Dal battello a vapore partito da Marsiglia e approdato ad Ajaccio la mattina del 5 febbraio 1898 erano state scaricate due casse piene di tele, di dimensioni piccole (18x22cm) e medie (36×48 cm). Facevano parte dei bagagli di Henri Matisse e di sua moglie Amélie Parayre. La coppia era in viaggio di nozze, ma quel carico evidentemente suggeriva anche altri programmi. Il viaggio era stato terribile per le condizioni del mare; il tempo all’arrivo pessimo, con pioggia, vento e grandine.
L’impressione di quelle prime ore venne presto cancellata dalle sensazioni dei giorni successivi. Il 28 febbraio Matisse scriveva all’amico Henri Salvetti, un amico còrso di stanza a Parigi, di sentirsi in «un paese meraviglioso dove voglio restare probabilmente molto tempo (non oso dirlo, 2 anni)». E poi spazio all’elenco delle meraviglie: «Mandorli in fiore in mezzo ad ulivi argentati e il mare blu, talmente blu che lo si mangerebbe. Gli alberi di arancio verde scuro con i frutti che sono come gioielli incastonati, grandi eucalipti con le foglie variegate come piume di gallo… e alle spalle montagne con le cime innevate». Matisse è completamente infatuato da questo suo primo incontro con il Sud e il Mediterraneo. Si mette al lavoro con un’intensità mai sperimentata. «Da un quadro all’altro spuntano delle risposte inattese, differenti, alcune saranno riprese e approfondite, altre abbandonate». Non si è solamente lasciato alle spalle il buio del Nord. Ad Ajaccio Matisse, non ancora trentenne, sperimenta la libertà di non dover rispondere a nessuno, neanche a quel maestro pur molto tollerante che era stato Gustave Moreau all’École des Beaux-Arts.
Matisse sarebbe rimasto in Corsica fino a luglio, con la breve parentesi di un viaggio a Parigi all’inizio di giugno. In quei mesi aveva dipinto oltre 50 tele, quelle che si era portato con sé alle quali se ne erano aggiunte alcune, più grandi, comperate in loco. Una parte molto rappresentativa di quella produzione nei mesi scorsi era confluita in una bella mostra organizzata ad Ajaccio (“Matisse en Corse. Un pays merveilleux”), curata tra gli altri da Jacques Poncin, architetto e presidente della locale Associazione amici di Matisse. Poncin nel 2017 aveva pubblicato un libro (“Matisse à Ajaccio”, Éditions Alain Piazzola), dove per la prima volta si metteva a fuoco l’importanza “fondativa” per l’artista di Cateau-Cambrésis di quei mesi trascorsi in Corsica. Della mostra resta un bel catalogo, con una serie di saggi che in modo compatto e corale approfondiscono i mesi trascorsi dall’artista nell’isola, e soprattutto con una galleria di riproduzioni di opere, di impressionante energia.
Le parole con cui Matisse descrive questa sua folgorazione per la Corsica, la sua luce e i suoi colori, trovano un loro corrispettivo nell’accelerazione che la sua pittura registra in parallelo. È un vero big bang: Matisse rompe gli indugi, abbandona ogni timidezza e ogni riverenza verso i riferimenti autorevoli del presente o del passato. La distanza lo agevola, ma lui vive l’avventura còrsa con la consapevolezza di una verifica radicale rispetto alla propria vocazione di pittore. «Avevo deciso di darmi la scadenza di un anno, durante il quale volevo, senza ostacoli di mezzo, dipingere come io intendevo… è allora che ho sentito crescere in me la passione per il colore. Non lavoravo che per me. Ero salvo», avrebbe confidato nel 1925 all’amico Jacques Guenne. L’intensità dei colori della Corsica invade le piccole tele. La pittura si libera dai contorni e da ogni preoccupazione narrativa, si fa drasticamente semplice. I primi lavori sono ancora figurative, poi con il passare delle settimane, le preoccupazioni compositive si allentano. In una delle ultime opere, “Toit de l’Hôpital d’Ajaccio”, restano poche magnifiche campiture orizzontali, di un’essenzialità e di uno splendore che sembra preannunciare De Staël. Le soluzioni cromatiche hanno l’audacia proprio dello sguardo del neofita, che non conosce regole ma sgrana gli occhi davanti all’abbagliante apparizione del mondo. Gli ulivi lo conquistano con la loro forma bassa e compatta: ne “L’arbre”, piccolo olio su cartone dipinto d’impeto, la materia si fa splendente e aggressiva, mandando in dissolvenza le forme. È evidente come Matisse faccia barra, su Cézanne, «notre père a tous», unico riferimento fondamentale in questa fase. Sulla scia del maestro di Aix lavora per liberare e soprattutto organizzare sulla superficie della tela le sensazioni innescate nella relazione con la realtà. Parla «di un enorme lavoro di organizzazione». Come ha scritto Pierre Schneider nel suo importante libro su Matisse del 1984, non sono certo sensazioni calme: «Ad Ajaccio il suo pennello era approdato su toni senza precedenti, per poi arretrare come preoccupato di provocare un incendio impossibile da tenere sotto controllo… è l’incendio che segna il passaggio dalla luce al colore». Sempre secondo Schneider, Matisse concepisce il colore come una forza, non più usata per descrivere una forma o per imitare la natura, in quanto dotata di una sua autonomia ed energia espressiva: simbolo e sintesi di questa sua stagione è la scoperta dell’arancione.
Naturalmente l’eco di questo principio di incendio erano arrivati anche a Parigi. Gustave Moreau era morto il 18 aprile di quell’anno. Matisse aveva mantenuto un rapporto stretto con Henri Marquet e con Henri Evenepoel, suoi compagni d’accademia. È quest’ultimo a esternare tutto il suo sconcerto davanti alle opere dell’amico. Uno sconcerto straordinariamente rivelatore. Il 6 giugno gli scrive, commentando i quadri che aveva potuto vedere: «Mi hai anticipato dicendo che c’era qualcosa di epilettico. Ebbene sì! Trovo che sia così. Tu sei dotato di un occhio straordinario, ma per me stai mettendo in gioco la sua salute». Lo rimprovera perché trova la sua pittura esasperata, come di uno «che digrigna i denti». Al padre Evenepoel parla dell’amico come di un «impressionista epilettico e folle».
In realtà Matisse è non solo determinato ma molto lucido rispetto al passo che sta facendo. Sa di essere debitore all’impressionismo («Sono partito da lì») ma coglie la debolezza di quella pittura. «Sono opere che brulicano di sensazioni contradditorie. La loro è una trepidazione». Anni dopo, facendo un bilancio di questa sua stagione in Corsica nei dialoghi con Jacques Guenne, spiegava di essere arrivato «lentamente a scoprire il segreto della mia arte. Consiste in una meditazione a partire dalla natura, nell’espressione di un sogno sempre ispirato alla realtà. Con più accanimento e regolarità, ho imparato a spingere ogni studio in una direzione certa».