È una vera esperienza visiva entrare nella chiesa di Ognissanti a Firenze, percorrere tutta la navata, tra i Ghirlandaio e il serratissimo Botticelli, arrivare al presbiterio e affacciarsi sul transetto sinistro: lì, improvvisamente, si palesa la gigantesca Croce di Giotto, appena restaurata, che ai tempi se ne stava con Madonna di Ognissanti (Uffizi) e la Dormitio Virginis (Berlino) a dividere la zona dei fedeli da quella dei monaci e degli ufficianti. È un vero colpo che prende il cuore: quasi cinque metri di altezza, bombardata di luce che rende opaco tutto ciò che sta attorno, più che una Crocifissione sembra una vera chiamata alla Gloria. Cristo ha un’aureola intarsiata di vetri e soprattutto è attaccato a una croce che è tutta di color lapislazzulo. Una croce che rifulge di luce, che resta impressa nella retina di chi la guarda come quando si fissa il sole. Una croce che sembra fatta di cielo. È bellissimo guardare le facce delle decine di turisti ignari che arrivano per curiosità a vedere il Giotto ritrovato, e appena voltano dalla navata al transetto, restano ammutoliti e stupiti a testa in su a vedere quell’immagine inimmaginata. Il lapislazzulo è ferito solo dalle scie rosse di sangue che cola dalle due mani e dai piedi. Tutto concorre a comunicare, senza enfasi, quanto sia prezioso per il mondo (per me, per te) il sacrificio di Cristo. Una comunicazione diretta, persuasiva, senza bisogno di didascalie: il semplice guardare deposita questa certezza nel cuore di ciascuno.
Un altro particolare merita: è la trasparenza del perizoma, che leggero lascia intravvedere l’incarnato sofferente e persino le ombre del pube. Se notate, la Madonna inguantata nel suo dolore, manca del velo. Come aveva spiegato Chiara Frugoni, è un gesto verosimile immaginato dall’inconografia medievale: la Madonna arrivata sul Calvario, vedendo il Figlio nudo, chiede questo atto di pudore. Gli presta il suo velo.
Questa è la quarta croce che si conosce di Giotto (la più bella a Santa Maria Novella, poi Rimini e più piccola a Padova); Giovanni Previtali dubitava fosse proprio sua, e l’aveva attribuita a un “parente di Giotto”. Oggi, anche per ragioni di marketing culturale, tutti i dubbi sono stati spazzati via. Ma certi particolari fanno pensare ragionevolmente che Giotto abbia fatto ricorso ad aiuti (paragonate le mani di Cristo con quelle di Santa Maria Novella; o la tenuta dei tendini delle braccia). Tutto ciò non toglie che alla radice dell’opera ci sia un’invenzione così folgorante da reggere anche all’innesto di maestranze nella fase esecutiva.
Qui potete vedere una galleria di foto realizzate in corso di restauro (realizzato dall’Opificio di pietre dure di Firenze)
talmente emozionante il crocifisso di Giotto che mi è impossibile tacere.
E viene un confronto impossibile con la cappella di Mies. Un confronto da capogiro per vicinanza e inconfrontabilità.
La cappella di Mies a noi è mostrata di notte. L’ortogonalità ripetuta a tagliare, segnare, contenere una luce interna. (Quanto è riproposta o vanificata la croce nell’ortogonalità ripetuta)?
In Giotto un azzurro abbagliante, perforante la vista umana, sfonda l’oro e il legno della croce. Azzurro percorso (come dice Giuseppe) dai rivoli/fili sottilissimi del sangue. L’azzurro poi schiarito (sbiancato e dunque meno abbagliante) è l’abito (teologico?) di Giovanni e avvolge tutta la Madonna (dandole rilievo invece che sfondamento). Azzurro ancora abbagliante (continuo al fondo senza fondo della croce) è il mantello a coprire il rosso sangue della veste di Cristo risorto che ha sua volta regge un libro rosso come il sangue.
Mies si tira indietro reverente nel suo socratico non sapere, ma ben più inquieto di Socrate. Giotto violento si avventura nel mistero. Forse la differenza sta tra croce e ortogonalità.
paola
22 Nov 10 at 10:01 am edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>