Nell’ossimoro del suo nome c’è tutto il destino e tutto il fascino di Letizia Battaglia. Nella vita è stata una magnifica combattente, ma affamata di bellezza e di felicità. «Le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza», diceva di sé e del proprio lavoro. Letizia Battaglia se n’è andata a 87 anni, e il vuoto che lascia è un vuoto davvero grande, e non solo per il mondo della fotografia. Definirla fotografa infatti è paradossalmente riduttivo, perché la fotografia era per lei un mezzo, mai un fine.
«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente», aveva dichiarato nella magnifica monografia-confessione scritta da Giovanna Calvenzi e pubblicata nel 2010 per Bruno Mondadori. In realtà Battaglia è stata una grande fotografa, capace di fissare con le sue immagini una stagione drammatica e la vita di un’intera città. Aveva iniziato un po’ per caso, quando già aveva alle spalle un matrimonio che l’aveva delusa e tre figlie. Per questo aveva lasciato Palermo per Milano, alla ricerca di un modo per ricominciare. La macchina fotografica è stato lo strumento che l’aveva rimessa in movimento. Nel 1974 era tornata a Palermo, per avviare insieme a Franco Zecchin, l’agenzia Informazione fotografica, lavorando per l’Ora, quel piccolo quotidiano, coraggioso come lei, in prima linea nella lotta alla mafia. È per l’Ora che Battaglia ha documentato una stagione sanguinosa di Palermo. Tra le tante fotografie di quegli anni, una parla di lei più di tutte le altre: è quella scattata il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lei era per caso nei paraggi con Zecchin e la figlia. Corse dove c’era il capannello delle persone, si affacciò al finestrino dell’auto: davanti a lei Sergio, l’attuale presidente della Repubblica, reggeva il corpo del fratello ucciso. Scattò la foto in un secondo, “à la sauvette”, come insegnava Cartier Bresson, “in fretta e furia”. «In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare», aveva confessato anni dopo in un’intervista rilasciata ad Angela Mainitiù per Il Manifesto. E poi in poche righe aveva stupendamente sintetizzato il suo modo “morale” di porsi in queste situazioni: «Che cos’è il supporto di un fotografo? È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto».
Sono fotografie che Letizia Battaglia si è portata sempre dietro come delle ferite. Aveva anche ipotizzato di distruggerle, poi se le era appese in casa per cercare di metabolizzarle, infine le aveva rifotografate sovrapponendo immagini di donne e di vita. È una relazione con il proprio lavoro che evidenzia la sua libertà. «Sono persona, non fotografa», ripeteva. Come persona non le interessava la bellezza delle immagini, ma la bellezza della vita. Per questo non risparmiava frecciate a grandi autori secondo lei a rischio di estetismo, come Mapplethorpe o Salgado. Diane Airbus e soprattutto Koudelka erano invece i suoi riferimenti, o maestri “involontari”. Con il grande fotografo boemo aveva fatto tanti viaggi, sempre in camper, dalla Turchia fino al Nord Europa. Soprattutto Koudelka, come pure Ferdinando Scianna, era diventato una presenza famigliare all’Agenzia Informazione Fotografica, poi diventato Laboratorio IF, perché Battaglia e Zecchin ne avevano voluto fare una vera e propria scuola, un’esperienza che fosse didattica ma che spingesse ad andare sempre in prima linea. Con la stessa generosità e passione nel 2017 si era buttata nell’avventura del Centro internazionale della fotografia al Cantiere della Zisa a Palermo, un progetto tanto ambizioso quanto faticoso, un sogno come tanti suoi sogni marcati da ferite (“Sulle ferite dei suoi sogni” è non a caso il titolo del libro con Giovanna Calvenzi). Letizia Battaglia lascia un grande vuoto perché ci mancherà quel suo impeto d’amore verso la vita, che l’ha fatta essere pienamente donna, amica di tanti, attivista, mamma e persino bisnonna, come orgogliosamente sottolineava. E naturalmente l’ha fatta essere anche grande fotografa. A questo proposito, se interpellata rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, avrebbe ribadito di non essere capace di fotografare la guerra, «perché per me è indispensabile l’amore».
Pubblicato su Il Manifesto, 14 aprile 2022