Robe da chiodi

Un tour nel Grand Tour

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Vi siete mai chiesti perché in ogni città italiana nell’offerta alberghiera compaia sempre un hotel Bristol? Quali titoli ha questa cittadina del sud est dell’Inghilterra per meritarsi una simile nomea? Il merito in realtà è tutto di un suo cittadino, Frederick Augustus Hervey, IV duca di Bristol oltre che vescovo anglicano di Derry. Era un viaggiatore instancabile, uomo curioso, colto, un insaziabile collezionista, protagonista tipo di quel fenomeno che oggi è conosciuto come Grand Tour, cioè quella «comunità di tourists che nel secolo dei Lumi ha rappresentato la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto», per dirla con le parole di uno dei massimi conoscitori di questa epopea culturale, Cesare De Seta.

Giovan Battista Piranesi, Rython

Il Grand Tour è stato uno straordinario percorso di formazione che ha visto l’Italia, le sue ricchezze artistiche, il suo paesaggio ma anche la sua antropologia, come materia di studio per aristocratici, per artisti, scrittori, musicisti, scienziati. Durante quel lungo periodo di pace che va dal Trattato di Aquisgrana (1748) fino alla prima campagna napoleonica in Italia (1796) migliaia di personaggi di primo piano arrivarono nel nostro paese, concependo il viaggio come una straordinaria occasione di arricchimento personale ma anche come un titolo indispensabile per una progressione nella propria carriera. Si veniva in Italia per imparare, per ampliare i propri orizzonti, per plasmare il gusto, per tessere relazioni intellettuali e non solo. Quando si tornava al proprio paese, si riportava un bottino di conoscenze, di “souvenir” in forma di quadri o di stampe, ai quali spesso si aggiungevano reperti da collezionismo: un materiale affascinante e vasto che ora è al centro della mostra alle Gallerie d’Italia, curata da Fernando Mazzocca con Stefano Grandesso e Francesco Leone. Come ricorda Mazzocca nell’introduzione al catalogo, al Grand Tour era stata dedicata una grande mostra, con ben 265 opere, alla Tate Gallery di Londra nel 1996, poi esportata al Palazzo delle Esposizioni di Roma. In questa occasione si è voluto piuttosto spostare l’attenzione dai viaggiatori «agli artisti e a quei protagonisti che, come Winckelmann, Goethe, Madame de Staël, hanno dato corpo con le loro creazioni al grande sogno dell’Italia, consegnando la sua visione all’immaginario collettivo». 

La mostra racconta l’altra faccia del Grand Tour: quella delle fucine, dei circoli, dei personaggi, artisti soprattutto, che con la loro intraprendenza, perizia e autorevolezza diventavano punti di riferimento indispensabili per i viaggiatori.  Johann Joachim Winckelmann è certamente uno di questi. Tedesco, era arrivato a Roma nel 1755 al seguito del cardinal Archinto, nunzio in Polonia. I suoi studi in archeologia lo avevano portato a entrare in contatto con un altro cardinale, Alessandro Albani, la cui villa, fuori Porta Salaria, era un vero “museo parlante”, per la ricchezza di sculture antiche: Winckelmann divenne il bibliotecario di casa Albani. Nel 1764 aveva pubblicato la sua Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità): un testo nel quale convergevano tutte le nuove conoscenze di carattere filologico, ma insieme si imponeva un nuovo approccio per «guardare i capolavori antichi secondo una concezione estetica che coinvolge la morale e il sentimento». Insomma si era imposto come un autentico influencer in grado non solo di orientare nella conoscenza dell’arte antica ma soprattutto di plasmare il gusto di quegli ambiziosi turisti. 

Per rispondere alla domanda che veniva dai viaggiatori del Grand Tour, tanti artisti si mostrano molto abili nell’innovare la loro offerta, con soluzioni anche altamente sofisticate. È il caso di Giovanni Battista Piranesi, un veneziano emigrato a Roma, che era ricercatissimo per le sue straordinarie acqueforti con le vedute della città eterna. Erano immagini che destabilizzavano l’equilibrio del vedutismo settecentesco innescando una percezione drammatica e suggestiva dell’antichità classica. Goethe stesso sembra restarne influenzato come testimoniano le pagine con il suo addio a Roma: «Dopo aver disceso, forse per l’ultima volta, la lunga via del corso, salii al Campidoglio, che si ergeva come un palazzo fatato nel deserto. La statua di Marco Aurelio mi fece pensare al Commendatore del Don Giovanni…». Ma Piranesi in mostra è presente con un altro tipo di lavori, decisamente sorprendenti. Sono le sculture frutto di libere ricombinazioni di frammenti antichi con elementi moderni. Geniali pastiche, reinvenzioni fantastiche sul corpo di quegli spezzoni di antichità. Per realizzare questi suoi ibridi, raccontava un testimone oculare, Piranesi aveva fatto una raccolta così grande di marmi, «che oltre avere riempito tutta la sua casa ha preso moltissime botteghe nella sua strada che sono anche piene, e per tutto si lavora e tiene da trenta persone il giorno a lavorare li suoi marmi».  Insomma una vera factory nel cuore di Roma. Nello suo studio di Palazzo Tomati si mettevano in fila in particolare i viaggiatori inglesi, che stipavano le navi sulla via del ritorno di oggetti da collezionismo, come l’incredibile Rython, esposto per la prima volta in questa occasione, con becco a testa di cinghiale, un vaso dalla simbologia fallica della virilità maschile che Piranesi aveva costruito attorno ad un reperto archeologico che costituisce la parte più alta del manufatto.

Giovanni Paolo Panini è un altro mattatore del Grand Tour, ricercatissimo dai viaggiatori che volevano riportarsi a casa quelle sue grandi vedute capaci di tenere insieme il fascino della Roma antica e delle sue rovine con la Roma grandiosa reinventata da Bernini. Panini era piacentino ed era arrivato nella città pontificia nel 1711. Scrive Mazzocca nell’introduzione che il suo segreto consisteva nel saper «ambientare in questi luoghi, come se fossero il palcoscenico di un teatro all’aperto». Un palcoscenico sul quale vediamo affacciarsi a volte anche gli stessi protagonisti del Grand Tour, come nel caso delle due grandi tele in mostra, che documentano le giornate romane di Carlo di Borbone, nel 1744: prima la visita alla Basilica di San Pietro con arrivo a cavallo e grande assembramento di gentiluomini e di curiosi, poi il ricevimento da papa Benedetto XIV Lambertini nella coffee house del Palazzo del Quirinale. Sul mercato del Grand Tour Panini aveva sbancato in particolare con l’invenzione dei suoi capricci, vedute non reali ma ideate delle quali era diventato maestro indiscusso. Come spiega Ilaria Sgarbozza nella scheda in catalogo della grande “Veduta” in mostra, «pescando da un repertorio pressoché inesauribile, con straordinaria facilità di rimodulazione, Panini inventa ogni volta una nuova immagine dell’Urbe». In questo caso l’artista aggiunge eccezionalmente ai monumenti aggregati nel paesaggio, delle didascalie, trasformando il quadro in una sorta di baedecker, ad uso di chi avrebbe ammirato il quadro nella country house di quel facoltoso viaggiatore, di cui si è perso il nome, che l’aveva commissionato.

Se uno dei grand tourists voleva portarsi a casa una istantanea molto speciale a sigillo del viaggio, poteva rivolgersi a Pompeo Batoni. Entrare nella sala centrale della mostra è come sfogliare un principesco album di questi signori in gran parte inglesi, immersi nelle meraviglie da cui erano stati conquistati. Sono ritratti e sono insieme degli status symbol, dall’impianto necessariamente classicistico che però, grazie all’abilità di Batoni, si sposa con la freschezza di un inedito naturalismo. Almeno 200 viaggiatori si avvalsero del servizio garantito da Batoni, abile nel venire incontro a tutte le possibilità economiche dei suoi committenti: dal ritratto a mezza figura si passava a quello a figura intera e a grandezza naturale, all’aperto oppure all’ombra di architetture sontuose. Per agganciare i suoi committenti Batoni si era fatto anche promotore di serate musicali in casa sua, con il coro delle otto figlie, tutte nubili…

Si può davvero dire che nell’Italia del Grand Tour, e non solo a Roma, si affermi la figura dell’artista imprenditore di se stesso, senza nessuna chiusura a chi arrivava da fuori. Ci si concepiva a 360 gradi, intercettando il gusto e i desiderata del mercato, superando quindi anche il meccanismo della committenza. Il caso del pittore francese Pierre-Jacques Volaire è emblematico. Arrivato in Italia nel 1764, si era trasferito definitivamente a Napoli nel 1769, sull’onda dei tanti viaggiatori attratti dalla città e in particolare dal Vesuvio. In quegli anni il vulcano era in attività, con una media di un’eruzione di ogni due anni, ed esercitava quindi un’attrazione fatale per chiunque arrivasse in Italia. Volaire si era specializzato in quadri che rappresentavano il Vesuvio in attività, in particolare con il valore aggiunto degli effetti suggestivi del chiaro di luna. Il suo studio era diventato meta obbligata: si poteva scegliere tra le tele già dipinte, o anche commissionarne una ex novo. Oppure l’artista offriva l’opzione di inserire le figurine in una tela già dipinta, in modo che il viaggiatore potesse riconoscersi. I quadri erano concepiti insomma come delle macchine pittoriche, pronte a venire incontro a tutte le esigenze dei clienti. In mostra è esposta la tela più grande che Volaire avesse dipinto, con l’eruzione vista dall’Atrio del Cavallo, la zona in cui si recavano i viaggiatori che intendevano salire a piedi sul vulcano per osservare un’eruzione da vicino. Un luogo che Volaire conosceva bene in quanto si prestava anche a far da cicerone ai suoi clienti, guidandoli sul vulcano. Le informazioni in materia non gli mancavano grazie alla presenza a Napoli di un padre della moderna vulcanologia, sir William Hamilton, ambasciatore inglese pere la corte di Napoli, altra figura chiave del Grand Tour, animatore di un affollatissimo salotto culturale e grande collezionista di vasi antichi.

Qualche viaggiatore lamentava il parassitismo in cui venivano abbandonate le rovine di Roma, perché nel Colosseo c’erano i letamai e le Terme di Caracalla erano state adattate a fienili. Eppure l’Italia si presentava come un paese con aspetti di modernità, grazie ad esempio ai primi musei aperti al pubblico, con le loro straordinarie collezioni di antichità: la fondazione dei Musei Capitolini risale al 1734, nel 1771 in Vaticano era stata la volta del Museo Pio Clementino. L’Italia conquistava i grand tourists anche grazie alla sua gente. Una delle sale più sorprendenti della mostra è proprio quella dedicata alla rappresentazione del popolo romano. Bartolomeo Pinelli è l’artista che era riuscito a diffondere presso l’intero pubblico europeo e poi americano questo nuovo mito con le sue incisioni. Ma furono in particolare alcuni pittori francesi (tra i quali anche il grande Théodore Géricault) a restare conquistati dal fascino di un’identità antropologica, che univa bellezza ideale e spontaneità umana. «Si assiste a una rivoluzione nella pittura di genere», scrive Mazzocca nell’introduzione, «dove gli umili sono ora rappresentati con la dignità e la fierezza che colpivano i viaggiatori». Sono le caratteristiche grazie alle quali una semplice ragazza, figlia di un vignaiuolo di Albano, Vittoria Caldoni conquistò l’attenzione di ben 50 artisti di ogni nazionalità e corrente artistica, che si cimentarono nel farne un ritratto: in mostra è esposto un busto della ragazza realizzato da Pietro Tenerani. La freddezza del marmo e lo schema un po’ ieratico si piegano ad accogliere alla pienezza fisica delle guance, del mento e in particolare delle bellissime labbra di Vittoria. 

Il caso di Vittoria Caldoni con tutti i suoi risvolti è la sintesi di una stagione felice nella quale l’Itala era stata attrattiva per la bellezza del suo passato ma anche per la vitalità del suo presente. Alla fine del percorso viene da chiedersi se lo spirito del Grand Tour si sia davvero estinto o non sia rimasto nell’aria, al di là dei tanti hotel Bristol disseminati nelle nostre città. E se, ad esempio, quello spirito non sia da rintracciare nelle parabole di protagonisti del 900 come Balthus, Cy Twombly o lo stesso Picasso, con quel decisivo e liberatorio viaggio del 1917. In quegli stessi anni Henri Matisse usava in modo esclusivo una modella ciociara, Loreta Aprutino, da lui ribattezzata Laurette, i cui tratti sono ben riconoscibili in una cinquantina di opere del maestro francese. Loreta come Vittoria: se una mostra riesce ad innescare ipotesi che vanno al di là del suo perimetro, vuole dire che davvero funziona. 

Una nota finale: un elogio a curatori e editori (Galleria d’Italia-Skira) per il catalogo dotato di schede delle opere molto complete, come purtroppo oggi raramente accade. Sono strumenti preziosi per ricostruire la storia delle opere e seguire il Grand Tour nella concretezza di mille dettagli.

Pubblicato su Domani, domenica 12 gennaio 2020

Josef Settegast, Vittoria Caldoni

Written by gfrangi

Febbraio 28th, 2022 at 7:23 pm

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