Robe da chiodi

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Chi ha fatto l’Italia? Francesco

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Una reminiscenza dei lontani tempi universitari. Gli indici stilati da Bernard Berenson Italian pictures of the Renaissance, insostituibili punti di riferimento per generazioni di studiosi, prendevano avvio dalla tavola di San Francesco di Bonaventura Berlinghieri e da quella del Maestro di san Francesco (il riferimento è all’edizione illustrata del volume dedicato alle Central e North Italian Schools, pubblicata postuma nel 1968). Un altro studioso, Henri Thode, nel secolo scorso attribuiva a Francesco l’inzio addirittura del Rinascimento. Non è un’intuizione arbitraria: Francesco è colui che supera in modo definitivo tutte le esitazioni teologiche sulla legittimità delle immagini: l’Italia si sottrae per sempre dall’egemonia bizantina dell’immagine come “icona”.  Con Francesco l’immagine invece si fa storia, narrazione di fatti, di esperienze vissute. La fede non comunica più attraverso icone dall’apparenza metastorica, immagini bloccate a metà tra terra e cielo. Si può mettere una data a questa rivoluzione: Natale 1223, quello del Presepe di Greccio. Con Francesco che chiede di organizzare un Presepe vivente, Cioè di rivivere il fatto. La pittura da quell’istante è liberata. All’artista viene conferita la libertà di riraccontare, secondo la  sua sensibilità, e in tutti i suoi risvolti, l’avvenimento che sta all’origine della fede. Non è un caso che sulla tavola di Berlinghieri (1270 crica), insieme alla grande immagine di Francesco ci siano i riquadri con la narrazione dei fatti della sua vita.

L’Italia nasce qui, con Giotto che da ambasciatore gira l’Italia da Napoli a Milano a spalancare con l’autorevolezza del genio i nuovi orizzonti. L’Italia diventa il più grande laboratorio di immagini del mondo e della storia. Ma le immagini non sono solo a gloria di chi le produce, sono anche compagnia, consolazione, bellezza per chi le guarda e le vive. Oso dire che danno non solo un volto, ma anche un gusto alla fede: che è cosa da guardare e da toccare. Le immagini insomma cambiano la vita. (L’Italia diventa paese cattolico non solo e non tanto in senso di adesione a una fede,  ma in quanto a contaminazione del proprio immaginario). E questo dalla Sicilia sino a Bolzano. C’è di che essere grati a Francesco, che non a caso è il patrono d’Italia…

Written by gfrangi

Marzo 17th, 2011 at 11:04 am

San Valentino con i baci di Brancusi

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Un pensiero verso San Valentino. Assodato che il più bel bacio nella storia dell’arte è indiscutibilmente quello tra Anna e Gioacchino sotto la porta d’oro, nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, si può provare ad allargare lo sguardo. Ci si accorge come gran parte dei baci (d’amore, ovviamente) sono concepiti come baci che preludono a una separazione, a una partenza. Quindi hanno dentro una quota irriducibile di tristezza, che a volte si connota di patologico (Munch, Rodin, Klimt, lo stesso Hayez). Ci sono anche baci che si smarcano da questo trend. Ho in mente quello cannibalesco di Picasso. Ma soprattutto mi è capitata sotto gli occhi in questi giorni una versione bellissima del Bacio di Brancusi (la propone il Mart per San Valentino). Brancusi ne realizzò parecchie versioni tra 1907 e 1909. La più nota è quella di Filadelfia. Ma questa conservata a Craiova, in Romania è il prototipo ed ha una semplicità più primitiva e sintetica. I due si saldano in un bacio labbra conto labbra, in un gesto di passione e di tenerezza. Le braccia con un andamento fluido completano questo allacciamento amoroso. È una scultura felice, che sprigiona un senso pieno di innamoramento. Di  desiderio fisico per l’altro, ma anche di fanciullesco imbambolamento sentimentale. («Ogni mia scultura ha la sua ragion d’essere in un’esperienza vissuta», diceva Brancusi). Gli occhi dei due sono puntati uno nella pupilla dell’altro per un faccia a faccia senza freni e palpitante. Ma la forza di Brancusi sta nel non cedere sulla china romantica, dei corpi che cercano la fusione (ricordate Isotta che sogna di togliere la “und”, la “e”, che la separa da Tristano? Sogno terrificante…). La divisione resta. I due restano due. E l’energia della scultura si gioca tutta nell’esprimere la reciproca, palpitante attrazione.
Ammoniva Brancusi: «Ne cherchez pas de mystères; je vous apporte la joie pure».

(anche ogni post ha la sua ragion d’essere in un’esperienza vissuta: questo è dedicato ovviamente ad Angela)

Sotto, altri baci di Brancusi  (a destra quello di Filadelfia)

Written by gfrangi

Febbraio 12th, 2011 at 1:56 pm

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Giotto appese Cristo a una croce di lapislazzuli

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È una vera esperienza visiva entrare nella chiesa di Ognissanti a Firenze, percorrere tutta la navata, tra i Ghirlandaio e il serratissimo Botticelli, arrivare al presbiterio e affacciarsi sul transetto sinistro: lì, improvvisamente, si palesa la gigantesca Croce di Giotto, appena restaurata, che ai tempi se ne stava con Madonna di Ognissanti (Uffizi) e la Dormitio Virginis (Berlino) a dividere la zona dei fedeli da quella dei monaci e degli ufficianti. È un vero colpo che prende il cuore: quasi cinque metri di altezza, bombardata di luce che rende opaco tutto ciò che sta attorno, più che una Crocifissione sembra una vera chiamata alla Gloria. Cristo ha un’aureola intarsiata di vetri  e soprattutto è attaccato a una croce che è tutta di color lapislazzulo. Una croce che rifulge di luce, che resta impressa nella retina di chi la guarda come quando si fissa il sole. Una croce che sembra fatta di cielo. È bellissimo guardare le facce delle decine di turisti ignari che arrivano per curiosità a vedere il Giotto ritrovato, e appena voltano dalla navata al transetto, restano ammutoliti e stupiti a testa in su a vedere quell’immagine inimmaginata. Il lapislazzulo è ferito solo dalle scie rosse di sangue che cola dalle due mani e dai piedi. Tutto concorre a comunicare, senza enfasi, quanto sia prezioso per il mondo (per me, per te) il sacrificio di Cristo. Una comunicazione diretta, persuasiva, senza bisogno di didascalie: il semplice guardare deposita questa certezza nel cuore di ciascuno.

Un altro particolare merita: è la trasparenza del perizoma, che leggero lascia intravvedere l’incarnato sofferente e persino le ombre del pube. Se notate, la Madonna inguantata nel suo dolore, manca del velo. Come aveva spiegato  Chiara Frugoni, è un gesto verosimile immaginato dall’inconografia medievale: la Madonna arrivata sul Calvario, vedendo il Figlio nudo, chiede questo atto di pudore. Gli presta il suo velo.

Questa è la quarta croce che si conosce di Giotto (la più bella a Santa Maria Novella, poi Rimini e più piccola a Padova); Giovanni Previtali dubitava fosse proprio sua, e l’aveva attribuita a un “parente di Giotto”. Oggi, anche per ragioni di marketing culturale, tutti i dubbi sono stati spazzati via. Ma certi particolari fanno pensare ragionevolmente che Giotto abbia fatto ricorso ad aiuti (paragonate le mani di Cristo con quelle di Santa Maria Novella; o la tenuta dei tendini delle braccia). Tutto ciò non toglie che alla radice dell’opera ci sia un’invenzione così folgorante da reggere anche all’innesto di maestranze nella fase esecutiva.

Qui potete vedere una galleria di foto realizzate in corso di restauro (realizzato dall’Opificio di pietre dure di Firenze)

Written by gfrangi

Novembre 21st, 2010 at 11:55 am

Un Medioevo piene di tenerezze

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Quante sorprese tra le pagine del libro di Chiara Frugoni cui ho già fatto accenno qualche post fa.  Lei le definisce “pillole” di iconografia: in effetti sono centinaia di sguardi gettati su immagini generate dalla grande cultura medievale. E sguardo dopo sguardo poco alla volta cade la presunzione ci si è posti rispetto a quelle immagini: guardate con l’occhio nostro, che è un occhio superficiale, se non ha la pazienza di capire cosa vedeva davvero l’occhio degli uomini di quella stagione. Nelle immagini dell’arte medievale niente è mai messo a caso o per istinto di chi le ha realizzate. Tutto ha una ragione, e tutto obbedisce a una rigorosa struttura concettuale.

Ma ci sono particolari, che svelati, sorprendono anche per la loro geniale semplicità. Me ne sono rimasti impressi due e hanno per filo conduttore la tenerezza del rapporto tra Maria e suo figlio. La prima è relativa alla Crocifissione di Giotto agli Scrovegni. L’occhio medievale notava subito che Maria è senza il velo, elemento d’obbligo nella sua iconografia: infatti pietosamente lo ha prestato per coprire le nudità del Cristo crocifisso. Infatti il perizoma dipinto da Giotto è stranamente trasparente. Nessun Vangelo cita questo particolare, ma la Frugoni ha scovato molte fonti medievali che invece nel riraccontare la Crocifissione, immaginano questo particolare, che rende l’infinito strazio della madre che vuole evitare al figlio la vergogna della nudità a cui l’hanno obbligato i suoi carnefici. Un  gesto di semplice pudore che fa capire a quale dolente finezza possa arrivare l’amore di una madre.

Da Giotto, un salto indietro a Cimabue. Nella scena oramai quasi illeggibile dell’Assunzione ad Assisi, Maria e il figlio sono come legati da un abbraccio dentro la mandorla. Addirittura i loro piedi nudi si accavallano, come svela un disegno realizzato da un visitatore del secolo scorso (quando l’immagine era molto più leggibile). Questo motivo è ripreso da un minore, il Maestro di Cesi, del primo 1300, con un’opera che è unvero  trionfo della tenerezza. Maria infatti appoggia la testa sulla spalla del figlio, come colta in un momento di intimità. Lui, a sua volta la stringe a sé, abbracciandola. Mentre le loro mani s’incrociano e si sfiorano. È sorprendente come la ieraticità della scena non censuri per nulla il contenuto affettivo.

Non aggiungo altro alle parole di Chiara Frugoni su quest’opera: «Il Maestro di Cesi si mostra particolarmente felice nel rendere, con il fiducioso e intento abbandono della Vergine, a testa china fra le braccia di Cristo, l’intima dipendenza della madre-sposa verso il Figlio divino ritrovato, quasi Maria sussurrasse: “Infine!”»


Written by giuseppefrangi

Giugno 9th, 2010 at 12:12 am

Giotto e quel bacio sulle labbra

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Leggendo qua e là il nuovo libro di Chiara Frugoni La voce delle immagini (meno interessante rispetto alle attese) mi sono imbattuto in questa immagine ben nota. È un dettaglio dell’Incontro tra Gioacchino e Anna sotto la Porta d’oro, dipinto da Giotto agli Scrovegni. L’episodio è legato alla concezione di Maria e la Porta d’oro è una trasposizione simbolica dell’Immacolata concezione (che a quei tempi era verità ancora molto discussa nella Chiesa).

Ero abituato a vedere l’immagine nell’insieme, con  quel senso supremo della costruzione di cui Giotto era maestro. Trovarmi davanti questo dettaglio stretto, quasi un close up su quel bacio tra i due anziani sposi, mi ha folgorato. Date un occhio ai dettagli di questo dettaglio: le mani di Anna che stringono la testa del marito e ne accarezzano i capelli e la barba, il suo occhio innamorato che si fissa su di lui. Il braccio di Gioacchino che gira largo sulla spalla della moglie, quasi trattenuto dal pudore. I due volti che non si sfiorano ma si toccano. E poi quel bacio sulle labbra, così intenso, così tenero, così fisico. Mi colpisce che sia Anna a prendere l’iniziativa, a rovesciare il copione. È lei che esterna in pubblico il suo amore, senza problemi. Trovo che sia un’immagine immensa, di una densità umana che commuove e trasmette felicità. Pensare ad un amore che persiste così deciso pur nell’età che avanza; pensare ad un piacersi che non conosce stanchezza; pensare a uno stimarsi che non disdegna l’attrazione fisica; pensare a tutto questo è cosa che non ti fa togliere gli occhi da quell’immagine. Fosse per me riempirei le città di immagini così… Le immagini guariscono il cuore e il cervello (quanto è stata grande la Chiesa a capirlo e a difenderle, prendendosi tutti i rischi, quella volta a Nicea quasi 1300 anni fa…)

Written by giuseppefrangi

Maggio 25th, 2010 at 10:00 pm

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Pasolini, Masaccio e il finale di Accattone

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1676393887È uscito qualche tempo fa un bel libro di Stefania Parigi dedicato al primo film di Pasolini, Accattone (editore Lindau, 18 euro). Ne sono venuto a conoscenz grazie a una bella recensione di Civiltà Cattolica su questo numero. Dal libro ricavo due spunti interessanti. Uno riguarda la filosofia visiva di PPP, riferica con parole sue: «In Accattone non c’è mai un’inquadratura in cui si veda una persona di spalle o di quinta; non c’è mai un personaggio che entri in campo e poi esca di campo […]. Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come campo visivo, sono gli affreschi di Massaccio, di Giotto, che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (ad esempio, il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva».

Il secondo spunto riguarda invece la battuta finale del film, una battuta indimenticabile pronunciata da Franco Citti morente: «Aaah… Mo’ sto bene!». Sembrava esito del vitalismo pasoliniano, invece l’autrice del libro la mette in rapporto con un citazione che compare subito dopo i titoli di coda dei film e alla quale non si è dato il sufficiente peso. Pasolin cita dei versetti di Dante , da Purgatorio V: «…l’angel di Dio mi prese e quel d’inferno/ gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi?/ Tu te ne porti di costui l’eterno/ per una lacrimetta che ’l mi toglie”»… (una lacrima di pentimento, versata in punto di morte, è bastata da sola a cancellare i peccati di tutta una vita di Bonconte da Montefeltro e dargli la salvezza). Per Accattone non ci sono lacrimette, perché non c’è neppure consapevolezza del peccato, nella sua anima da sottoproletario. Ma quel conta è l’esito: quel “mo’ sto bene” è il presentimento di sperimentare il Paradiso.

Da rivedere e da leggere.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 24th, 2009 at 12:22 pm

Strafalcioni michelangioleschi

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14035-martyrdom-of-st-peter-michelangelo-buonarrotiAvendo dovuto lavorare per un articolo giornalistico sul restauro della Paolina, mi sono trovato a toccare con mano la confusione di un libro di larga diffusione pubblicato da un editore accreditato. È la biografia di Michelangelo di Antonio Forcellino, uscita nel 2005 per Laterza. A parte l’estemporaneità molto arbitraria a livello di interpretazione delle opere e del personaggio (un Michelangelo spiritualista, cattolico dissidente, antipapalino: lui che era alla testa di tutti i più importanti e ricchi cantieri pontifici…), il libro ha errori, individuati persino da un occhio dilettante come il mio. Si dice che il restauro del 1930 contò 80 giorni lavorativi per i due affreschi della Paolina. Mi parevan pochi, nell’arco di sei anni. Sono andato a fare una verifica: sono 85 più 87. Si dice che Giotto nella predella del Polittico Stefaneschi, per “chiudere” lo spazio lasciato aperto in alto dalla Crocifissione di San Pietro (un problema compositivo per tutti gli artisti) escogitò la soluzione geniale di mettere due cavalieri che avanzano a coprire il vuoto. Nient’affatto: i cavalieri ci sono ma stanno in basso a riempire lo spazio già pieno dalle braccia aperte di Pietro. Sopra ci sono gli angeli e le sagome delle due piramidi: la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo. Pietro infatti, secondo una tradizione, era stato crocifisso sul Gianicolo e poi sepolto in Vaticano (l’ho scoperto leggendo un preciso articolo di Arnold  Nesselrath sull’Osservatore Romano). Giovanni Andrea Gilio, che criticò la Conversione di san Paolo per la sua idea più bella (Cristo «che par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato»), viene presentato come monsignore, e non come il teorico censore che proprio nell’anno dlela morte di Michelangelo, il 1564, pubblicò il suo malevolo Dialogo degli errori de’ pittori per scatenare la polemica contro i nudi della Sistina. (Guardate che bello il particolare della Crocifissione di San Pietro).

Written by giuseppefrangi

Settembre 9th, 2009 at 6:48 pm

Pietro Toesca, la fotografia come capacità di sguardo

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8861300170A leggere e sfogliare il libro appena uscito Pietro Toesca e la fotografia (Skira, 40euro) si capisce quanto sia decisiva la capacità di sguardo. Toesca è stato uno dei maggiori storici dell’arte italiani. Con lui a Torino si laureò nel 1911 Roberto Longhi. È autore di un libro che Longhi stesso avea definito «il più gran libro apparso in Italia negli ultimi 50 anni». La pittura e la miniatura in Lombardia era uscito sempre in quel 1911 (io l’ho letto nell’edizione Einaudi, copertina grigia. Oggi non è più sul mercato). Toesca è uno dei primi storici ad accorgersi della funzione fondamentale della fotografia, sia a livello didattico (allestiva delle dispense di sole immagini per permettere agli studenti di seguire i suoi corsi: nel libro due serie di quelle immagini sono state affiancate dagli appunti del corso ritrovati negli archivi); sia a livello di ricezione dell’opera. La fotografia non è uno strumento oggettivo e Toesca ne era perfettamente consapevole. Forzando la mano di un fotografo d’eccezione come l’architetto Giuseppe Pagano riesce a farci sobbalzare davanti alla Pietà Palestrina che oggi nessuno assegna più a Michelangelo. È la forza dello zoom, dei tagli delle immagini, delle luci che rendono drammaticamente pulsante la pietra. Le incertezze dell’insieme così vengono sopraffatte dall’energia dei particolari.
Le campagne fotografiche dirette da Toesca sono guidate da una regia precisa e coerente che guidano dentro le immagini: così quelle di Assisi, dove il nome di Giotto sembra balzar fuori a caratteri cubitali nella chiarezza formale e spaziale dei tagli. Oppure quelle del battistero di Castiglione Olona dove Masolino è indagato anche laddove la salsedine sembra mangiarsi tutto; o quelle di Civate che anche editorialmente rappresentarono un capolavoro.
Il tutto è spiegabile solo con quella capacità di sguardo che è di pochi; e che soprattuo pochi sanno fissare e rimbalzare ai nostri sguardi. Da Toesca discende il Piero di Longhi (1926) che sceglie un linguaggio delle immagini sulla stessa falsariga. E, aggiungiamo noi, anche il Testori del Gran Teatro Montano (non per un caso uscito da Feltrinelli, editore popolare, perché la capacità di sguardo ha questo pregio: parla a tutti, non solo agli specialisti).

Domanda: l’immagine usata per la copertina venne scattata da Giraudon negli anni 30. Un’immagine che palna sul capolavorodi Michelangelo senza gonfiarlo di retorica. È un’immagine che aderisce alla pietra, che è un punto di vista ma non falsa l’oggetto, ma te lo fa conoscere, te lo fa “vedere”. Chi sa fotografare oggi così lo Schiavo morente?

Written by giuseppefrangi

Luglio 13th, 2009 at 9:37 pm

Dario Fo, meglio che tu taccia

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Ha fatto bene il vescovo di Assisi Domenico Sorrentino a impedire a Dario Fo di portare in scena davanti alla Basilica di Assisi il suo spettacolo in cui si prende la briga di demolire l’attribuzione a Giotto degli affreschi della Basilica Superiore, già sostenuta da Bruno Zanardi e da Federico Zeri. “Ofelè fa il to mestè”: Dario Fo è un grande guitto, ma la smetta di fare il crociato delle cause più inverosimili, solo per guadagnare in visibilità e passare da martire. Sugli affreschi di Assisi pochi hanno certezze: ma quelle poche certezze credibili portano tutte al nome di Giotto, come documentato dai libri recenti di due studiosi di primissimo piano, Luciano Bellosi e Serena Romano. Portano prove e ragionamenti serrati, che ora con la allegra fanfaronaggine che lo contraddistingue, Fo vorrebbe azzerare. A gloria sua e a danno di altri.

rebecca2Ps: Serena Romano riferisce a Giotto persino i due capolavori delle Storie di Isacco, nel registro alto della navata. Due riquadri che rappresentano un vero “inizio” dell’arte in Italia. È lo scavo nella “forma mentis” dell’artista che porta la Romano alla certezza. Nelle due Storie di Isacco infatti si trovano, in forma di invenzione, tantissimi elementi che Giotto maturo farà “esplodere” negli affreschi di Padova, più di 10 anni dopo. Sono tanti e davvero affascinanti questi elementi di coincidenza profonda. Uno in particolare: quello del “gesto”. Giotto mette spesso un gesto, emotivamente potente, come perno delle sue composizioni. Nelle due Storie sono le mani, icasticamente isolate sul fondo rosso del tendaggio che chiude la stanza di Isacco. Ed è la stessa  potenza semplice e densa che ritroviamo nella mano di Cristo, che si staglia sul blu del cielo nella scena dell’Ingesso a Gerusalemme a Padova; o è la stessa  efficacia fragile e drammatica del braccio del bimbo, sollevato brutalmente nella Strage degli innocenti.

Sono vere scatole spaziali che contengono intuzioni geniali, come quella di Rebecca che si volge di spalle, come scappasse, vergognandosi dell’inganno perpetrato…

Written by giuseppefrangi

Luglio 3rd, 2009 at 7:06 pm

Giotto, Francesco e Dio

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4 ottobre, San Francesco. Dire Francesco è dire Giotto, anche se l’attribuzione degli affreschi di Assisi è ancora al centro di una controversia frontale. Ma il libro recente (bellissimo: un lettura aristotelica di Giotto) di Serena Romano ha messo un bel punto fermo. Questa le genealogia di Assisi: prima le due scene con le storie di Isacco, poi la regia del cantiere con le storie di Francesco. Trait d’union tra le une e le altre sono alcuni elementi compositivi che vengono sul dal profondo di una personalità che è evidentemente la stessa. Tra i punti di contatto uno è importante perché svela, oltre che Giotto, anche Francesco. Scrive la Romano: «È un elemento di strategia narrativa e anche strettamente compositiva: è il modo di rappresentare il punto emozionalmente clou della storia, che ne riassume il significato e si esprime in un unico gesto».

Il gesto dunque. Passate in rassegna gli affreschi di Assisi. Le scene in cui Giotto era senz’altro alla regia sono incardinate attorno a un gesto. Sempre reso manifesto dalla mano. Portato a galla con un certo clamore, perché spesso stagliato sul fondo nudo e azzurro. È la tecnica di un narratore sicuro, che non conosce pentimenti, che tiene con saldezza in mano i fili della composizione. Nella scena della Rinuncia dei beni, una delle più belle, sintesi del Giotto più nitido, la centralità del gesto ha un’esplicitezza persin didascalica. Le mani giunte di Francesco rimasto nudo (e coperto solo dal mantello provvidenzialmente allungato dal vescovo di Assisi) sono tese verso l’altra mano, quella di Dio che sbuca dall’alto, stagliata sullo stesso fondo blu. Tutto il resto è contorno. L’occhio fruga, ma tutti gli altri, protagonisti sino a un istante prima, sono diventati comparse. Impallidiscono. C’è da credere che se potessero, si eclisserebbero. Invece devono stare. E vedere.

La strategia narrativa si ripete in tante scene: la Predica agli uccelli, il Miracolo della sorgente, la Scacciata dei diavoli da Arezzo, la Visione dei troni celesti… Sempre le mani alzate dal corpo, allungate, tese. Mani che domandano.. E chi se non uno della grandezza di Giotto poteva generare una soluzione di questa forza e di questa semplicità?

(L’alleanza tra Giotto e Francesco dura poi nel tempo. Nella cappella Bardi a Firenze, il pittore ormai vecchio, lascia quel capolavoro tutto ocra che sono le Esequie del santo. Tra gli astanti, il frate estatico sulla sinistra, ha una forza icastica degna del frontone del Partenone.)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 3rd, 2008 at 11:58 pm

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