La scelta di ricorrere alle impronte digitali degli artisti per il manifesto e la copertina del catalogo di Corpus Domini, la mostra aperta a Palazzo Reale a Milano, suona come una chiara dichiarazione programmatica: il primo corpo con il quale si deve fare i conti è proprio il corpo dell’artista. Le impronte degli artisti viventi ci sono quasi tutte (Roberto Gober ha mandato un certificato di nascita). Per quelli che invece non ci sono più, hanno messo i loro pollici i componenti del team curatoriale. La sequenza di impronte manda un doppio messaggio. Da una parte ci dice che i corpi non sono astrazione, ma ingombrano e sporcano sempre la storia con la loro scia di fisicità. Dall’altra parte ci avverte che sui corpi oggi incombe l’invasività di un controllo sempre più pianificato.
Nelle sale di Palazzo Reale, dove la mostra concepita da Francesca Alfano Miglietti è stata allestita, i corpi, o ciò che potentemente li evoca, hanno potuto mettere in scena una loro rivincita. Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima è un progetto di lungo corso, cullato dalla curatrice con la complicità di un personaggio unico come Lea Vergine, cioè di colei che già nel 1974 aveva esplorato l’esperienza della Body art. A Lea Vergine è dedicata infatti la prima sala del percorso, con una vetrina dove sono raccolte le sue pubblicazioni che testimoniano un’attenzione quasi militante sul tema del corpo nell’arte. Lea Vergine a Palazzo Reale aveva curato nel 1980 una mostra storica, quella dedicata all’Altra metà dell’avanguardia. È proprio grazie alla progressiva, crescente spinta impressa dalle artiste con la loro sensibilità che nel corso del Novecento il mondo culturale è tornato a fare i conti con l’irruzione dei corpi sulla scena dell’espressione figurativa: l’esperienza di Louise Bourgeois, purtroppo assente in questa mostra, ha rappresentato da questo punto di vista un passaggio capitale a partire dalla fine degli anni Quaranta, con la scelta di mettere al centro del proprio lavoro la sfera delle relazioni intime, dando loro forme poetiche, disinibite e potenti.
«Quella pensata insieme a Lea», scrive Alfano Miglietti nell’introduzione al catalogo pubblicato da Marsilio, «era “La mostra sul corpo nell’arte”, una mostra sul corpo nell’arte del Novecento, un’esposizione che avrebbe somigliato alle ricerche di entrambe, vicine e diverse. Corpus Domini nasce come progetto altro, come necessità di spostamento». Lo spostamento ha portato a orientare il progetto dall’orizzonte della Body Art a quello dell’Iperrealismo e soprattutto a dare spazio alle istanze dettate dal presente, a cominciare dall’emergenza dei corpi migranti. Si tratta di un’emergenza che ha anche delle ricadute concettuali, perché in tanti casi ci troviamo di fronte a corpi cancellati, che si palesano quindi sotto altre specie.
Nel percorso della mostra si può ad esempio intercettare un filone di opere che parlano dei corpi attraverso gli involucri che li hanno ospitati, gli abiti in primis. In una delle prime sale ci si imbatte nella montagna nera di Le Terril Grand-Hornu, una delle ultime opere di Christian Boltanski. Le Grand-Hornu è una regione mineraria del Belgio; troviamo ammucchiati, fino a sfiorare il soffitto della sala, sotto una luce fioca, migliaia di vestiti da lavoro scuri che richiamano quelli indossati per tanti anni, ogni giorno, dai minatori. Abiti densi di corpi che hanno assorbito l’oscurità della terra.
C’è molta densità anche nell’opera di Kimsooja. L’artista coreana è presente con quattro dei suo Bottari, fagotti fatti con lenzuoli colorati che contengono tutto il necessario per esistenze nomadi: sono i lenzuoli in cui si viene avvolti alla nascita e con i quali si viene sepolti nel momento della morte. Curiosamente anche Dayanita Singh espone dei fagotti, questa volta in fotografia: si tratta di tessuti sfumati di rosso che custodiscono plichi di documenti presi da archivi indiani. Time Measures è il titolo dato a queste opere, chiamate ciascuna a nascondere e proteggere i dati di una vita. Il muro di valigie di Fabio Mauri evoca invece abiti che sono stati drasticamente separati dai rispettivi corpi; Il Muro Occidentale o del Pianto è come un deposito bagagli ab aeternum, perché nessuno passerà mai a ritirarli. Sul muro una piccola edera rampicante stende pietosamente i suoi rami. Lo fronteggia un altro muro, costruito con bauli metallici made in Cina, dall’aspetto molto aggressivo e carcerario: al centro uno schermo mostra l’esecuzione capitale di un giovane attivista arrestato nei giorni della rivolta di Piazza Tienanmen.
Nella sala contigua centinaia di scarpe legate da una raggiera di fili di cotone rosso “camminano” in assenza di corpi: Chiharu Shiota, un’artista giapponese che si era fatta notare con un’installazione ugualmente corale all’ultima Biennale, le ha volute tutte spaiate. Sembra un’opera nata da un tacito patto di condivisione a distanza e i fili, con quell’andamento così ordinato e lirico potrebbero simboleggiare l’aspirazione, spesso repressa, a sperimentare percorsi comuni.
L’Iperrealismo è l’altra nota dominante della mostra e introduce il tema dell’assedio che consumismo e tecnologia hanno portato alla realtà fisica dei corpi. L’Iperrealismo taglierà a breve il traguardo di cinquant’anni di storia, essendo uscito allo scoperto a documenta 5 di Kassel nel 1972, ma la sua parabola è tutt’altro che esaurita: in mostra si va dall’opera di John Deandrea del 1971, passando per il classico Douane Hanson e approdare a Marc Sijan e Gavin Turk, tutt’e due con lavori del 2015. Un’energia manipolatoria fa irruzione invece nella scultura di Marc Quinn, interprete di inquietanti scenari del post umano con il suo uomo gravido o con la Venere metropolitana plasmata in cemento e incisa di cicatrici.
Se un appunto si può fare a questo progetto espositivo, è quello di non avere fatto pienamente i conti con il titolo, così potente ed evocativo. Corpus Domini contiene quel genitivo che, oltre a essere fattore cardine per chi crede, è anche un fattore che innesca una quantità di ipotesi di lavoro e di suggestioni, come si può evincere dal bel testo in catalogo del cardinal Gianfranco Ravasi, come pure da quello di Chiara Spangaro. Del resto ci sono opere in mostra che possono anche essere lette in raccordo con quel titolo: lo struggente busto d’uomo di Zharko Basheski, artista macedone, è in fondo un contemporaneo Cristo agonizzante; gli organi umani ricostruiti nella fragilità del vetro e disposti sul tavolo da Chen Zen sono come commoventi reliquie di un corpo sociale che chiede un senso per le proprie sofferenze. E il continuo ritorno dei vestiti come materiali sui quali tanti artisti lavorano, richiama la veste di cui Cristo è spogliato e che viene giocata ai dadi dai suoi aguzzini.
Quel titolo ha infatti un tale contenuto di storia e di memoria che non si può pensare risuoni neutro e non chieda di stabilire dei raccordi. Del resto il “corpo glorioso” evocato nel sottotitolo per indicare una situazione relativa al passato, nella gran parte dei casi era anche un corpo ferito, segnato da altre “rovine”. Basta entrare in Duomo per rendersene conto: come ogni anno in questo periodo, tra le navate sono esposti gli straordinari quadroni con storie e miracoli di San Carlo, iperbolica rappresentazione di una fisicità assediata da un’altra dolorosissima pandemia di oltre quattro secoli fa. Attraversare la piazza e andare a vederli è un utile completamento all’esperienza di questa mostra.
Pubblicato su Domani, 14 novembre 2021