Ho incontrato Fabio Novembre nel suo studio. Vagando per il suo sud, il discorso ad un certo punto fa capolino su Gibellina. Mi dice che il cretto di Burri è una delle cose che più hanno lasciato il segno su di lui. Nella desolazione di quel paese dimenticato da tutti, sembra che Burri avesse intuito il rischio che incombeva e quindi aveva pensato a quella crosta di cemento inespugnabile. Cemento bianco, che inghiotte le immense rovine del terremoto del 1968. Città morta che custodisce se stessa. Burri ci lavorò tra 1984 e 1989. Ecco come tante volte aveva ricordato la genesi di quell’intuizione: «Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento».
Ha ragione Novembre. Il Grande Cretto di Gibellina è land art nel senso più completo del termine. Forse è la cosa più bella e più grande che la Land art abbia mai prodotto. Ma è così perché è un’opera che si confronta con la storia, con la sua drammatica oggettività. Non mette in scena l’osmosi con la natura, come succede in tutta la Land art, perché non può nascondersi che la natura qui è stata terribilmente nemica. Per cui la sua è un’opera dialettica, costretta ad essere armonica e insieme titanica, quasi volesse imbrigliare per sempre quel demonio che aveva scatenato l’inferno nella vecchia Gibellina.
E, visto dall’alto, il Grande Cretto svela la sua griglia così giusta e piena di armonie. Sono quelle inventate dall’uomo quando sapeva rendere umano il proprio habitat.
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Fabio Novembre, Burri e Gibellina
C'è Fontana dietro l'angolo
Via Senato angolo via Sant’Andrea a Milano. Il palazzo è un edificio noto progettato da Roberto Menghi e Marco Zanuso nel 1947. Ed è noto per i fregi astratti in gres, disegnati da Fontana: li si vedono sotto la serie di finestre, purtroppo schermati da vetri che ne frammentano il ritmo. Ma c’è dell’altro sulla facciata di quel palazzo. E sono quegli elementi sempre in gres che Fontana ha concepito come sottofinestre: camminando li si possono anche toccare o fotografare. Sono lastre molto semplici, di un marrone denso e scuro, pettinate in orizzontale come dei campi arati visti dall’alto sulla loro verticale.
C’è un che di luminoso in questa idea di Fontana. Di molto umano (lui stesso diceva: «… gli architetti, solo occupati nei problemi funzionali e urbanistici e non umani»). Fontana ha sempre questa grazia, che lo porta alle intuizioni più ardite senza mai tagliare i ponti con la concretezza della vita. La sua è un’arte ultimamente inclusiva, per quanto radicale nelle sue opzioni. A questa data lo spazialismo e i buchi stanno per “sbocciare”, ma già qui si vede una propensione di Fontana a uscire fuori dal seminato. Quelle righe così regolari lasciano presentire un percorso che si proietta oltre il confine assegnato. C’è un qualcosa che le fa brillare che che non è in loro ma in ciò che evocano. E poi è bello che siano a portata di mano (come le maniglione delle porte del palazzo, disegnate sempre da Fonatna, nella sua verve più barocca).
Altra perla, al cimitero Monumentale, sempre a Milano. A poche decine di metri dalla tomba di don Giussani, c’è una tomba semplice, davanti alla quale passi via senza quasi accorgerti, la Tomba Rescali (1956), che Fontana ha concepito come un Prato verde (questo è il titolo) in ceramica. Distesa dentro una cornice di granito rosso, c’è questa increspatura di foglie, di fili d’erba e di fiori pallidi. È un piccolo capolavoro di land art, che commuove, perché Fontana ha sempre questa grazia che gli fa intercettare la bellezza in modo facile e mai pretenzioso. E poco importa che il Prato di ceramica sia sempre “sporcato” dagli aghi del pino che lo sovrasta…