titanio sembra cercare effetti simili). Infine notavo con grande sorpresa che sempre il Guggenheim (a Venezia) ha in collezione una scultura di Boccioni che sembra il prototipo della forma del museo di Bilbao. Non è un pesce ma un cavallo (1915); però siamo sempre in un orizzonte di fluidità, dove una specie finisce nell’altra. Certo è sin ovvio sottolineare che il Guggenheim geneticamente nasce dall’idea dinamica della scultura di Boccioni. È architettura instabile, magmatica, mobile. È una forma che non “acchiappi” perché ti sguscia dallo sguardo, cambiando connotati ad ogni istante. Ma insieme ha la pigrizia solenne propria degli edifici fuori scala: come un gigantesco animale messo a riposo, che di tanto in tanto ci si aspetti dia uno scossone.
PS: Che ci sia qualcosa di miracolistico in questo edificio lo ha ammesso lo stesso Ghery. «Costruire questo museo è stato un po’ come costruire Notre Dame. Ma qui la città ci era già cresciuta attorno».
PS/2: Notavo che le gigantesche sculture di Richard Serra, con i loro passaggi angusti, sinuosi sono il contraltare dell’edificio che li ospita. Come passare da uno spazio cosmico, a quello delle stradine assediate di una cittadina medievale.
PS/3: L’idea di far colorare di rosso da Daniel Buren l’arco del ponte sul Nervion mi sembra sia stata una pessima idea, fuori luogo e di disturbo. Come l’avrà presa Ghery?

Umberto Boccioni, Cavallo, 1915

Written by gfrangi

Agosto 30th, 2012 at 9:46 pm

La Sagrada Família, con punto interrogativo

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sagrada-familia-barcelona3Finire o non finire la Sagrada Família di Gaudì? La Spagna, dopo un  appello lanciato da 400 personalità, torna a dividersi. Proviamo a ragionare.

Le ragioni del sì: il popolo la vuole finita; le cattedrali sono sempre state dei cantieri interminabili, portati avanti per generazioni; mai nessun progetto è stato fedele alla lettera ai disegni originali; l’unità formale della Sagrada è comunque garantita dall’intuizione fantasmagorica del suo creatore; non terminarla comporta che la Sagrada non diventi un luogo pienamente di culto e quindi sia ridotta a mero santuario della curiosità; la Sagrada è uno di quei misteriosi “giganti” spuntati senza ragioni apparenti a rendere ultimamente visibile la fede in stagioni di oscurità.

Le ragioni del no: inutile erigere cattedrali per poi trovarsele vuote causa devastante secolarizzazione; il cantiere così come viene condotto è una caricatura di quella che era l’idea originaria di Gaudì; la parte nuova della Sagrada ha sempre più l’aria di un prefabbricato; ciò che nella mente creativa di Gaudì era intrico di mistero, rischia di ridursi a esoterismo spicciolo; la grandezza della Sagrada consiste nella sua drammatica incompiutezza; la cattedrale di Gaudì è un’opera moderna e quindi frutto di un genio tutto individuale: inutile inventarsi la retorica neo medioevale del cantiere corale. (C’è chi dice: anche la cupola di San Pietro venne progettata da Michelangelo ma finita da Giacomo Della Porta, con relativo ritocco dell’idea del genio. Ma il paragone non tiene: là Michelangelo aveva dettato un “verbo” implacabile, capace di plasmare il cervello e la visione di chiunque veniva dopo di lui. Qui Gaudì è un grande isolato. Un genio assolutamente eccentrico rispetto al corso della storia. Nel 1929, appena tre anni dopo la sua morte, a Barcellona, Mies Van der Rohe costruiva il Padiglione tedesco, l’architettura più radicalmente antitetica a Gaudì che si potesse immaginare).

Timidamente: io oso stare dalla parte del no.

Written by giuseppefrangi

Dicembre 17th, 2008 at 12:52 am