Robe da chiodi

A. R. Penck, la potenza dell’innocenza

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L’opera da cui prende avvio la bella mostra di A. R. Penck allestita al Museo Comunale di Mendrisio è un’opera che sgombera subito il campo. “Standart”, 1969, rappresenta la sagoma sintetica di un uomo in posa simil vitruviana. È dipinta in stile graffiti con un segno nero, drastico e semplice, su una tela trattata come un muro. Penck aveva ammesso che l’ispirazione gli era venuta dai disegni visti sulle pareti dei bagni pubblici; in quei prototipi aveva poi immesso l’energia di una primitività contemporanea. Non ci sono riferimenti alla cultura figurativa occidentale, dato che la cortina di ferro, come lui ha testimoniato, era impermeabile al passaggio delle immagini. È un’opera che immediatamente richiama la grammatica visiva di Keith Haring e di Basquiat: ma in quel 1969 loro avevano rispettivamente 11 e 9 anni… 

“Standart” non è semplicemente un titolo, è molto di più. “Stand”, che sta per “presa di posizione”; la parola risuona anche come “stendardo”, quindi bandiera, vessillo di un’arte appunto tutta nuova. “Standart” è un progetto radicale, «una ricerca sulla natura dell’immagine che ne metta in luce le potenzialità di espressione simbolica», scrive Ulf Jensen in uno dei saggi del catalogo. Penck lo definisce così: «Un sistema di segni fatto in modo tale da non essere solo percepito e imitato, ma anche prodotto, moltiplicato e operativamente modificato». Per l’artista quella sua stagione nell’Est finito sotto il comunismo sovietico, era stata la stagione dell’innocenza. C’è in effetti un che di potentemente innocente nell’idea di innescare la produzione libera di un linguaggio visivo più ampio e più comprensibile di qualsiasi espressione linguistica. 

A.R. Penck era nato invece nel 1939 a Dresda. Il suo nome reale era Ralf Winkler. Nel 1968 aveva scelto lo pseudonimo ispirandosi ad uno studioso di geologia dell’era glaciale, Albrecht Penck, che aveva esplorato la stratigrafia dell’era del Pleistocene. La sua biografia corre in parallelo con quelle di George Baselitz e Gerhard Richter, ma a differenza loro aveva scelto di restare molto più a lungo nella Germania dell’Est, coltivando appunto quel suo sogno di innocenza. Un sogno che consisteva anche nel dar corpo a un linguaggio artistico alternativo al dogma del realismo socialista, capace di uscire «da una dimensione personale per abbracciare la realtà nella maniera più ampia possibile», come scrive Simone Soldini curatore della mostra, insieme allo stesso Ulf Jensen e a Barbara Paltenghi Malacrida (“A. R. Penck”, fino al 13 febbraio 2022). “Weltbilder”, “quadri-mondo”, è non a caso il titolo di una serie di opere dei primi anni Sessanta, ben rappresentati in mostra, in cui Penck comincia a elaborare un linguaggio visivo chiaro e diretto. Il suo orizzonte fin da subito è il mondo che lo circonda, che vorrebbe dotare di un modello espressivo in grado di dare informazioni attraverso la semplicità delle immagini. Con l’energia del neofita, si fa notare per opere clandestine, dal messaggio molto chiaro: “Wandbild. Das Geteilte Deutschland” (“Murale. La Germania divisa”) è un intervento realizzato nel 1962 nel seminterrato di una Casa dello studente ed è la prima rappresentazione del paese tagliato dal Muro di Berlino. Era un’esplicita sfida al potere, dove il leader del partito Walter Ulbricht veniva rappresentato come uno schiavista. 

Penck approfondisce il suo progetto “Standart” studiando la cibernetica; lo concepisce come contributo alla costruzione del socialismo, attraverso il modello di una nuova pratica artistica. Ma la crisi del 1968, con i carri armati russi a Praga, segna un punto di non ritorno. Penck viene dichiarato «artista asociale» e nonostante la grande popolarità che si era conquistato è costretto a sparire dalla scena pubblica.  

In realtà sul suo percorso paradossalmente pesò di più un riconoscimento che non questa censura. Nel 1972 infatti Harald Szeemann, che aveva avuto modo di conoscere direttamente il suo lavoro, lo aveva invitato in documenta 5 a Kassel includendolo tra le “mitologie individuali” messe in atto dagli artisti nel dopoguerra. Evidentemente si era creato un corto circuito nella ricezione del suo progetto: “Standart” non intendeva assolutamente essere la creazione di una mitologia personale ma aveva l’ambizione di proporsi come modalità linguistica libera, creativa e replicabile; una modalità al passo con i tempi, dato il progressivo prevalere della comunicazione per immagini rispetto a quella per parole. 

Per Penck si apre una nuova stagione, che passa anche dalla fatica di una crisi personale. Nel 1977 scopre la scultura, anche grazie alla vicinanza con un altro protagonista di questa stagione dell’arte tedesca, Markus Lüpertz. Come scrive Soldini in catalogo, Penck «trova una via di uscita grazie ad un pezzo di legno che tiene da tempo sotto il letto e che ora prende a colpi d’accetta». La scultura per lui è un altro modo per abbracciare la realtà: «Ho bisogno di realtà. Qui dove tutto succede davvero», dice. Le sculture sono una delle sorprese della mostra e s’impongono per questo senso di immediatezza e di rapidità gestuale trasferita però nella stabilità del bronzo. Il legno spesso fa da matrice, ma a differenza di Baselitz, Penck sceglie di solidificarlo nel metallo, per accentuarne il peso di realtà. 

Nel frattempo Penck continua ad elaborare pensieri pittorici riempiendo centinaia di quaderni di appunti visivi: in mostra ne sono esposti una ventina; altri, con un intelligente sistema di proiezione, vengono anche sfogliati, in modo che ci si possa rendere conto della coerenza che li caratterizza. L’arrivo a Ovest nel 1980 significa «la perdita della mia innocenza», come lui stesso confessò. «Dovevo trovare una mia nuova collocazione». Infatti vediamo come in “Standard West”, del 1981, la carica icastica delle sue figure sia subito chiamata a fare i conti con un caos che ne mina le radici. Per questo Penck cerca uno “Sguardo in avanti”, come sottolinea nel titolo di un bellissimo acquerello in mostra, ma resta fondamentalmente fedele a se stesso e a quella sua propensione a raccontare il mondo più che se stesso. Anche nella serie degli Autoritratti, è l’occhio sgranato, puntato sulla realtà a fare da perno. Intanto Penck elabora una sua cosmogonia nella quale continua a inglobare la storia e la politica. Esemplare il caso del grande quadro “How it Works”, dipinto in America nel 1988 in occasione della mostra alla Galleria Hofmann di Los Angeles, che suona come una potente metafora dell’aggressività del liberalismo. Invece in “The Battlefield”, tela di oltre 10 metri di lunghezza, riprende il modello dei “Weltbilder” per una visionaria e selvaggia rappresentazione del mondo nell’anno della caduta del Muro: una sorta di big bang pittorico. Nel 2013, poco prima dell’ictus che lo avrebbe costretto, all’inattività, dipinge “Aquila e serpente – pianeta nero”, quasi metafora della globalizzazione, che nell’immediatezza comunicativa dell’immagine richiama ancora l’efficacia della “Standart”.

Una parola infine per la mostra che si collega idealmente a quella dedicata nelle stesse sale a Per Kirkeby nel 2017. Si tratta di due artisti che vengono dalla scuderia del grande gallerista Michael Werner (prestatore di quasi tutte le opere esposte) e che sono stati pochissimo visti in area italiana. Anche in questo caso l’allestimento è inappuntabile e restituisce intatta l’energia e la freschezza di un artista «dalla straordinaria energia sobillatrice» come lo definisce Enzo Cucchi, intervistato da Ester Cohen per il saggio in catalogo (dedicato al rapporto tra Penck e il nostro paese e in particolare alla partecipazione a Terrae Motus su invito di Lucio Amelio). In copertina al catalogo c’è solo il suo volto in close up, senza neanche necessità del titolo. Quasi un omaggio alla sua “Standart”, pittura che non ha bisogno di parole.

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Novembre 12th, 2021 at 3:38 pm

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Dolore e perdono, lo stile di Louise Bourgeois

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Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama. 

Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».

Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».

La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».

L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di  tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».

La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore. 

Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art  di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».

Pubblicato su Domani, 24 ottobre 2021

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:35 pm

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De Chirico il ritornante

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«L’Efesino ci insegna che il tempo non esiste e che sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire». Era il luglio 1917. Giorgio De Chirico scriveva da Ferrara al grande amico Apollinaire, dimostrando di avere già le idee chiare: se la storia è sempre un grande ritorno, il suo destino sarebbe stato quello di essere un “ritornante”. Inutile affannarsi ad inventare il nuovo quando «il sogno ci mostra il passato uguale al futuro e il ricordo si mischia alla profezia». Meglio lasciarsi portare dalla navetta che attraversa indifferentemente il passato e il presente in un continuum temporale, come il suo alter ego Ebdòmero (pubblicato nel 1929). Insomma, non si può dire che De Chirico non avesse preavvertito tutti, quando nel 1968 decise di riattivare per la terza volta il motore della sua Metafisica. La prima Metafisica era stata quella fondativa, tra 1910 e 1918. La seconda era quella “riformata” tra anni Venti e Trenta, dove la visione storico-mitologica-favolosa si scioglieva in un approccio più naturalistico. La terza, la Neometafisica, ha segnato l’ultima stagione di De Chirico: il maestro ha riapprocciato i vecchi temi con mente divertita, facendo suo quel suggerimento che proprio Apollinaire gli aveva dato tanti anni prima: con «colori più ridenti» la sua metafisica ci avrebbe guadagnato.

A lungo questa stagione di De Chirico è stata liquidata con un preconcetto negativo. Ma da tempo è in corso una convinta rivalutazione, come dimostra il libro di Lorenzo Canova, esplicito fin dal titolo: “Il grande ritorno. Giorgio De Chirico e la Neometafisica” (La Nave di Teseo, 360 pag., 28 euro). 

Ci sono alcuni fattori oggettivi che hanno reso necessario un ripensamento. Nel 1966 usciva il volume dei Maestri del Colore della Fabbri dedicato al maestro. Un volume evidentemnete congegnato in casa, con prefazione della moglie Iasabella Far e una sequenza di immagini che non teneva conto dell’ordine cronologico, né delle gerarchie critiche (in copertina c’era un’opera del 1963). Per una giovane generazione di artisti quel fascicolo aveva rappresentato una rivelazione. Tra i primi a mettersi sulla scia del vecchio maestro era stato Tano Festa che aveva trovato in De Chirico un’autorevole sponda per quell’operazione di recupero di capolavori del passato, collocati dentro la struttura a schermo dei suoi dipinti. «La Neometafisica può essere considerata come una sorta di “premonizione” di una certa “bassa risoluzione” di molta arte contemporanea, non solo legata alla pittura», sottolinea giustamente Canova. De Chirico si concede infatti la licenza di prendere alla leggera il dipingere, con un’esecuzione dei quadri più libera e a volte volutamente sommaria, senza preoccuparsi di contraddire quella rigorosa disciplina evocata nel “Piccolo trattato sulla tecnica pittorica” (1928). Il vecchio maestro, il “pictor classicus”, burbero nemico di tutte le avanguardie, si ritrovava ad essere in «una singolare e probabilmente inconsapevole sintonia con il nuovo» (Maurizio Calvesi). E non sono solo i pittori-pittori ad accorgersi di lui. Giulio Paolini (proprio in un’intervista rilasciata ad Alias) aveva spiegato che «nessuno meglio di De Chirico ha saputo destreggiarsi nell’insostenibile ruolo di “artista contemporaneo” per essersi abbandonato a una trionfale caduta libera negli abissi del Tempo». Secondo Philip Guston i quadri di Chirico rivelavano una grande libertà e una capacità di rischio senza precedenti nella pittura moderna. 

Il vecchio maestro replicava e giocava con i suoi vecchi soggetti. Un atteggiamento inaspettatamente affine a quello della Pop Art. Se ne era reso conto Andy Warhol che nel 1973 aveva preso parte a New York ad un ricevimento in onore di De Chirico organizzato al consolato italiano. Nella foto scattata da Giorgio Gorgoni si vede il “ritornante” sorridere con tono un po’ beffardo, mentre al suo fianco Warhol sembra quasi in soggezione. Qualche anno dopo, in occasione della grande retrospettiva-omaggio al Moma (1982), sfogliando il catalogo Warhol avrebbe avuto un’ulteriore folgorazione: in una doppia pagina erano state pubblicate tutte le 18 repliche delle “Muse Inquietanti”. Il Pictor optimus aveva bruciato tutti sul tempo intuendo la forza intrinseca nella serialità.  

L’eclettismo di De Chirico anticipa anche il postmoderno, come sottolinea Francesco Vezzoli. I suoi “soli elettrici” degli anni 70 prefigurano le visioni del gruppo Memphis. E andrebbe anche esplorata l’importanza che il maestro ha avuto nella genesi della Transavanguardia, cioè di una pittura figurativa liberata dalla preoccupazione di rappresentare la realtà e che si riconosceva in quello «spaesamento degli oggetti» strappati dalla rete abituale di rapporti di causa effetto o di vicinanza.

Questa centralità inattesa di De Chirico (che pervade anche il linguaggio televisivo) è uno degli aspetti più interessanti del libro di Canova. Un libro che nella sua concezione cede ad un eccesso di tentazione mimetica nei riguardi del maestro. I capitoli infatti sono tutti scanditi come Stanze, nelle quali veniamo accompagnati in ripetute (e a volte anche un po’ ripetitive) immersioni nell’immaginario del maestro. Dato che “il ritornante” con la Neometafisica torna sui suoi soggetti archetipi, la costruzione del libro avanza per nuclei iconografici o tematici di Stanza in Stanza. Una delle più emblematiche è inevitabilmente quella dedicata al “Figliol Prodigo”, che è non a caso la rappresentazione di un “ritorno”. De Chirico fino al termine della sua vita rinnova l’incontro con il padre nell’abbraccio sognato; quel padre perso troppo presto e sempre rimpianto. Dopo il capolavoro solenne del 1919, nelle repliche si era andato costituendo in padre archeologo pietrificato, a volte con un ribaltamento di ruoli: era lui a essere il “ritornante” consolato dal figlio. Nella versione finale, datata 1973, il climax si addolcisce. L’impaginazione solenne ripiega su una soluzione più domestica. Siamo all’interno di una stanza, il figlio giovane riccioluto (quasi pasoliniano…) e seminudo appoggia con dimestichezza la mano sulla spalla del padre. La porta è semiaperta, dalle finestre si vede un panorama di mare come quello della Grecia natia, quella stessa terra dove ora il padre era sepolto. Appoggiato al muro si vede un esile bastone: che sia il padre questa volta il “ritornante”? Il vecchio De Chirico sembra così giocare affettuosamente con se stesso e con i propri sogni, senza nessun timore di dare una versione quasi fumettistica di un proprio capolavoro iconico. Il “pictor optimus”, per il quale il passato era uguale all’avvenire, in realtà era più che mai al passo con i tempi…

Pubblicato su Alias 17 ottobre 2021

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:31 pm

Le teste cristiane di Alessandro Pessoli

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Con la mostra di Alessandro Pessoli i Chiostri di Sant’Eustorgio proseguono il percorso intrapreso da qualche anno per fare dialogare alcuni protagonisti della scena artistica contemporanea con questo contesto così carico di storia e di fede. Dopo Adrian Paci, Kimsooja, Stefano Arienti e Vincenzo Agnetti è la volta di un artista come Alessandro Pessoli nato a Cervia nel 1963 e che da anni ha scelto di risiedere a Los Angeles. Il titolo che Pessoli ha scelto per questo suo progetto espositivo è molto emblematico: “Testa cristiana”.

Alessandro Pessoli, Testa cristiana derisione, 2018. Photo Andrea Rossetti per Artribune

Da secoli i credenti si sono relazionati con i volti dei santi mediati dalla fantasia e genialità degli artisti; per secoli questi volti sono state presenze preziose e protettive, veri riferimenti per il cuore dei fedeli. Poi, come disse con grande sincerità Paolo VI nel celebre discorso nel 1964, quella relazione, quell’“amicizia” tra la chiesa e gli artisti si è inceppata e così anche i volti dei santi hanno iniziato a diradarsi. 

Per questo è stimolante guardare al percorso “Testa cristiana” di Alessandro Pessoli come ad un tentativo di riprendere quel discorso interrotto. L’artista non parla semplicemente di volti, ma allarga l’accezione: parlare di “testa cristiana” significa infatti mettere in campo qualcosa di più profondo, relativo ad un “pensare”, che va oltre l’aspetto fisiognomico e tocca quello psichico e culturale. I santi infatti non sono mai solo figure buone, ma sono intelligenze in azione, capaci di sviluppare, nello specifico di circostanze storiche sempre diverse, un pensiero sulla vita, sul mondo e sul mistero che li riguarda.

Quello di Pessoli è un percorso che deve realisticamente fare i conti con una memoria interrotta, come diceva Paolo VI. Riprendere quel percorso, provare ad allinearlo con l’oggi, implica perciò lavorare anche sulle ferite e sulle fratture, accettare la fatica di volti che sembrano a volte sfigurati. «Carico di tensione l’immagine, perché voglio che sia espressiva, perché per me non è pacificata», ha detto l’artista. È una tensione necessaria per far sì che questi volti e queste teste siano delle presenze a noi contemporanee. 

C’è inoltre un tocco di bizzarria a caratterizzare l’arte di Pessoli. È un tocco a cui l’artista non rinuncia neppure in questo ciclo, anche a rischio di sembrare irrispettoso. Ma come non ricordare che ai santi si è sempre attribuita una necessaria dose di follia? E don Giovanni Bosco non sosteneva forse che le teste cristiane sono piene di una strana allegria?

(Testo per il depliant distribuito ai visitatori in mostra)

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:50 pm

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Emma Ciceri/1. Da una schiena all’altra

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La mano di Emma che accarezza la schiena di Ester. Lì vicino c’è la Pietà Rondanini, con quella schiena della madre ricurva sul Figlio. È davvero intenso e “necessario” il dialogo che Emma Ciceri ha instaurato con l’ultimo capolavoro di Michelangelo.

Grazie alla disponibilità della direzione dei Musei del Castello Sforzesco, ha potuto stare a lungo, a tu per tu con la Pietà, nei giorni di chiusura. Lei ed Ester a vivere in quel contesto una condizione di vicinanza che da quando Ester è nata, è diventata per loro una condizione quotidiana e inalienabile. È nata così “Nascita Aperta”: due video che vanno in simultanea, dove gli stessi gesti si rimbalzano, compiuti in casa e al museo, cioè nella “casa” della Pietà. La presentiamo lunedì proprio al Museo della Pietà (dalle 14 alle 18) dove poi l’opera resterà per un mese: il progetto è di Casa Testori, curato da Gabi Scardi. L’installazione, ha scritto Gabi Scardi, “è una dichiarazione di adesione all’esistenza in ogni sua forma, anche là dove la vita si fa insondabile”. Aggiungo che è un’opera che ha la forza di una complementarietà: è complementare alla Pietà, perché dimostra come questo capolavoro sia “necessario” alla nostra vita. “Nascita Aperta” è un titolo che oltre ad essere bellissimo contiene un paradosso: la Pietà è immagine umanissima ma di una morte. Associarla alla Nascita che ogni giorno si compie nel rapporto tra Emma ed Ester, diventa una chiave per andare in profondità rispetto a quel capolavoro. Che quindi parla di vita, nella forma drammatica e anche dolcissima di un abbraccio sconfinato.

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:36 pm

Emma Ciceri/2. La Pietà come Nascita

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Ci vogliono ragioni profonde e anche una grande delicatezza per entrare in dialogo con un capolavoro impossibile da “circoscrivere” come la Pietà Rondanini di Michelangelo. Le ragioni di Emma Ciceri non sono molto distanti da quelle che hanno mosso il vecchio Michelangelo davanti a quel blocco di marmo. È un senso di infinità che si spalanca dentro la percezione di una finitezza, di una irrevocabile imperfezione. È quella dimensione solidale dei corpi, che in forza d’amore ribaltano la gravità della fatica e del limite in esperienza ascensionale.

Le ragioni per lavorare al cospetto della Pietà stavano dunque in una corrispondenza con quel capolavoro, vissuta e pensata. Emma si è accostata in punta di piedi, come a cercare riscontri tra la propria esperienza di madre e quella fissata, o meglio erosa, nel marmo da Michelangelo. Ha così trovato un’eco di quella dimensione imprevedibile che consiste nello scoprirsi sostenuti nel momento in cui si è sostegno: un confluire dei corpi in relazioni dove i ruoli non sono più rimarcabili, tanto che, come lei stessa ha confessato, è approdata alla convinzione che «la regia di “Nascita Aperta” dovesse essere di Ester».

Questa energia di ascolto ha trovato poi un suo corrispettivo nell’esito: il video è un lavoro che trova la sua intensità proprio nella delicatezza con cui sta un passo indietro, vela, allude, stabilisce corrispondenze silenziose. La scelta allestitiva è stata del tutto coerente con questa modalità di linguaggio: i due schermi, volutamente di dimensioni ridotte, sono stati collocati in una delle nicchie dell’Ospedale Spagnolo, protetti da una struttura a libro, appartati. E proprio per questo in profonda relazione con la Pietà.

Come Casa Testori siamo stati felici di accompagnare Emma Ciceri in questo percorso che l’ha portata ad operare all’ombra di un’opera che Giovanni Testori tanto amava. Credo infine che questa esperienza, resa possibile dall’apertura intelligente e dallo spirito di collaborazione della dirigenza del Castello Sforzesco, indichi una modalità vera e non strumentale di relazione tra arte contemporanea e opere del passato. Con tutta l’umiltà che ha caratterizzato il suo intervento, Emma Ciceri ha reso evidente come la Pietà Rondanini, capolavoro non finito e infinito, si prolunghi dentro le fibre della vita presente. Il titolo scelto da Emma allude, credo, anche a questo.

(Prefazione al volume di prossima uscita dedicato a “Nascita Aperta”)

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:32 pm

Gli albori di Schifano

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A Roma in quell’inizio di anni 60 gli unici rimasti a dipingere erano gli operai chiamati a verniciare i selciati delle strade con strisce pedonali e segnaletiche orizzontali. Il boom delle auto costringeva le città a “ridisegnare” le proprie strade. Nel bellissimo film di Elio Petri, “I giorni contati”, uscito nella prima metà del 1962, il protagonista, un memorabile Salvo Randone, dopo aver lasciato il lavoro, si divertiva a bighellonare di notte per Roma prendendo in giro gli operai che, con pennello e secchi di vernice bianca, erano costretti a piegare la schiena per dipingere strisce regolari sull’asfalto (qui un link ad una sequenza del film con Piero Guccione nelle parti di artista-idraulico).

Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mario Schifano alla galleria La Salita, 1960

Negli studi degli artisti all’opposto si respirava una radicalità che non lasciava più spazio alla pittura. «La pittura era finita e bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo, di attuale», ha raccontato Mimmo Rotella che in quegli anni agiva con i suoi décollage, interagendo quindi con l’ambiente urbano. Come poteva vivere questa transizione radicale, questa “condizione zero” (Maurizio Calvesi) Mario Schifano, un artista che aveva la pittura nel sangue? È il tema affascinante di un libro di Giorgia Gastaldon, un vero ed esemplare esercizio di archeologia del contemporaneo, frutto di una tesi di dottorato a Udine, la cui pubblicazione è stata resa possibile grazie alla Biblioteca Hertziana- Istituto Max Planck per la storia dell’arte (“Schifano. Comunque, qualcos’altro”, Silvana, 39 euro)

Il libro scava in questa situazione cruciale che va dal 1959, anno della mostra di esordio dell’artista alla Galleria Appia Antica, fino alla consacrazione con la partecipazione alla Biennale del 1964, con un’attenta ricostruzione e risistemazione della cronologia così da rendere più chiari questi albori dell’arte di Schifano. 

Il titolo è tratto dall’unica dichiarazione di poetica che Schifano abbia mai rilasciato e che aveva affidato in forma di appunto a Maurizio Calvesi tra 1961 e 1962. «Suggerito dalla memoria lo comincio; sapendolo già lo elaboro; usando sopra la superficie: colla, carta, smalto. Lavorando copro tutto: a volte è giallo, a volte è nero oppure bianco e blu o rosso; infine come per dargli un nome e accettarlo ci segno una cifra, a volte. Questo è il mio quadro, non so se frattura con il gusto corrente; per me, comunque, qualcos’altro». Parole che avanzano per suggestioni e allusioni, ma che nello stesso tempo si soffermano sulla concretezza dell’atto artistico e si chiudono con quell’affermazione che ci parla nei termini di una necessità e anche di una irriducibilità. A quel punto del percorso Schifano aveva sperimentato con la prima personale all’Appia Antica un tentativo di aggirare la pittura attraverso l’uso del cemento, sotto l’egida di Emilio Villa. Era un tentativo poi subito abbandonato, ma quel passaggio gli aveva permesso di appropriarsi del paradigma del “quadro oggetto”. Il quadro è pensato come «oggetto autoreferenziale perché incardinato alle categorie sulle quali era costituito, cioè i vari materiali utilizzati per realizzarlo»: un fattore di coscienza che accomunava le esperienze più avanzate a Roma ma in particolare a Milano. «Un quadro vale solo in quanto è, essere totale. Alludere, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti», sosteneva il più oltranzista di tutti, Piero Manzoni.

Mario Schifano con Emilio Villa

È proprio partendo da questa consapevolezza che Schifano si inoltra nell’esperienza del monocromo. L’esordio è alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, nel 1960, con la collettiva “5 pittori Roma 60. Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini”. Il “quadro oggetto” è tecnicamente complesso. Schifano lavora a volte sul telaio aggettante, a volte usa la traversa per dare forma a dei dittici. Ma è il lavoro sulla superficie della tela a dare più stimoli all’artista e a permettergli di esercitare quella che Gastaldon definisce «una ricercata piacevolezza materica del dipingere». Vinavil e Ripolin sono i ritrovati a cui Schifano fa ricorso in modo sistematico per i suoi monocromi. Con il Vinavil bagna i fogli di carta con i quali copre la superficie della tela; il Ripolin è invece uno smalto dalla ricetta tradizionale, molto coprente che l’artista usa senza diluirlo con la trementina per aver un colore più corposo e denso e rendere così ben percepibile la fisicità della materia pittorica. Come ha scritto Flavio Fergonzi (supervisore al dottorato di Giorgia Gastaldon) il risultato è quello di «spingere l’osservatore a indugiare sulla vitalità pittorica del quadro».

Il flyer per la personale a La Tartaruga, 1961

Il passaggio successivo è quello decisivo del ritorno delle immagini. Anche in questo caso, pur nella sua reticenza a parlare del proprio lavoro, è Schifano a inquadrare sinteticamente la situazione con una testimonianza affidata a Nancy Ruspoli: «O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci sollecitava». È il 1961. A marzo apre la personale alla Tartaruga di Plinio De Martis. Schifano lascia trasalire sulla superficie della tela forme che sono insieme astratte e immagini tratte dall’occasionalità di quegli sguardi sul mondo. In “Roma 1961”, a bande verticali bianche e nere, dove il bianco che ha una corposità data dalle increspature della carta e dalle colature dello smalto, richiama il contesto del film di Petri. La segnaletica è un incentivo, diceva l’artista. Che concludeva: «Poi, dipingere comunque». Fondamentale punto di riferimento in questa transizione è Jasper Johns, che diventerà suo interlocutore diretto in occasione del viaggio americano del 1963 ma la cui fama era già ampiamente consolidata in quel 1961. È un rapporto che è stato indagato da Fergonzi nel suo libro sull’influsso dell’artista americano in Italia (Electa 2019, recensito su Alias da Luca Pietro Nicoletti, 15 marzo 2020). Schifano avrebbe fatta sua la lezione di pittura di Johns, cioè che «il campo pittorico, in un quadro moderno, può accogliere l’immagine solo se dichiara l’autonomia della pittura».

Su questa lezione Schifano innestò però la sua italianità, come aveva rilevato da subito Cesare Vivaldi. Evita di restare bloccato su un’interrogazione fredda sul significato del vedere e invece lascia che i linguaggi della tradizione si sovrappongano alle seduzioni della visione moderna della città. È il momento della meravigliosa fioritura che culmina nella presenza alla Biennale del 1964, preceduta dalla mostra newyorkese dello stesso anno alla Galleria Odyssia. Sulla copertina del depliant di quella personale compare un disegno dal titolo emblematico En plein air”. Un germe felice di paesaggio che esplode, per quanto trattenuto dalla disciplina di un monocromo, nei grandi quadri dipinti a New York e mandati a Venezia. «Sono bellissimi. Sono puliti e pieni di cose, saranno i più moderni e i meno modernisti della Biennale», annunciava a Calvesi nel maggio 1964. E in quelle parole si riconosce anche uno scatto d’orgoglio rispetto all’America che non lo aveva capito.

La recensione è stata pubblicata su Alias il 19 settembre 2021

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Settembre 21st, 2021 at 4:31 pm

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Mario Sironi, il Giobbe della pittura

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«Io so come te, che uno strato di pietra si è come sovrapposto sul corpo e l’anima di quell’infelice mio figlio…». Chi scrive è Giulia Villa, coniugata Sironi. La destinataria è invece Matilde, moglie a quel tempo separata (siamo ad inizio anni 30), di Mario Sironi. E sono naturalmente di Sironi il corpo e l’anima a cui si riferimento in quella bella e straziantissima lettera.

Pochi artisti nel secolo scorso hanno accettato di fare i conti con la dimensione del dolore come lui; dolore personale, ma anche dolore del suo tempo. È una dimensione che assedia e insieme struttura la sua pittura, dando corpo e sostanza a quelle due categorie di “sintesi e grandiosità” scelte come sottotitolo della bella mostra da poco aperta al Museo del 900 di Milano (fino al 31 marzo 2022). Per una volta gli spazi espositivi troppo compressi del museo ricavato nell’edificio dell’Arengario, si rivelano funzionali: infatti i cartoni per le grandi opere pubbliche realizzate sotto il fascismo, per ragioni di dimensioni sono presentati fuori dal percorso e così diventano meno condizionanti rispetto alla lettura del grande artista («Che fa Sironi? Sta lavorando? Avete un grande artista, forse il più grande del momento, e non ve rendete conto», aveva ammonito perentoriamente Picasso). A dare forza al progetto espositivo contribuisce la scelta delle opere, tutte di assoluta qualità, e spesso poco viste, come dimostrano le rispettive storie espositive che Elena Pontiggia, curatrice della mostra insieme ad Anna Maria Montaldo e biografa di Sironi, ha accuratamente documentato nelle schede del catalogo edito da Ilisso. 

È dunque un Sironi “da cavalletto” quello che scorre davanti ai nostri occhi. Ma per Sironi il cavalletto, lungi dall’essere strumento d’accademia, è una finestra costantemente spalancata sul suo tempo e sulla storia. O meglio, è un varco attraverso il quale la sua pittura precipita ogni volta nel tempo e nella storia. «… Eppure quella stessa anima messa a nudo vince in bontà e sensibilità e amore su tutte quelle da me conosciute»: continuava così la lettera di mamma Giulia alla nuora Matilde. Sironi infatti è mosso da una sensibilità drammatica che lo porta come scrive Pontiggia a provare «una compassione schopenaueriana per ogni forma di vita». Nella prima sala l’artista si presenta con una sequenza di autoritratti tutti realizzati a cavallo di secolo: è il volto di un uomo trafitto, assediato fin da quegli anni dalla depressione. Eppure non c’è psicologismo in questo suo guardarsi; si avverte l’oggettività di un dolore che segna e incide i lineamenti, e che lascia lo sguardo sempre sull’orlo dell’ombra. Sono autoritratti di un uomo che non si chiude e non scappa via da se stesso.

Non scappa dal destino che lo chiama a misurarsi con una vocazione alla “grandiosità”, pur su dimensioni da cavalletto e su soggetti che non hanno nessuna ambizione pubblica. È quello che accade con il bellissimo “Ritratto del fratello Ettore” realizzato intorno al 1910. Il ragazzo, di ben 13 anni più giovane di Mario, ci appare in tutto il suo struggimento adolescenziale, quasi incollato alla sua ombra, troppo vasta per non comunicare un senso di inquietudine. Eppure Ettore occupa lo spazio con una solidità cézanniana; le mani sono quasi scolpite con la pittura. La realtà è il parametro a cui Sironi resta sempre fedele. 

Anche quando il futurismo lo coopta, il suo accento resta di una concretezza inconfondibile: in una piccola, stupenda tempera su carta, “Studio per Volumi plastici”, il dinamismo anziché dissolvere i volumi nello spazio finisce con il monumentalizzarli, pur dentro quelle minime dimensioni.  La pressione della realtà non cala d’intensità neanche quando il soggetto in teoria lo lascerebbe più libero di svariare, come nel caso delle nature morte. «Dovremo dunque in eterno continuare a dipingere nature morte?… Da questa impotenza immaginativa della pittura contemporanea bisognerà pure uscire», si chiedeva Sironi nel 1930. Uscire per lui poteva significare darsi alla grande arte pubblica, come avrebbe fatto per tutto quel decennio. Ma uscire poteva anche voler dire sottrarre il genere della natura morta da ogni zona franca, farne terreno di un dramma, come accade nella spettacolare tela con brocca e frutta di proprietà dell’Archivio Mario Sironi (1926). Il tono fuliggine, i volumi stipati nello spazio, la luce che si impasta con la materia, testimoniano di una pittura sempre sotto pressione, chiamata comunque a fare i conti con il dolore e le sconfitte della storia. 

A proposito di sconfitta, in mostra c’è una tela di collezione privata, che dietro il titolo asettico di “Uomo e muro” (1938/39) svela un’immagine di uno scoramento epocale: l’uomo è un guerriero sfiancato, demolito in tutte le sue certezze, dipinto di calce come il muro a cui s’appoggia. Sironi si addentra in un teatro da capolinea della storia, dove il presente si annuncia come muta archeologia. Sono preavvisi di apocalissi che troviamo disseminati lungo il percorso, nelle forme più varie, come in quei cieli dove i blu si fanno largo battagliando ma sembrano sempre sul punto di venire inghiottiti dalle tenebre. Nel meraviglioso “Paesaggio (Case e albero)” del 1929, un quadro che da 60 anni non veniva esposto, la pittura sembra invece bruciare, come spazzata da un vento ardente. È un capolavoro struggente, innamorato e inquieto, attraversato da un’istante di bellezza fuggitiva. 

Dopo la parentesi dell’arte pubblica degli anni 30, dove Sironi si mostra comunque impermeabile ad ogni dimensione di trionfalismo e dove cerca di costruire una faticosa mitologia civica, il discorso al cavalletto riprende come se non fosse mai stato interrotto. È una continuità nel segno di quel sentimento doloroso del mondo, da cui Sironi non si sottrae mai, come un nuovo Giobbe della pittura. Cambiano gli scenari, entrano in campo le città con le loro architetture scabre e la solitudine dei tram che si arrampicano per le strade anonime del neocapitalismo. Ma lo sguardo di Sironi non cede mai al moralismo. Semmai si può scorgere anche un sentimento di simpatia per quegli ammassi cubici di case chiamate a resistere sotto cieli di carbone. Il quadro che chiude la storia dell’artista e chiude anche la mostra implicitamente lo conferma. Il titolo, quasi tautologico, lo aveva scritto lo stesso Sironi sul retro della tela: “L’ultimo quadro” (1961). In uno scenario urbano scheggiato insolitamente di colori si muovono dei personaggi fuori proporzione. Sembrano tutti in uscita… L’anno prima aveva dipinto anche il proprio funerale, una piccola tela dove il corteo sfila, schiacciato da una parete con istoriate figure monumentali. Un’exit strategy a sorpresa, con una punta di struggente ironia. 

Pubblicata su Alias, domenica 4 settembre

Written by gfrangi

Settembre 18th, 2021 at 8:04 am

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Le Corbusier e il “Je vous salue Marie”

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Tornato dopo tanti, tanti anni a Nôtre Dame de Haut, mi sono ritrovato davanti alla stessa sensazione di un’inesplicabilità di questo capolavoro. Come da una mente chiara, capace di riportare tutto alla verificabilità di una misura, poteva essere scaturita un’idea architettonica che sembra più l’esito di un lasciare andare la mano?

Per dirla in parole diverse, qui lo spirito (sempre luminoso) di calcolo sembra lasciar spazio ad una grazia. Si è sempre detto che Le Corbu è stato conquistato dalla posizione destinata alla cappella («Il paesaggio, i quattro orizzonti. Autentico fenomeno di acustica visuale. Questi paesaggi dei quattro orizzonti sono una presenza. Sono degli invitati»»): la forma della cappella, determinata dalla memoria di un altro elemento naturale («Un guscio di granchio raccolto a Long Island nel 1946: diventerà il tetto della cappella»), conferma questa tensione ad un’armonia con il paesaggio.

Mi sembra però ci sia un altro fattore che Le Corbu tiene sotto traccia, anche se alla fine emerge in tanti dettagli, pieni di pudore. È il fattore mariano. Si sa dell’intitolazione della Cappella, che sposa devozione mariana e topografia (“de haut”). Le Corbusier sembra lasciarsi prendere per mano: è lui a scrivere di suo pugno le litanie sulle vetrate («dicono le lodi della Vergine»); è lui a prendersi cura della statua posizionata tra due vetri dietro l’altare, su una base girevole in modo da poter essere centrale anche in occasione delle funzioni tenute all’esterno. Sulla porta maggiore sono impresse le immagini crete da lui che fanno riferimento all’Annunciazione (lato esterno) e all’Assunzione (lato interno). In un libretto trovato nel piccolo bookshop, che raccoglie disegni e appunti diaristici di Le Corbu, c’è la riproduzione dell’Ave Maria trascritta a mano dall’architetto; «pleine de grâce» è ribadito a caratteri cubitali nella pagina a fianco e la grafia riflette una grazia percepita.

Il suono stesso del nome di “Marie” sembra ispirare le soluzioni architettoniche. Questo spiega la dimensione di intimità che la cappella trasmette, pur nelle sue prospettive audaci. «È un’intimità che deve irradiarsi su ogni cosa», scrive Le Corbu. E che si irradia anche su ogni persona. Mi viene da supporre che all’origine dell’idea della Cappella ci sia una commozione “mariana”, che conferisce quella dimensione di mantello aperto sotto il quale chiunque trova rifugio (del resto il mantello dell’iconografia della Madonna della Misericordia non è figlio di un pensiero architettonico?)

Written by gfrangi

Agosto 24th, 2021 at 2:11 pm

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Lo sguardo libertario di Mario Diacono

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La libera repubblica di Diaconia dobbiamo immaginarla come un territorio vasto, senza confini definiti e senza lingue precostituite. Più che un luogo è una situazione, nella quale le esperienze si susseguono senza aver mai la possibilità di cristallizzarsi. I traslochi non si contano, le gallerie esauriscono la loro mission nell’arco di pochi mesi, le riviste nascono con spunti geniali e durano una manciata di numeri; anche le cattedre universitarie sono concepite come missioni temporanee.

Impossibile fossilizzarsi mentalmente nella libera repubblica di Diaconia, che non a caso ha un abitante unico e difficilmente imitabile: Mario Diacono, classe 1930, in questo momento di casa a Brookline, Massachusetts. L’occasione di incontrarlo via whatsapp è la mostra che il Macro di Roma gli ha dedicato e che naturalmente si intitola “Diaconia”, con l’aggiunta dei termini “tra scrittura ed arte”: una mostra che è una rappresentazione fedele di un’avventura intellettuale che si è concessa pochi punti fermi: una costellazione di ephemera, riviste, libri, fotografie e opere dedicate a Diacono dagli artisti con cui ha collaborato. «Questa mostra», ci racconta, «è la rappresentazione visiva di una lunga intervista che Luca Lo Pinto, oggi direttore del Macro, mi aveva fatto nel 2013 per la rivista online Doppiozero»,

Se il catalogo delle esperienze vissute è davvero infinito, le parole di Diacono sono sempre parche, calibrate, prive di ogni accento retorico. Con i suoi lunghi capelli bianchi da irriducibile libertario, colpisce per la precisione di ogni ricordo, per l’insistenza sulle date (e sono tante!) come fattore imprescindibile per la corretta narrazione del suo percorso. Il primo di questi ricordi è inevitabilmente quello che riguarda Giuseppe Ungaretti, suo professore all’università con il quale si era laureato con una tesi su “Lacerba”, la rivista dei futuristi fiorentini (di Ungaretti Diacono è stato anche segretario per tre anni e ha curato la raccolta di testi critici, “Vita di un uomo”). «È stata un’esperienza importante per me, perché ho potuto esplorare una rivista dove letteratura e arti figurative vivevano su uno stesso terreno. È stata un’intuizione del futurismo, con la quale mi sono sentito in sintonia e che poi ho sempre cercato di portare avanti. Anche se per me il linguaggio letterario e quello figurativo restavano due linguaggi separati».

“Scrittura ed arte”, come indicato dal titolo della mostra romana, sono i due poli tra i quali Diacono si è sempre mosso. Scrittura è una forma di espressione che, a partire dal 1968, sconfina nella forma artistica, quasi per mettersi al riparo dalla devastazione omologante provocata dall’egemonia della cultura consumistica: quella cultura che “Il carro”, piccola opera, amara e ironica del 1972, si prepara a buttare in una discarica. Sul cassone del camioncino giocattolo sono infatti stampigliati spezzoni di parole svuotate di senso e di realtà (sono gli anni in cui Pasolini dalle colonne del Corriere lanciava le sue condanne contro l’appiattimento linguistico operato dalla televisione).

«In quella fase è stato importante per me il riferimento al surrealismo e ad André Breton con il suo “Poem object”», racconta Diacono. «Breton in realtà aggiungeva un testo poetico all’oggetto. Io ho fatto una scelta più radicale con gli “ObjTexts”, dove la parola quasi scompare e i miei testi diventano tridimensionali: è un’espansione del linguaggio nella visualità. Percepivo che il linguaggio poetico che ci era stato tramandato non reggeva più. Mi trovavo davanti ad una frammentazione che non era più ricomponibile in un testo». È il momento in cui Diacono dà vita ad una serie di collaborazioni con figure che come lui si interessavano di questioni teoriche e poetiche, compagni di strada con i quali sviluppava progetti editoriali indipendenti e clandestini, lontani dalla distribuzione ufficiale. Con Emilio Villa dà vita a Ex, con Stelio Maria Martini crea Quaderno, con Ugo Carrega produce aaa, e collabora con Martini e Luciano Caruso al progetto Continuum

«Emilio Villa e Jannis Kounellis sono stati per me i riferimenti paralleli che indicavano un nuovo inizio rispettivamente nella letteratura e nella pittura. La cultura da cui venivamo aveva raggiunto un livello di sfinimento, era incapace di generare un’intensità espressiva. Avvertivo la necessità di un linguaggio nuovo e Villa e Kounellis condividevano questa mia urgenza. Per trovare risposte Villa aveva anche cominciato a studiare le civiltà precristiane in cerca di nuovi archetipi. Io invece mi dirottai sulle arti tribali, con due viaggi per me fondamentali  nel 1962 in Africa Occidentale e nel 1968 tra le comunità Navajo e Hopi del New Mexico e dell’Arizona».

Mario Diacono cone Emilio Villa, 1971

Se il linguaggio scritto per Diacono era esausto, non di meno si poteva dire per il linguaggio della pittura. Eppure negli anni 80 Diacono si trova in prima linea nel proporre un gruppo di artisti che tornavano perentoriamente a dipingere. «Erano quelli di una nuova generazione che poi si raccolsero sotto l’etichetta della Transavanguardia. Mi interessarono subito perché capii che alla radice della loro pittura non c’era più una figurazione preoccupata di rappresentare la realtà, ma era una pittura che nasceva proprio dall’insorgenza degli archetipi, che diventano i soggetti dei loro lavori. Esposi Chia e Cucchi nel 1979 nella galleria che allora avevo a Bologna: in quel momento consideravo la loro pittura un atto di avanguardia. Poi la spinta di quel gruppo di artisti neoespressionisti si è esaurita alla fine degli anni ‘80».

È difficile tenere sotto controllo la curiosità nel dialogare con Diacono. Così gli chiediamo di alcuni personaggi che hanno segnato la sua avventura artistica. Inevitabile partire da Vito Acconci, al quale Diacono ha dedicato un libro nel 1975: «L’ho conosciuto quando insegnavo a Berkeley nel 1969. Mi interessava perché veniva dalla poesia e transitando nella performance aveva fatto un “by pass” che giudicavo molto interessante. Per me la parola aveva finito con l’intrecciarsi con l’oggetto, lui aveva invece trovato una simile oggettività facendo del corpo un linguaggio». Altra relazione importante è stata quella con Claudio Parmiggiani: «L’ho conosciuto a Roma nel 1967. Mi ha interessato subito perché il suo lavoro non seguiva mai strade prestabilite. Poi ci siamo trovati in sintonia nella comune attenzione per i linguaggi dell’ermetismo, come forma per esprimere la dimensione della trascendenza. Abbiamo fatto anche una rivista insieme TAU/MA di cui sono usciti sette numeri». 

Con Basquiat è stata l’intuizione di un istante: «Ero rimasto impressionato da un suo quadro visto a Documenta nel 1982. Per una serie di coincidenze esposi una sua grande tela di 4 metri nella galleria che avevo allora a Roma e scrissi un testo che nelle bibliografie compare come il primo catalogo su di lui». Intatta è la stima per Cy Twombly: «L’ho conosciuto alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martis. È il primo artista nel quale mi sono davvero identificato, perché avevo percepito che con lui cambiava il clima dell’arte a Roma. Anche lui si era mosso partendo da un archetipo, il linguaggio classico, che nella sua pittura non aveva nulla di archeologico ma assumeva una forte carica psichica, andando al di là della pittura astratta». Tra le relazioni speciali di Diacono c’è anche un artista che non ti aspetti, Alex Katz, figlio dell’onda lunga della Pop Art: «L’ho conosciuto a Roma a casa di Donna Moylan, un’artista che mi ha fatto un ritratto esposto alla mostra al Macro. Ho colto nella sua pittura un’originalità e una freschezza e mi è sembrato semplicistico catalogarlo semplicemente come artista figurativo. C’era un elemento ieratico che lo distingueva dalla pop art e dai suoi epigoni: aveva un rigore formale che lo avvicinava al minimalismo. Gli organizzai una mostra nella galleria di Boston nel 1985, con l’obiettivo di metterlo in dialogo con una generazione di artisti successivi alla sua».

Per chiudere la conversazione inevitabile chiedere a Diacono un suo giudizio sulla situazione attuale. «Vedo una tale frammentazione del discorso artistico, che rende impossibile costruire un discorso univoco, o cogliere una direzione. Ultimamente abbiamo assistito ad un recupero degli artisti afroamericani, ma è più nella chiave di un risarcimento. Può essere che questa sia una premessa perché in un prossimo futuro si assista a qualcosa di diverso, che le varie culture si assorbano l’un l’altra e venga fuori qualcosa di nuovo». E degli NFT che ci dice? «Non mi faccia parlare. Li ho ribattezzati “No Fucking Tokens”, nel senso di “I don’t want Fucking Tokens”: è solo nuovo ciarpame propinatoci dal capitalismo».

(articolo pubblicato su Domani, 15 agosto 2021)

Con Achille Maramotti a Documenta 1987

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2021 at 7:54 am