Il 2011 sono stati cent’anni dalla nascita di Renato Guttuso, ma l’anniversario è passato via in una sostanziale indifferenza. Eppure sarebbe stato interessante riaprire oggi il capitolo che lo riguarda. Guttuso non è un artista a cui si debbano invenzioni o intuizioni di quelle imprescindibili. È sempre stato nella scia dei tempi e di alcune linee maestre aperte da altri (Cézanne, Picasso), senza mai nasconderlo. C’era un fondo irriducibile di sincerità in lui che lo rende ancor oggi umanamente e culturalmente interessante. Ricordo di un’intervista all’Europeo in cui spiegava la sua diffidenza dall’espressionismo, che agiva facendo violenza sulle cose, mentre a lui interessava portare a galla la violenza delle cose, dove violenza non era una categoria affatto negativa, ma alludeva alla vitalità delle cose. “Un artista deve cercare la realtà come essa è, cercare di raggiungere le cose come sono”, diceva. Affermazioni persin banali, ma che lasciano intendere quel suo desiderio di sfilarsi dalle spire del soggettivismo. Che ci sia riuscito è un’altra questione: si può dire che questa intenzione la si scorge sempre davanti a tutte le sue opere più riuscite.
Ma in Guttuso c’è un altro aspetto interessante connesso a questo: è la malinconia, conseguenza di quel senso di fallimento e di inadeguatezza rispetto a quello che avrebbe voluto essere. C’è uno scollamento tra le cose e il modo con cui le cose rifluiscono anche in un’interiorità amica delle cose come la sua. C’è in Guttuso come un’impossibilità di adesione netta e semplice, a cui pur aspira. C’è un’intercapedine che si frappone tra il suo sguardo senza riserve e ciò che poi il suo artista metabolizza. E onestamente Guttuso non censura questa sua difficoltà. Basta vedere i ritratti dei primi anni, tra cui spicca quello ad Antonino Santangelo, del 1942, uno dei grandi quadri del dopoguerra, certamente uno di quelli di più intensa partecipazione umana alla temperie di quella stagione (un quadro, per dirla tutta, umanamente memorabile). C’è in questo quadro così aderente al piano delle cose, un senso di irrimediabile sconfitta, una malinconia che va ovviamente in rotta di collisione con tutte le certezze ideologiche. È questa sincerità squadernata che rende Guttuso un artista irriducibilmente simpatico nel senso più profondo e coinvolgente del termine. Simpatico cioè amico. Cioè innamorato delle cose, ma ferito dalla consapevolezza che quelle stesse cose erano destinate a sfuggirgli (quanto è lontano da lui il prepotente senso di possesso picassiano). Diceva sempre che l’artista vero è uno che va allo sbaraglio. Anche nella coscienza di non portare a casa quel che desiderebbe. Guttuso in fondo è uno che, con tutti i suoi limiti, è andato allo sbaraglio rispetto alla realtà e rispetto anche a se stesso. Per questo sarebbe stato molto salutare riscoprirlo.