Per giudicare se una mostra è ben fatta o invece è sciatta basta tener d’occhio alcuni piccoli particolari. Prendete la rassegna che la Triennale ha dedicato a Burri. Gran parte delle opere, provenienti dalla Fondazione di Città di Castello, sono degli ultimi anni. E sono tutti Cellotex, anche nei titoli. Ebbene, vi sfido a trovare anche una sola didascalia in cui si spieghi che cosa sia questo materiale decisivo per il grande maestro umbro.
Intanto rimediamo: il cellotex è un materiale povero, anonimo, di uso industriale: particelle di segatura e colla pressate insieme. Burri vi interviene «spellandone» a tratti la superficie fino a mettere a nudo le fibre, di colore naturale simile alla iuta.
I Cellotex rappresentano un apice di purezza per Burri, perché lo accompagnano verso quella semplificazione estrema cui anelava. Sono supporti e superfici poveri. Ma di una povertà che prepara il campo, con calma, a veri inni di splendore. Il ciclo Nero e oro, da questo punto di vista, parla da solo: quadri, tra i pochi moderni, che non stonerebbero dietro ad un altare. Pezzi di cielo bizantino depositati sulla nuda terra. È un’ascesi francescana quella di Burri, iniziata sui sacchi-saio. E culminata sulla soglia di questi tabernacoli…. Scriveva Emilio Villa: «Burri rende contenuti maestosi con mezzi addirittura trasandati, consunti, acidi… Egli ha il sentore delle materie in disuso… Elabora un’articolata, flessibile, lucida litania». (nell’immagine Nero e oro, 1993)
Qualche domanda cattiva ai curatori: perché far navigare i piccoli multipli nella grande sala centrale del primo piano? Perché nell’ultima sala dello stesso piano, quella con i meravigliosi quadri estremi orizzontali non sono state messe le didascalie? Perché alcune frasi di Burri sono state ripetute più volte (non se ne trovavano altre?)? Perché non osare una mostra sul secondo Burri, dando una fisionomia più sensata e ragionata a questa mostra?