Robe da chiodi

Archive for the ‘art today’ Category

Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 18th, 2009 at 2:32 pm

C'è Fontana dietro l'angolo

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Via Senato angolo via Sant’Andrea a Milano. Il palazzo è un edificio noto progettato da Roberto Menghi e Marco Zanuso nel 1947. Ed è noto per i fregi astratti in gres, disegnati da Fontana: li si vedono sotto la serie di finestre, purtroppo schermati da vetri che ne frammentano il ritmo. Ma c’è dell’altro sulla facciata di quel palazzo. E sono quegli elementi sempre in gres che Fontana ha concepito come sottofinestre: camminando li si possono anche toccare o fotografare. Sono lastre molto semplici, di un marrone denso e scuro, pettinate in orizzontale come dei campi arati visti dall’alto sulla loro verticale.

C’è un che di luminoso in questa idea di Fontana. Di molto umano (lui stesso diceva: «… gli architetti, solo occupati nei problemi funzionali e urbanistici e non umani»). Fontana ha sempre questa grazia, che lo porta alle intuizioni più ardite senza mai tagliare i ponti con la concretezza della vita. La sua è un’arte ultimamente inclusiva, per quanto radicale nelle sue opzioni. A questa data lo spazialismo e i buchi stanno per “sbocciare”, ma già qui si vede una propensione di Fontana a uscire fuori dal seminato. Quelle righe così regolari lasciano presentire un percorso che si proietta oltre il confine assegnato. C’è un qualcosa che le fa brillare che che non è in loro ma in ciò che evocano. E poi è bello che siano a portata di mano (come le maniglione delle porte del palazzo, disegnate sempre da Fonatna, nella sua verve più barocca).

Altra perla, al cimitero Monumentale, sempre a Milano. A poche decine di metri dalla tomba di don Giussani, c’è una tomba semplice, davanti alla quale passi via senza quasi accorgerti, la Tomba Rescali (1956), che Fontana ha concepito come un Prato verde (questo è il titolo) in ceramica. Distesa dentro una cornice di granito rosso, c’è questa increspatura di foglie, di fili d’erba e di fiori pallidi. È un piccolo capolavoro di land art, che commuove, perché Fontana ha sempre questa grazia che gli fa intercettare la bellezza in modo facile e mai pretenzioso. E poco importa che il Prato di ceramica sia sempre “sporcato” dagli aghi del pino che lo sovrasta…

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 6th, 2009 at 7:53 pm

La morte-morte di Bill Viola e la morte-vita di Michelangelo

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Note di viaggio romano. Al Palazzo delle Esposizioni, la mostra “estatica” di Bill Viola. Confermo tutte le mie riserve, anzi, se possibile, le incremento. L’apice è nel video Emergence, del 2002, in cui si vedono due donne accasciate ai lati di un sepolcro aperto. Da lì, con lentezza che è la cifra stilistica dell’artista americano, esce il corpo mortalmente bianco di un uomo. Esce facendo strabordare il sepolcro di acqua (tralascio le possibili, e un po’ frustre, interpretazioni simboliche). Le due lo accolgono stupite, ma stabili nel loro dolore. E in effetti l’uomo esce dal sepolcro per andarsi a deporre, morto, nelle loro braccia. Una morte dopo una resurrezione. L’idea più necrofila che un artista potesse immaginare (non accosto i nomi, tanto mi suona davvero blasfema questa messa in scena). Il tutto con una calligrafia di immagini perfette, con ritmo tenuto magistralmente sotto controllo, impaginazione impeccabile.
Ma, come più volte ciascuno ha sperimentato, il Signore è davvero buono. E a poche centinaia di metri dal Palazzo delle Esposizioni, ecco che salta all’occhio il grande manifesto che annuncia l’acquisto da parte dello Stato di un piccolo Crocifisso giovanile di  Michelangelo. È alto poco più di 40 centimetri, ed è in legno di tiglio. È un’immagine che pulisce lo sguardo (in senso molto “fisico”): nella sua perfezione trasmette tenerezza. Verrebbe davvero voglia di accarezzarlo, tanto è l’umano che vibra in quella piccola scultura. Se Viola rappresenta un uomo morto nonostante la resurrezione, Michelangelo fa l’opposto: rappresenta un uomo – Cristo – vivo nonostante sia stato ucciso sulla croce. È un Crocifisso in cui la morte già appare come vinta. Un uomo di passione che riesce a sopraffarti con un abbraccio di speranza. Ed è pur così piccolo…
(la foto di Michelangelo, di Aurelio Amendola nel suo bianco e nero un po’ troppo calligrafico non rende l’idea. Meglio quelle a colori sui manifesti).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 30th, 2008 at 1:29 pm

Natale con Agosti. Ballano il bue e l'asino

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rev431771-oriAvevo chiesto tempo fa a Giovanni Agosti di indicarmi un quadro che ai suoi occhi e per la sua storia personale rappresentasse lo spirito del Natale. La sua risposta mi ha sorpreso: «Quando mi hai chiesto quella cosa riguardo al Natale ci ho pensato su un po’. Poi mi è affiorato dalla memoria una Natività di Tullio Garbari, un pittore non troppo amato oggi. È conservata al povero Museo comunale di Arte Moderna di Milano, quindi non lo si può vedere. Ricordo che mi aveva colpito perché esprimeva bene, con semplicità, il senso della felicità del Natale. Era un senso di gioia esplicitamente espressa, una gioia quasi irrefrenabile. Tant’è vero che c’erano gli angeli che ballavano. Ma soprattutto ballavano il bue e l’asino. Quello è il particolare che mi aveva colpito: il Natale per Garbari era quella festa che faceva ballare anche il bue e l’asino!» (cercherò al più presto l’immagine vera).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 25th, 2008 at 9:38 am

Exit Morandi (in mare aperto)

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Nel video che accompagna la bella mostra di Morandi a Varese, è compreso un documento straordinario: è il commiato che Roberto Longhi registrò davanti alle telecamere dell’Approdo il 28 giugno 1964 alla notizia della morte del pittore. Il testo divenne l’editoriale di Paragone  (n. 175) e oggi , con il titolo Exit Morandi, chiude il Meridiano che raccoglie i più importanti scritti di Longhi. Ma è un testo abbreviato da cui è stato espunto un passaggio che invece mi ha molto colpito. Il Longhi televisivo in un inciso parla di una grandezza “non gozzaniana” di Morandi. Forse per rispetto a Gozzano  ha voluto espungere quel passaggio. Ma quell’inciso è una geniale precisazione di geografia critica. Morandi veniva proiettato su una dimensione internazionale («austero viandante la cui “vox clamantis” raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea»).

Written by giuseppefrangi

Dicembre 14th, 2008 at 10:54 pm

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I tabernacoli di Burri

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Per giudicare se una mostra è ben fatta o invece è sciatta basta tener d’occhio alcuni piccoli particolari. Prendete la rassegna che la Triennale ha dedicato a Burri. Gran parte delle opere, provenienti dalla Fondazione di Città di Castello, sono degli ultimi anni. E sono tutti Cellotex, anche nei titoli. Ebbene, vi sfido a trovare anche una sola didascalia in cui si spieghi che cosa sia questo materiale decisivo per il grande maestro umbro.
Intanto rimediamo: il cellotex è un materiale povero, anonimo, di uso industriale: particelle di segatura e colla pressate insieme. Burri vi interviene «spellandone» a tratti la superficie fino a mettere a nudo le fibre, di colore naturale simile alla iuta.
I Cellotex rappresentano un apice di purezza per Burri, perché lo accompagnano verso quella semplificazione estrema cui anelava. Sono supporti e superfici poveri. Ma di una povertà che prepara il campo, con calma, a veri inni di splendore. Il ciclo Nero e oro, da questo punto di vista, parla da solo: quadri, tra i pochi moderni, che non stonerebbero dietro ad un altare. Pezzi di cielo bizantino depositati sulla nuda terra. È un’ascesi francescana quella di Burri, iniziata sui sacchi-saio. E culminata sulla soglia di questi tabernacoli…. Scriveva Emilio Villa: «Burri rende contenuti maestosi con mezzi addirittura trasandati, consunti, acidi… Egli ha il sentore delle materie in disuso… Elabora un’articolata, flessibile, lucida litania».  (nell’immagine Nero e oro, 1993)

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Qualche domanda cattiva ai curatori: perché far navigare i piccoli multipli nella grande sala centrale del primo piano? Perché nell’ultima sala dello stesso piano, quella con i meravigliosi quadri estremi orizzontali non sono state messe le didascalie? Perché alcune frasi di Burri sono state ripetute più volte (non se ne trovavano altre?)? Perché non osare una mostra sul secondo Burri, dando una fisionomia più sensata e ragionata a questa mostra?

Written by giuseppefrangi

Dicembre 10th, 2008 at 12:50 am

Quella sfida impropria tra Raffaello e Fontana

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Due interessanti interviste toccano il tema della natura e del destino dell’arte contemporanea. La prima su Repubblica a Richard Sennett, sociologo, autore di un nuovo saggio su L’uomo artigiano. La seconda a Philippe de Montebello, per 30 anni direttore del Metropolitan di New York (dal Giornale dell’arte).

Domanda: Il suo libro è anche una critica all´arte contemporanea, ormai svincolata dalla materialità?
Richard Sennett: «Anche l´arte, come il lavoro, deve ritrovare il suo rapporto con la fisicità, per non rischiare di essere puramente mentale. Lo sa che i lettori più entusiasti di questo libro sono stati proprio i giovani artisti, che hanno un forte desiderio di riscoprire l´aspetto artigianale del loro lavoro, del tutto trascurato negli ultimi decenni? E forse non è un caso che di recente, ad una mia conferenza su Giorgio Morandi, sono accorse centinaia di persone. Morandi era infatti un vero artigiano».

Domanda: Collezionare arte moderna pone delle sfide…
Philippe de Montebello: «Abbiamo preso la decisione di non comperare troppe opere di questa generazione. Ci sarà molto tempo, se qualcuno si affermerà come artista, per comperare le loro opere nei prossimi 50 anni. I principali musei di arte contemporanea di New York sono le gallerie private».

Pensiero: proprio l’altro giorno visitando alla Pinacoteca Tosio Martinengo un accostamento tra contemporaneo e classico (Capolavori in corso, sino al 1 febbraio), si riscontrava l’enorme fatica che il contemporaneo fa nel confronto con l’antico. È una fatica proprio sul piano mentale, come se l’antico alla fine sbriciolasse il contemporaneo proprio per l’energia della propria struttura concettuale (va detto ad onor del vero che la selezione di opere di Foppa – Moretto – Romanino – Savoldo della Tosio rappresentano uno dei più grandi spettacoli che la storia dell’arte possa mettere in campo). L’amatissimo Fontana (Tagli in rosso) sembra paradossalmente “casuale” rispetto all’esattezza del taglio sul costato di Cristo, dipinto da Raffaello. O il confronto era improprio, o il contemporaneo avrebbe bisogno di non essere ridotto a gioco.
Restiamo tutti appassionatamente contemporanei, senza nessuna nostalgia, ma senza creare idolatrie idiote.

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Written by giuseppefrangi

Dicembre 8th, 2008 at 3:26 pm

Beuys in Vaticano (se ci fosse stato Ravasi)

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Gianfranco Ravasi, da pochi mesi “ministro” della cultura vaticana, è un uomo intelligente e non affetto da clericalismo. In un’intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (e pubblicata questo mese dal Giornale dell’arte) affronta in modo finalmente coraggioso il tema del rapporto tra la chiesa e l’arte moderna. Bacchetta severamente il sin troppo sbandierato nuovo Lezionario in cui sono state inserite opere di Paladino e Chia («artisti validi ma persino i loro lavori sono parsi privi di ispirazione»). Dice Ravasi: «…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività». «L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi delle chiese. Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un grande segnale».
beuys-crocifissioneLa Crocifissione (nella foto) si compone di due flaconi già usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce. Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in alto. Dissacrante? Non direi. Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi poveri resti ancora pregnanti di un significato.
Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione. Ora guardiamoci da chi dice di avere soluzioni in tasca. Su una materia così bisogna procedere, senza enfasi, tentativamente. L’importante è procedere, e prendersi dei rischi. E tenere gli occhi (e anche le porte: quelle delle chiese) aperti.
Post scriptum: l’importante è invece lasciar fuori dalla porta la retorica della presunte, periodiche rinascite del sacro. E lasciar fuori dalla porta anche le “elemosine” di  quegli artisti che regalano qualche soggetto sacro per vanità. Meglio il balbettio anche ambiguo di un Beuys. Almeno lui si gioca con le sue domande e l’asprezza dolorosa del suo sguardo.

Written by giuseppefrangi

Novembre 9th, 2008 at 4:16 pm

Zeri senza scintille

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In un’intervista su Repubblica Michel Laclotte, il “creatore” del Musée d’Orsay, ricorda i dieci anni dalla morte di Federico Zeri (verrà commemorato in grande stile a Bologna venerdì 10 ottobre, qui il programma). In realtà gran parte dell’intervista è dedicata ad altro. Laclotte ricorda ad esempio un incontro con Longhi: «Gli faccio vedere la foto di una tela caravaggesca entrata nel museo di Rouen, una Flagellazione di Cristo. Longhi riconosce subito una versione di un quadro appena pubblicato da Denis Mahon come Caravaggio. Si parte immediatamente per Rouen. Lì ho assistito a una scena indimenticabile. Longhi girava intorno al quadro, il suo occhio faceva scintille. In pochi secondi, grazie a lui, il quadro era diventato per noi l’originale di Caravaggio. Soltanto dopo ha fornito le prove, facendo scoprire le tracce lasciate dal manico del pennello, quelle incisioni sulla preparazione della tela che Caravaggio usava come disegno preparatorio. E tutto in allegria e divertimento, con giochi di parole in francese e imitazioni esilaranti».

Sottolineo quell’“immediatamente”. Un’altra epoca, un’altra passione per le cose, un’altra libertà. E poi quelle scintille negli occhi…

(aperta parentesi: forse proprio quelle scintille che mancavano a Zeri, grande conoscitore, ma anche grande livellatore di valori e bellezza; il suo libro per me più bello Pittura e controriforma. L’arte senza tempo di Scipione da Gaeta, è un libro dedicato alla stagione più programmaticamente castigata – anzi, per dirla tutta, stitica – della cultura figurativa cattolica. Una stagione di cattolicesimo intimidito, di controriforma non metabolizzata. Una stagione dominata dalle “regole”. Quanto a quel libro, è un libro magnifico, forse perché dettato da quel sottile gusto punitivo; so che in tanti non non saranno d’accordo, ma io la vedo così…)

Written by giuseppefrangi

Ottobre 8th, 2008 at 10:48 pm

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Il veloce Schifano

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Recensione di Marco Meneguzzo alla mostra di Roma. «Il pittore romano incarna davvero tutte le virtù e tutti i vizi dell’arte italiana con una continuità istintiva che potrebbe risalire comodamente a Giotto, un tratto distintivo che la rende unica. Velocità, composizione, superficie, “fare grande”, eclettismo della fantasia e rispetto dello strumento – più ancora del linguaggio – che si è scelto: in una frase la scelta della bellezza, comunque».

«Aggiungendo immagini ad immagini, correndo in avanti rispetto a quelle. Dimostrava che la pittura era ancora “più veloce” più disinvolta, più intelligentemente leggera di qualsiasi altra immagine: la pittura diventava l’umanizzazione dell’immagine. E questo, appunto, senza rifugiarsi in nessuna torre d’avorio, senza rivendicare nessun tipo di “qualità” intrinseca alla pittura, magari derivata dalla sua mobilità di natali (natali della pittura, ovviamente…), ma semplicemente indicandone, con l’esempio, l’umanità».

Written by giuseppefrangi

Giugno 24th, 2008 at 9:48 pm

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