Robe da chiodi

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Quei dialoghi tra Testori e Arbasino

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Lunedì 19 marzo Repubblica ha pubblicato nel paginone di cultura un lungo articolo di Alberto Arbasino sulla mostra di Ravenna dedicata al Testori critico d’arte. L’articolo si conclude con una raccolta citazioni tratte da dialoghi che Arbasino ebbe con Testori in diversi momenti e pubblicate in alcuni suoi libri. È una raccolta realizzata con l’acutezza e l’intelligenza caratteristiche dello scrittore di Voghera. Per questo mi sembra importante riproporla.

Alberto Arbasino mentre legge in pubblico il suo Ingegnere in blu

Pessimi i giudizi sulla cultura contemporanea. «Mi pare fatta di piccoli particolari. Non fa che seguire viottoli di piccole esperienze e piccole emozioni. Un fatto privato, insomma. Anche se sembra e afferma di essere molto pubblica. Si vende alle occasioni, continuamente, non ha tenuta. Nessuno di noi è più in grado d’affrontare un argomento totale, pur partendo, come si deve, da un fatto particolare. A questo modo mi pare che si voglia riscrivere il mondo, invece di interpretarlo, dandone tutte le lacerazioni e i nonsensi…»

E da noi? «In Italia la letteratura non mi interessa quando testimonia la sua insoddisfazione e non se suppone di distribuire talismani. Mi pare che si tenda troppo a far credere d’aver tra le mani una giustificazione della vita, una speranza esterna e obiettiva che dia alla nostra vita una ragione sicura. Mentre forse è vero che uno scrittore, per dare veramente una speranza, non deve averne alcuna. O almeno, neanche una che sia sicura e preventiva».

E proprio qui? «L’interesse di fondo, affettivo, per dir così, è per la cultura lombarda. Soprattutto per le sue arti figurative. Sono quelli i miei testi, non è una novità: io guardo i quadri assai più di quanto non legga. Mi paiono sempre più materiati e meno facili a lasciarci adescare dalle chimere ideologizzanti…»

E i tuoi autori contemporanei, quali sono? «In pittura, seppure con molte riserve, Bacon. E comunque Caravaggio è il mio mito di sempre. E Ceruti, il Pitocchetto: per quanto concerne l’umano, l’amore e il sentimento umano, è sicuramente il più grande poeta che sia mai apparso. E quello che forse è stato l’ultimo momento di allarme e ribellione totale nella cultura dell’uomo: il tragico connubio tra romanticismo e realismo che vide nascere Géricault, Delacroix Courbet. E Gros. Quando entro nel salone del Louvre dedicato a quei maestri, ricevo una emozione e una spinta di vitalità incomparabile. È strano, non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte per farci amare la vita. O per non farcela odiare troppo».

Ma fra gli scrittori? «L’ultimo grande libro che ho letto rimane Sotto il vulcano di Malcom Lowry. Ma in teatro morto Brecht? Prendiamo Beckett: a me sembra più forte nel romanzo. Nel teatro mi pare troppo scopertamente favolistico, troppo esemplificatore.Tutti gli scrittori come lui mancano, secondo me, di quel fondo, di quelle radici e quelle viscere senza le quali ogni sforzo per arrivare a proposte universali diventa astratto. Si ha l’impressione che possa fra tutto quello che vuole, manovrando i suoi manichini per portare una tesi a conclusioni estreme. E poi? Perché non fare i conti con cose più precise? Perché chiamare una certa faccenda Godot e non Dio? A me sembra una soluzione parziale: mentre in Kafka i personaggi chiamati con una certa lettera dell’alfabeto si riepmiono sempre di un certo uomo, quelli di Beckett se ne vuotano continuamente».

Written by gfrangi

Marzo 21st, 2012 at 8:29 am

Longhi e De La Tour, il caravaggista nel fortino

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Georges De La Tour, San Giuseppe falegname, Museo del Louvre

Ora che approdano a Milano due capolavori di De La Tour, regalo “natalizio” del Comune alla cittadinanza (finalmente per Natale arrivano soggetti natalizi: ci voleva un sindaco che viene da Rifondazione per mettere ordine nelle cose…), ne sentiremo di ogni. Per questo meglio fare barra sulle parole di Longhi, che sono datate 1935, ma mostrano una freschezza ancora intatta. Con acutezza e ironia Longhi accosta un artista ad altissima carica suggestiva, senza mai andare in corto circuito. Il testo è in realtà un’intervista (vera o falsa?) pubblicata su L’Italia Letteraria nel gennaio del 1935 a commento della mostra sui Pittori della realtà in Francia che si era tenuta a Parigi.

Mi rimane da chiederle una sua precisione sul De La Tour. In questi giorni se ne leggono di ingegnosissime.
«Lei dovrebbe vederlo! È un pittore soprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il suo genio; ma sento che il talento di de la Tour spezzerebbe più di un manometro. È un peccato che non abbiamo nulla di suo, in Italia. Sebbene firmasse latinizzando, è probabile che non abbia mai fatto il viaggio di Roma. Ed è forse per questo che sa dare, dei principi caravaggeschi, un’interpretazione così a parte, per nulla servile. Magari gli sarà bastato quello che gli raccontavano il Callot o il Le Clerc di ritorno a Nancy, a un passo dai luoghi dove il de la Tour abitò e dipinse per tutta la vita. Lo vedo come il gentiluomo mascherato del caravaggismo, una specie di misterioso dilettante. Direi che, nel movimento caravaggesco, abbia la collocazione che il Savoldo, nobile bresciano, ebbe ne giorgionismo.
Costruisce il suo fortino caravaggesco a Lunéville in Lorena e continua a cristallizzare i suoi effetti di luce sino al 1650, a una data, insomma che di pittura caravaggesca non se ne faceva più da un pezzo, in nessuna parte del mondo. Si prova nei suoi esperimenti di alchimia caravaggesca chiuso in una torretta, a luce artificiale di lanterna magica o, tutt’al più alla luce gialla che filtra durante le grandinate. Starei per dire che il suo è un caravaggismo ugonotto. Sia come si vuole, le sue decifrazioni d’argomenti religiosi sono le più intelligenti e moderne dopo quelle, scandalose, di Caravaggio; ma più misteriose, esoteriche».

E poi ancora, a proposito dei Bari del Louvre

«Che strampalata precieuse, la cortigiana lorenese alla moda del 1630! Questo suo viso come un ovo di struzzo farà certamente spasimare il nostro Casorati, ma non sarà certo questa una ragione per cantar vittoria, perché, qui, l’arcaismo è provvidenzialmente avvolto da una verità di lume, per quanto eccezionale. C’era un’aria tra rosa e gialletta da grandinata imminente a Lunéville, quel giorno, ma c’era; non so che stagione corra nei nostri sintetisti di moda. E, a guardar più vicino, sugli orli della forma in apparenza così placida, intacchi brevi, rosicchiature; nei capelli rosso rame del baro a sinistra, Aramis magnifico, crepitano poche scintille avvistatrici; odore di polvere; un’ironia gentile serpeggia nei bizzosi scintillii delle monte prossime a passar di mano»

Ne ho scritto anche per il Sussidiario

Written by gfrangi

Novembre 23rd, 2011 at 11:31 pm

Il walzer dei quasi Caravaggio

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«D’altro canto, in un’epoca di pensiero debole come quella che stiamo attraversando, la sfiducia nelle capacità umane è all’ordine del giorno in ogni campo, e non ci si può troppo stupire che la storia dell’arte, in quanto disciplina umanistica, non sia stata risparmiata». Così scrive Cristina Terzaghi, una delle più autorevoli conoscitrici di Caravaggio in un articolo recente, Caravaggio 2010, pubblicato su Studiolo (n. 8), la rivista dell’Académie de France di Roma. L’articolo è un utile riepilogo ragionato delle tante novità emerse in occasione della sarabanda di libri e mostre per il centenario.
Quel pensiero calza alla perfezione anche per l’ultima novità di cui si è tanto parlato in questi giorni dopo al pubblicazione molto gridata sull’ultimo domenicale del Sole. Il quadro, per i pochi che ancora non lo sapessero, è un Sant’Agostino di provenienza Giustiniani, e inventariato come Caravaggio nel 1638. A seguire i documenti sembra che davvero che tutto torni: spostamenti tracciabili, antica etichetta sul retro che riporta a un erede Giustiniani. Addirittura, nota l’autrice della scoperta Silvia Danesi Squarzina, il calamaio è dello stesso tipo di quello che appare nella Vocazione di Matteo. C’è solo un documento che non convince molto, ma a quanto pare non sembra così importante: il quadro. Così almeno hanno detto senza mezzi termini due studiosi su posizioni culturali opposte come Vittorio Sgarbi e Tomaso Montanari (rispettivamente sul Giornale e sul Fatto).

Sulla questione non ho voce in capitolo: ammetto di aver rinunciato a fare lo storico d’arte quando ho capito di non avere “occhio”: ho scelto altre strade di cui sono contento, tenendo la storia dell’arte come attività libera e molto liberante. Tuttavia anche il mio occhio balbettante, davanti a quel Sant’Agostino s’è bloccato. Specie quando è stata proposta l’idea che dovesse essere il pendant di un altro Caravaggio Giustiniani, il San Gerolamo oggi a Montserrat. D’istinto mi è apparso chiaro che quelle due immagini non potessero essere state pensate dallo stesso cervello: il San Gerolamo («quintessenzialmene caravaggesco», lo definisce Montanari) ha un’essenzialità e una drasticità che manca in modo assoluto nel Sant’Agostino, un po’ traballante e annacquato in una mess’in scena volonterosa ma affastellata. Due mondi che non hanno punti di contatto, aldilà di tutte le possibili affinità stilistiche. Questo dice il mio occhio “balbettante”.
Ma a parte questa osservazione istintiva ed estemporanea, resta il fatto che le opere sembrano non “parlare” più. Come scrive Cristina Terzaghi, «sembra serpeggiare una sorta di abdicazione della storia dell’arte alla “gaia” scienza».

Written by gfrangi

Giugno 15th, 2011 at 9:05 pm

Caravaggio e i segreti svelati della Contarelli

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Quant’è lunga la coda del centenario caravaggesco. In questo momento tra Milano Roma e Rimini son ben quattro le mostre in cui il suo nome compare nel titolo. Un’autorevole amica mi dice che però l’unica che riserva qualche sorpresa (e non presenta attribuzioni avventate: è una mostra documentaria) è quella sulla Cappella Contarelli appena aperta a Palazzo Venezia a Roma. La mostra presenta i risultati della campagna diagnostica realizzata sui tre dipinti. Si scopre la faticosa messa a fuoco del Martirio, con una piccola versione completamente diversa e una seconda che trova la quadratura anche grazie all’ancoraggio alle certezze fornite dall’incisione Prevedari tratta da Bramante. Si scopre quindi un Caravaggio che si appoggia sugli equilibri garantiti dalla sezione aurea, o che va di compasso per una partizione più proporzionata delle superfici. Non ho visto ancora la mostra ma tra c’è questa radiografia, già ben nota, che ci fa conoscere una prima versione del particolare di Cristo e dell’apostolo nella Vocazione di Matteo. A parte la correzione umanamente sublime che Caravaggio apporta alla mano di Cristo tesa a chiamare Matteo, c’è un’altra correzione che colpisce. Ed è l’aggiunta dell’apostolo che compare a far compagnia a Cristo. Caravaggio, mi vien da dire, aggiusta le cose, sistemando prima ancora che le dinamiche compositive, quelle umane. Al Cristo solitario della prima versione, quasi imperioso nella sua chiamata, con il braccio puntato sul fianco, subentra un Signore di struggente tenerezza (“ch’a rimirarlo attrahe gl’occhi” aveva scritto nel suo sonetto Marzio Milesi, anno 1600). Un Signore che nella sua scia questa volta si porta dietro l’apostolo Pietro, l’apostolo-ombra col passo un po’ affaticato, i vestiti che pesano sul corpo e lo fasciano, le gambe lasciate nude, risucchiato nella sua condizione di semplicità e povertà (come  commuove questo accucciarsi dell’apostolo all’ombra del gesto di Gesù).

Written by gfrangi

Marzo 14th, 2011 at 10:09 pm

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Una recensione rivelatrice per Bronzino

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Federico De Melis a mio avviso è il miglior recensore di mostre in circolazione. Sabato scorso su Alias, inserto del Manifesto, ha affrontato la mostra di Bronzino a Firenze, facendo i giusti elogi ma cogliendo una forzatura: Bronzino viene letto dai curatori (Carlo Falciani e Antonio Natali)
nella chiave di pittore naturalista e portato sui terreni che da lì a poco saranno di pertinenza di Caravaggio. In catalogo viene addirittura pubblicata una suggestiva foto scattata nel laboratorio di restauro dove per un incrocio fortuito il Bacco di Caravaggio e l’Eleonora di Bronzino si sono trovati affiancati.

Il naturalismo di Bronzino nulla ha a che vedere con quello di Caravaggio, anche se questa interpretazione si poggia su un saggio di Longhi del 1927, ma è un Longhi ancora segnato, come precisa De Melis, dalle «riserve formalistiche e idealistiche di gioventù». Del resto quello straordinario Crocifisso arrivato da Nizza con fresca attribuzione al Bronzino (ce n’ė un particolare impressionante del busto di Cristo in catalogo), è di un naturalismo rarefatto, levigatissimo nelle forme. Un naturalsimo idealizzato nella sua purezza, al contrario di quello tutto piegato alla realtà del Caravaggio.  È interessante notare con quanta facilità, anche spinti dalle migliori intenzioni, oggi si appiattiscano e omologhino tutte le categorie. C’è come uno scorciamento brutale di prospettiva. Una specie di globalizzazione mentale.

Ad esempio viene meno il dato della matrice territoriale che comunque ogni artista si porta dentro. Il naturalismo di Caravaggio è diverso perché si è alimentato nel rapporto decisivo con la cultura figurativa lombarda. È un dato che già da solo ne fa terreno non raggiungibile da Bronzino. Caravaggio è fisicamente su un altro terreno. Nella prospettiva longhiana questo rapporto con la matrice territoriale non era affatto una ghettizzazione, ma una chiave di comprensione che andava tutta in profondità e che permetteva di leggere con chiarezza i flussi e gli incroci. Oggi invece che tener in debito conto i luoghi sia poco elegante. Così succede che  l’iperrealismo di Bronzino e il realismo di Caravaggio finiscano nella stessa casella.

Written by gfrangi

Gennaio 20th, 2011 at 9:24 am

Piovono Caravaggi

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La febbre dei nuovi caravaggi non conosce pace. Tra pochi giorni apre ad Amsterdam, alla Rembrandt huis, una mostra in cui verrà presentato un San Giovannino disteso, in collezione privata di Monaco, che era stato attribuito a Caravaggio da Peter Robb. Il quadro secondo gli organizzatori della mostra Bert Treffres e Guus van den Hout, sarebbe uno dei due San Giovanni che secondo il Bellori Caravaggio si era portato con sé nell’ultimo disgraziatissimo viaggio. Difficile giudicare. Certo il manto non sembra dipinto dall’ultimo Caravaggio… (qui un po’ di notizie)

Maurizio Marini invece pubblica in volume La prima Medusa, resa nota già nel 2003. A sostenere la sua attribuzione scende in campo anche Mina Gregori che firma con lui il libro (in uscita nel 2011). Questa è dipinta su legno di fico, mentre l’originale degli Uffizi è su legno di pioppo. Ha anche una firma nel sangue (come quella molto più tarda nel San Giovanni Decollato di Malta): «Michel A. f.» . La firma di Malta invece, venuta alla luce con il restauro del 1955, è «f. michelA», dove la “f” viene intesa per frater (Caravaggio era in quei mesi nell’ordine gerosolimitano). Staremo a vedere. Occhi esperti propendono per l’ipotesi che sia una copia.

Written by gfrangi

Novembre 26th, 2010 at 1:27 pm

Tre spunti domenicali: Cazzullo, i monaci algerini e Arlecchino

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Primo spunto. Il quadro più bello del mondo per Aldo Cazzullo. Nel suo nuovo libro Viva l’Italia, Cazzullo parla anche di arte e di musei, liberando un po’ di sana esaltazione per la quantità di bellezza che l’Italia nei secoli ha saputo creare. Ecco i suoi appunti, durante una visita alla National Gallery: «… e finalmente il Battesimo di Gesù di Piero della Francesca: forse il quadro più bello che sia mai stato dipinto… un quadro talmente straordinari che il Direttore della National Gallery lo comprò per sé, nel 1861, ma dopo due giorni di patimenti, decise che era troppo bello per stare in una casa e dovesse stare nel suo museo, fino a quando nel 2009 l’arcivescovo di Canterbury disse che il Battesimo era troppo bello per rimanere in un museo e avrebbe dovuto stare in una cattedrale, possibilmente la sua…».

Secondo spunto. Il film Gli uomini di Dio. Film bellissimo, che vi raccomando assolutamente. È la storia dei sette monaci trappisti uccisi nel 1996 a Tibhirine in Algeria, in circostanze che ancora non sono chiare. Ad un certo punto, Frér Luc, il monaco medico, di fronte al precipitare degli eventi, esprime la sua fedeltà e il suo amore a Cristo andando a baciare la riproduzione della Flagellazione di Caravaggio conservata a Rouen (lo vedete sullo sfondo della sua camera in questa foto). Non è un bacio qualsiasi, è un cercare rifugio nel corpo di Cristo. Un aderire a lui, nel senso più fisico e tenero del termine. Un gesto di una tenerezza indimenticabile.

Terzo spunto. Il cinema Arlecchino di Milano. L’ultimo baluardo rimasto in un centro mangiato dai grandi negozi d’abbigliamento. Ha riaperto, scoprendo sotto la propria pelle la bellezza delle decorazioni di Fornasetti (comprese le stupende vetrofanie: una magia che nessuna copertina di rotocalco oggi riesce più a restituire). Ma all’appello manca Lucio Fontana: assicurano che l’Arlecchino e lo straordinario fregio con la Battaglia in ceramica posizionato proprio sotto lo schermo sono in restauro. Speriamo che sia davvero così. Vigileremo…

Written by gfrangi

Ottobre 24th, 2010 at 5:01 pm

Caravaggio non ci sta più nello scaffale

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Ho contato tra gli scaffali nella mia libreria. E ho scoperto di avere 42 libri su Caravaggio (solo Picasso lo batte con 51). Dovessi tenermi aggiornate con quel che sta uscendo dovrei uscire di casa e aprire un mutuo… Ma sinceramente non ce n’è bisogno. Basta sfogliare i volumoni in libreria per capire che si tratta sempre di ricicciamenti delle cose che si sanno. Le nuove uscite non sono mia il frutto di ricerche, ma alambiccamenti di operazioni editoriali. Oltrettutto non sono neppure buone la campagne fotografiche (il volume di Electa, di Francesca Cappelletti – 90 euro – ad esempio ha immagini magnifiche che si alternano a cadute di qualità scandalose, tipo la Resurrezione di Lazzaro). Tutti si piccano di dare chiavi ermeneutiche sulla pittura e sul personaggio. Ma sono in genere interpretazioni che lasciano tutti il tempo che trovano. Francamente l’ultimo libro che mi sia capitato tra le mani nel quale abbia trovato cose che non si sapevano è quello di Cristina Terzaghi dedicato al rapporto tra C. e i Costa («Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa», 2007) . Lì troverete ad esempio tutta la ricostruzione del caso che portò alla realizzazione della Giuditta (con il nesso straordinario con il dramma di Beatrice Cenci e il ritrovamento del corpo di santa Cecilia: Roma, 1598). Certo nel panorama di chi lavora e indaga su Caravaggio si sente il vuoto lasciato da un personaggio come Luigi Spezzaferro.

Per cui a chi mi chiede suggerimento su cosa leggere, Longhi a parte, raccomando l’utile e precisa biografia di Helen Langdon uscita nel 2002 da Sellerio. Sono 490 pagine a 24 euro. Ho molto attinto da questo libro poco spocchioso per realizzare una biografia di Caravaggio fatta per gli amici di 30Giorni. Leggete qui se volete…

Written by giuseppefrangi

Maggio 8th, 2010 at 3:01 pm

Sull'omosessualità del Caravaggio

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Caravaggio era omosessuale? Una battuta scherzosa di Roberto Maroni, mentre rivendicava al proprio ministero (attraverso il Fondo edifici di culto) la proprietà della chiesa di Santa Maria del Popolo, ha rilanciato la questione: «Caravaggio era gay e lumbard», ha detto. Sulla cosa in realtà c’è da discutere. In passato cera stato uno scontro tra Bernard Berenson e Roberto Longhi sulla questione. Berenson, che rera omosessuale, aveva tirato dalla sua parte Caravaggio. Longhi lo aveva strapazzato con un saggetto dal titolo davvero irrispettoso: «Novelletta del Caravaggio “invertito”» (pubblicato su Paragone nel 1952). Erano tempi in cui la cultura di sinistra era rigorista e poco propensa a derive radicali e Longhi ne è piena espressione. Nel saggetto si diverte a demolire una prova sull’omosessualità di Caravaggio (la notizia, molto tardiva, di una sua opera che avrebbe rappresentato 30 uomini «ignudi che si abbracciano lubricamente»). Poi Longhi perfidamente fa capire qual è la questione: che Caravaggio più che essere omosessuale, piace agli omosessuali. Ed elenca gli intellettuali che bussavano alla sua porta per godersi l’immagine del Ragazzo morso dal ramarro. Tra gli altri ricorda Giuseppe Ungaretti (che fece un elegante e anche doloroso outing in una bellissima intervista concessa a Pier Paolo Pasolini: riguardatela).

Oggi il partito negazionista dell’omosessualità ha in Maurizio Calvesi il più ostinato paladino. Ma, premesso che la cosa non è molto importante a capire Caravaggio, bisogna dire che i quadri di più scoperto tenore omosessuale, sono quelli dipinti nei primi anni romani: ma quanto quei soggetti sono indotti dall’esplicita omosessualità del committente (il cardinale Del Monte) e quanto invece “parlano“ delle preferenze di Caravaggio? Con il passare degli anni questi riferimenti in effetti si diradano. E d’altra parte bisogna riconoscere che Caravaggio ha una capacità a volte prorompente nell’interpretare la fisicità femminile: ne sono testimonianza la bellezza a tutto tondo della Madonna dei Pellegrini o di quella dei Palafrenieri.

Ci sarebbe poi da parlare del suo rapporto con le più ambite prostitute romane come quella Fillide Melandroni che posò per la Santa Caterina (Thyssen) e a cui fece un ritratto distrutto sotto le bombe a Berlino (ma il ritratto era destinato all’amante di Fillide, Giulio Strozzi; foto qui sotto). Era quello il tipo di donna che funzionava per Caravaggio; Geronima Giustiniani, che posò come Giuditta e come Maddalena, non era molto diversa.

E se risolvessimo la questione ipotizzando che Caravaggio fosse bisex?

Written by giuseppefrangi

Aprile 17th, 2010 at 10:10 pm

I giorni giusti per vedere Caravaggio

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La macchina delle grandi mostre funziona così: enorme battage prima dell’inizio, con presentazioni su intere pagine. Poi cala il silenzio. Ad esempio del Caravaggio romano avremo letto centinaia di articoli di lancio, ma nessuna recensione. Personalmente ne ricordo una sola, firmata Simone Facchinetti, pubblicata dall’Eco di Bergamo, oltre che una nota sintetica e intelligente pubblicata sull’ultimo Giornale dell’Arte. Per questo mi fa piacere pubblicare alcuni passaggi della recensione che Laura Auciello, appena laureatasi a Roma in Storia dell’arte (tesi su Raffaellino del Garbo), mi ha fatto avere. Che abbia un occhio attento lo dimostra questa notazione utile che metto in testa: è quella relativa  ai giorni buoni per vedere la mostra, senza essere troppo penalizzati dai quadri che prima ci sono e poi spariscono. Laura consiglia il periodo dal 15 aprile al 14 maggio (arriva la Flagellazione di Napoli, anche se nel frattempo Il riposo durante la fuga in Egitto è partito per Genova. controllate qui la girandola)… Molto più complicato invece vedere Caravaggio a Siracusa, dov’è conservato quel capolavoro che è il Seppellimento di Santa Lucia. Un amico mi ha mandato il cartello degli orari via Mms: potete vederlo dalle 11 alle 14 e dalle 17 alle 19, lunedì escluso… Ecco la recensione di Laura Auciello.

«Le Scuderie accolgono oggi un Caravaggio celebratissimo e iperpubblicizzato, ospitando 24 opere, provenienti dai maggiori musei di tutto il mondo. Dislocate su due ampi piani, le tele sono suddivise visivamente in tre grandi sezioni, cromaticamente distinguibili e corrispondenti alle tre fasi della vita e della carriera dell’artista. Si hanno così pannelli verdi per la giovinezza, rossi per gli anni della fama e grigi per quelli della fuga. Una luce chiaroscurata, molto caravaggesca, pensata ad hoc dallarchitetto Michele de Lucchi, illumina – non illumina le opere disposte nelle dieci sale dell’elegante palazzo settecentesco. La mostra, volutamente divulgativa, punta ad una recezione quanto più possibilmente facilitata da parte del pubblico e propone un allestimento che stimola un’adesione emozionale alle opere esposte. Come corollario di ogni sala, i pannelli esplicativi spiegano – non spiegano le tele autografe, con qualche sommaria notizia storica e un commentario piuttosto pletorico ma decisamente suggestivo. La mostra è, così, decisamente “facile” nel suo andamento cronologico, nella proposizione delle tele tra le più famose dell’artista, nella ferma scelta di proporre solo un corpus certo e non discutibile di opere e nei pochi confronti tipologici suggeriti dall’esposizione. L’esposizione, seppur pensata con il contributo dei più grandi studiosi caravaggeschi italiani, che ne hanno curato anche il catalogo edito da Skira, non ha dichiaratamente alcuna pretesa scientifica o innovativa da un punto di vista meramente storico-artistico, molto lontana, in questo, da quella milanese curata da Roberto Longhi, nel 1951. Da sottolineare, poi, che la mostra rimanda più volte alle grandi tele ancora in situ, nelle chiese romane dove l’artista lavorò, consigliandone una visita, a completamento della visione delle opere esposte. Forse sarebbe stato auspicabile un prestito delle stesse per una maggiore coerenza espositiva e un’interessante decontestualizzazione delle opere chiesastiche».

(Sono molto d’accordo con questa sottolinatura finale di Laura)

Written by giuseppefrangi

Aprile 11th, 2010 at 2:41 pm