Robe da chiodi

Ma quanto la sa lunga Cattelan

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L’ultimo numero di Domus a direzione Mendini ha la sorpresa di 32 pagine “condirette” con Maurizio Cattelan (qui le foto della presentazione del numero a Milano). Le 32 pagine sono un Domus in miniatura e si aprono con un editoriale dell’artista. Più che un editoriale è un elenco di pensieri, in apparenza banali. In realtà, nient’affatto banali. C’è un realismo, che oggi è un bene raro in chi pensa. Me ne sono segnati alcuni.  In neretto, quello che più mi piace…

Se dobbiamo solo invecchiare e morire perché siamo qui?

Una tentazione non può essere scambiata per un opportunità.

L’arte puo produrre realtà?

La ripetizione è una forma di cambiamento.

I fatti non smettono di esistere perché li si ignora.

L’universo è fatto di storie non di atomi.

Una conclusione è solo un luogo in cui ci si è stancati di pensare.

Si può pensare al nulla?

Per avere dei bei ricordi ci vuole più di una buona memoria.

Sono parte del problema non la soluzione.

•••

Infine, le 32 pagine firmate Cattelan si chiudono con la foto di Gabriele Basilico in Piazza Affari. Quando si dice un grande fotografo… Immagine presa da dietro, sagoma perfettamente incastrate nel volume dei palazzi disegnati da Lancia, continuità di linee sempre perfettamente rette, e compattezza dei grigi. Il dito sbuca potente, solo contro il cielo di latte, drammatico, con il marmo già soffocato dalla fuliggine milanese.

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Marzo 3rd, 2011 at 9:45 am

La Girardot, meraviglia tra le guglie

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Ieri è morta Annie Girardot. Per me è uno dei volti più indimenticabili della storia del cinema: per la bellezza, per l’intensità umana, per quella sua drammatica capacità di tenerezza. A lei e a Visconti siamo debitori anche di quella sequenza in Rocco e i suoi fratelli che ha consacrato l’immagine del Duomo di Milano come cattedrale-casa, cattedrale-città, cattedrale-piazza. Non esiste nulla di paragonabile nel mondo dell’architettura: non c’è  un’altra cattedrale che si lasci abitare in ogni spazio, come il Duomo di Milano. Non è certo la più bella cattedrale, ma è la più larga, la più aperta al tesssuto della vita che la circonda. Un tutt’uno tra le pietre e le persone. Stessa famiglia. E nulla meglio di questa sequenza lo testimonia. Riguardatela!

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Marzo 1st, 2011 at 9:06 am

La perfezione s’addice a Modigliani

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Davvero straordinaria la mostra delle sculture di Modigliani vista al Mart di Rovereto, curata da Flavio Fergonzi. Bellissimo l’allestimento (le sculture di Modigliani, tutte dentro teche, al centro del percorso; sui lati quelle degli artisti di quegli anni generosi di Parigi, tra il 10 e il 20 e tutte le sculture primitive o antiche che avevano innescato tanta generosità di nuove forme). Ad un certo punto dopo il primo corridoio, il percorso svolta verso destra e ci si trova davanti a questa immagine stupefacente che vedete qui sopra. Il capolavoro, oggi conservato alla Tate di Londra, appare di profilo:  donna-pellicano, mi viene voglia di chiamarla. Una sagoma bislunga, plasmata in un calcare caldo che traspira. Il mento sembra farsi grembo. È impressionante come questa verticalità quasi esasperata sappia farsi larghezza. Il che riporta la forma dentro un equilibrio sacrale e sensuale insieme. Poi se ci si gira attorno, la testa provoca uno choc visivo. Diventa sottile e affilata come un coltello; una prua che sbuca da un tempo senza tempo; qualcosa di un’eleganza implacabile. L’asse costituito dalla linea del naso perfettamente retta, lunga come da qui a un infinito, crea un soprassalto rispetto al tracciato così sovranamente morbido del profilo. Cambia anche lo sguardo: eretto e fermo come quello di una dea, nella prospettiva di profilo. Dilatato e un pizzico pettegolo nella visione frontale.
Grandissima scultura, davvero. Unica pecca, il modo in cui è stata fotografata nel catalogo, con una luce sparata da sotto in su, che ne snatura la calma ed brucia con un bianco esasperato il caldo colore del calcare.

Qui sotto, uno dei passaggi più belli della mostra, la Testa di Modigliani (da Washington) dialoga con la sua “antenata”, la Battista Sforza di Laurana. Sull sofndo un kouros dall’Archeologico di Firenze.

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Febbraio 27th, 2011 at 4:56 pm

Warhol in odor di sagrestia

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Anche l’Osservatore Romano “beatifica” Andy Warhol, con un articolo di Sandro Barbagallo che prende spunto dalla conferenza tenuta a Roma di Alain Cueff, studioso francese che ha curato un bel volume che raccoglie le interviste di AW.  Devo dire che questa riscoperta del coté religioso di AW inzia un po’ a stufarmi. Mi sembra un tentativo tardivo e un filino patetico di recuperare alla parrocchia un grande del 900. L’aspetto più debole di questa operazione sta nel fatto che fa leva su aspetti biografici, che sono veri e hanno anche risvolti commoventi, ma che non si capisce bene che implicazioni abbiano sulla cosa che conta, cioè sulla sua arte. Si insiste sull’ultima mostra, quella dedicata all’Ultima Cena di Leonardo, tralasciando il fatto che questa mostra non presenta nessuna novità dal punto vista dello stile, né dell’approccio al “prodotto” artistico. (“non prendere mai Warhol alla lettera”, suggeriva il suo amico John Richardson, nel celebre elogio funebre pronuciato nella cattedrale di Saint Patrick a NY).

Ultima Cena e zuppa Campbell, per Warhol, continuano ad essere la stessa cosa. O a proporre lo stesso problema (parola che a Warhol farebbe orrore…). È una faccenda che non va liquidata troppo in fretta, ma che ha a che fare con la permanenza dell’idea di icona dentro il dna di Warhol (il suo cattolicesimo era di matrice orientale ortodossa). L’icona da una parte è frutto di un processo produttivo automatico (mette le briglie alla soggettività di chi le realizza, per dar forza e credibilità all’idea che quell’immagine non sia frutto di fantasie degli uomini); dall’altra è, per conseguenza, seriale. Automatismo e serialità sono due cardini della’rte di Warhol. Il fatto è che Warhol applica questo codice a immagini e oggetti che sono transitori per statuto (oggetti di consumo: il ciclo dell’Ultima Cena venne ispirato da un gadget della General Electirc). Perché? Che cercasse schegge di eterno laddove l’occhio sociologico “estetico” di tutti vedeva solo “brutte cose”? Io penso che questa sia una buona ipotesi. Che oltrettutto aiuta a spiegare la forza impressionante che a volte quelle immagini così stereotipate e banali, riescono ad assumere.

La foto in alto, è una polaroid di AW, 1981. Titolo: «Madonna and child»

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Febbraio 25th, 2011 at 12:03 pm

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Maffezzoni, ispirarsi (con ironia) a Dalì

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L’amico Mauro Maffezzoni, uno degli artisti presenti con grande successo alla prima edizione di Giorni felici, mi manda la fotografia di questo suo quadro appena realizzato. È una Crocifissione, ispirata dal modello di Dalì. Non amo le opere sacre dell’artista spagnolo, perché mi sembra riducano tutto a una saga di fantascienza. Crocifissi spaziali, con effetti in 3D. Cristi extraterrestri. Ma Maffezzoni approccia quell’immagine in modo intelligente e senza complessi. Con uno sguardo curioso e libero, riduce gli aspetti irrazionali del prototipo (quell’energia centrifuga che fa del crocifisso quasi un’astronave), e riporta tutto a una dimensione colloquiale e domestica. Così il dialogo tra il santo (che qui è inginocchiato) e il crocifisso torna a diventare un dialogo verosimile. E non un’impossibile visione. Mi piace proporre questo quadro (100 x 80 le sue dimensioni), perché dimostra come affrontando un soggetto sacro in modo libero, con un’affezione di fondo e senza intellettualismi possano generarsi immagini belle e giuste come questa.

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Febbraio 20th, 2011 at 4:52 pm

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Giacometti va in montagna

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Guardate che meraviglia questa foto! È quella che sta sulla copertina del catalogo della mostra in corso da Gagosian, a Ginevra, Giacometti in Switzerland. Giacometti a torso nudo, accucciato tra le rocce della sua val Bregaglia. Tutto ossa, con montagne  che non sono da meno. C’è da pensare che il senso della scultura in lui abbia avuto genesi in luoghi così.

Post scriptum 1. L’amico Federico Ferraù mi segnala l’esatta posizione cui la foto di Giacometti è stata scattata: è ai piedi del Pizzo Badile (3308 m.), quello che si vede alle sue spalle è lo spigolo nord.

Post scriptum 2. Giacometti aveva scritto una “didascalia” a questa foto: «… fu mio padre un giorno a mostrarmi il monolite. Scoperta enorme; immediatamente considerai quella pietra un’amica, una creatura animata dalle migliori intenzioni nei nostri confronti; ci chiamava, ci sorrideva, come qualcuno già concosciuto e amato nel passato, ritrovato con stupore e gioia infiniti. Subito ci assorbì in maniera esclusiva» (da Ieri, sabbie mobili, 1933)

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Febbraio 17th, 2011 at 6:12 pm

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Van Gogh pubblicato alla rovescia

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L’implacabile detective vangoghiano Antonio De Robertis ha beccato in castagna tutti  i maggiori giornali italiani. Martedì avevano dato grande enfasi all’allarme lanciato da due ricercatori Letizia Monico dell’Università di Perugia e da Koen Janssens dell’Università di Antwerp sul deperimento dei colori di Van Gogh. Scrive De Robertis nei commenti con cui è andato a tamponare le informazioni sballate su tanti siti: «Giornali e blog annunciano in articoli molto documentati l’alterazione del giallo di cromo verso il marrone si manifesti di più nella versione dei girasoli del museo Van Gogh rispetto a quella della National Gallery di Londra (nella foto) e poi allegano invece la fotografia della terza versione di Tokio». I Girasoli di Tokio sono quelli acquistati dalla compagnia di assicurazioni giapponese Yasuda nell’87 e sulla cui autenticità molti studiosi hanno avanzato dubbi. Lo stesso detective De Robertis aveva avanzato l’ipotesi che a dipingere quei Girasoli fosse stato in realtà Gauguin (questo spiegherebbe la miglior tenuta del giallo: Gauguin usava acquistare colori di qualità migliore).

Ma le disavventure informative non finiscono qui: i giornali infatti pubblicano tutti il quadro di Tokyo al contrario!

Quanto al giallo, Van Gogh usava il giallo cromo Tasset&Lothe o quello del famoso pére Tanguy. I Girasoli “sicuri” sarebbero stati dipinti con i primi. La diversa conservazione dei due esemplari sarebbe determinata dal fatto che quello di Londra ha avuto una storia molto più tranquilla, menre quello di Amsterdam ha viaggiato moltissimo, con effetti deleteri per cambi di ambientazione e di esposizioni alla luce.

Mia nota personale: non bisogna esagerare nell’idolatrare i colori di Van Gogh. Quelli erano potenzialmente a disposzione di tutti. La sua grandezza è in quello sguardo eternamente divaricato sulla realtà e il colore è strumento per questio sgiuardo. È come se penetrasse la realtà, l’aprisse, ne dilatasse febbrilmente l’orizzonte. Van Gogh imprime sempre una grande pressione sulle immagini: ma questa pressione deriva da un fattore mentale non da una reazione emotiva. Lui parla di un’«alta nota gialla». Sarebbe davvero limitante pensare che quel giallo coincida semplicemente con un colore. Piuttosto è l’eco di un desiderio inestinguibile e ultimamente non catturabile. Il giallo in questo senso è un’ultracolore. Per questo Antonin Artaud poteva scrivere: «I suoi girasoli, d’oro e bronzo sono dipinti, sono dipinti come girasoli e nient’altro, ma adesso per capire un girasole in natura bisogna prima rivedere van Gogh».

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Febbraio 16th, 2011 at 10:55 pm

San Valentino con i baci di Brancusi

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Un pensiero verso San Valentino. Assodato che il più bel bacio nella storia dell’arte è indiscutibilmente quello tra Anna e Gioacchino sotto la porta d’oro, nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, si può provare ad allargare lo sguardo. Ci si accorge come gran parte dei baci (d’amore, ovviamente) sono concepiti come baci che preludono a una separazione, a una partenza. Quindi hanno dentro una quota irriducibile di tristezza, che a volte si connota di patologico (Munch, Rodin, Klimt, lo stesso Hayez). Ci sono anche baci che si smarcano da questo trend. Ho in mente quello cannibalesco di Picasso. Ma soprattutto mi è capitata sotto gli occhi in questi giorni una versione bellissima del Bacio di Brancusi (la propone il Mart per San Valentino). Brancusi ne realizzò parecchie versioni tra 1907 e 1909. La più nota è quella di Filadelfia. Ma questa conservata a Craiova, in Romania è il prototipo ed ha una semplicità più primitiva e sintetica. I due si saldano in un bacio labbra conto labbra, in un gesto di passione e di tenerezza. Le braccia con un andamento fluido completano questo allacciamento amoroso. È una scultura felice, che sprigiona un senso pieno di innamoramento. Di  desiderio fisico per l’altro, ma anche di fanciullesco imbambolamento sentimentale. («Ogni mia scultura ha la sua ragion d’essere in un’esperienza vissuta», diceva Brancusi). Gli occhi dei due sono puntati uno nella pupilla dell’altro per un faccia a faccia senza freni e palpitante. Ma la forza di Brancusi sta nel non cedere sulla china romantica, dei corpi che cercano la fusione (ricordate Isotta che sogna di togliere la “und”, la “e”, che la separa da Tristano? Sogno terrificante…). La divisione resta. I due restano due. E l’energia della scultura si gioca tutta nell’esprimere la reciproca, palpitante attrazione.
Ammoniva Brancusi: «Ne cherchez pas de mystères; je vous apporte la joie pure».

(anche ogni post ha la sua ragion d’essere in un’esperienza vissuta: questo è dedicato ovviamente ad Angela)

Sotto, altri baci di Brancusi  (a destra quello di Filadelfia)

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Febbraio 12th, 2011 at 1:56 pm

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Nuove chiese: Montini chiedeva solo commozione

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Si parla ancora di nuove chiese, per via di una mostra che Casabella ha annunciato per il prossimo marzo a Milano. Il Corriere l’annuncia presentando tre edifici che hanno fatto discutere. Uno, quello di Mauro Galantino a Modena, si è addirittura preso una reprimenda da Paolo Portoghesi con un articolo sull’Osservatore Romano. Non voglio entrare nel merito: di per sé non mi sembra un brutto edificio anche se riconoscerlo come chiesa ce ne vuole. Ma in questi giorni, riesplorando il piano chiese del grande cardinal Montini, mi sono imbattuto in un suo discorso del 1963 che colpisce profondamente. Montini chiede perdono al suo grande predecessore San Carlo, per essersi disimpegnato dalle sue “precisazioni così impegnative” in nome di un esperimento della libertà concesso agli artisti. «Vi è stato detto: fate quello che volete! Solo vi domandiamo che questa vostra arte realmente e degnamente ci serva, che sia funzionale, che la possiamo capire, che ci offra un aiuto, che dica una parola vera e che il popolo ne abbia una commozione sacra, religiosa. Siate veramente in comunicazione e in sintonia con il culto e con la spiritualità cristiana; e dopo fate quel che volete! Dite quel che volete, artisti purché – ripeto – ci sia questo innesto fra il vostro linguaggio e il mio, fra la mia liturgia e la vostra espressione».

Ecco: il fattore commozione. Oggi mi pare sia stato rimpiazzato dal fattore emozione (cioè da effetti speciali). Mi pare che con questo semplice richiamo che non limitava in nulla la libertà Montini abbia dato un criterio chiaro. Me ne sono reso conto scoprendo una delle tante chiese messe in cantiere durante quegli anni: è quella di Enrico Castiglioni, a Prospiano, frazione di Gorla Minore (1962). Semplice, sorprendente, molto contemporanea, pur custodendo fedele memoria del romanico lombardo.

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Febbraio 10th, 2011 at 10:27 pm

Parmiggiani, un’overdose di perfezione

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Mattinata a  Parma per un convegno. C’è la grande mostra di Claudio Parmiggiani, un genius loci, che qui può lavorare a mani libere. La mostra è allestita ala Palazzo del Governatore, rimesso a nuovo. Stanze linde, che s’affacciano sull’abside della Steccata e su Piazza Garibaldi. Ogni stanza un’opera. Un allestimento iperminimale, senza targhette e senza nessuna scritta di aiuto. La mostra in quel momento è vuota, ma ogni sala ha di fatto una custode che la presidia. Una di loro accetta di farmi da guida. È precisa sui titoli delle opere, sulle ragioni di ciascuna, sulle scelte dell’allestimento. Insomma è preparata, davvero. L’unica cosa che non sa sono le date delle opere. L’allestimento ovviamente non segue nessun andamento cronologico: c’è come un “complesso” del tempo. Come si trattasse di una dimensione “sporca” da lasciarsi alle spalle. Eppure, quando vengo a sapere le date, si scorge che un percorso c’è. Se si sgranano le opere in sequenza cronologica, si scopre che c’e una gentilezza iniziale (Cerchio di piume, cerchio di fuoco, 1969) e un momento molto potente sulla fine degli anni 90:  gli anni dei 365 grandi pani di ferro disposti per terra e soprattutto della gigantesca ancora che trapassa il muro (Nel cuore, il titolo). Sono opere sulle quali non è ancora calato il mutismo così estenuato da  chiedersi se non sia anche un po’ compiaciuto della propria eleganza, che prevale nell’ultimo decennio…

Parmiggiani ha sempre avuto in Giorgio Morandi il suo artista mito. E lo si capisce. Ma nel silenzio monacale, l’arte di Morandi non stacca mai il sibilo tenero e insistente del mistero. È come un baluginio che dà respisro e consistenza. In Parmiggiani il silenzio diventa invece un vuoto calcolato assordante (sopra il pianoforte c’è il calco di bronzo di un orecchio con conficcato un coltello…). Come se la spina fosse stata elegantemente staccata e non restasse che un’arte del tuto afona. Nella piccola chiesa di san Marcellino Parmiggiani ha portato 100mila libri che riempiono abside e presbiterio e s’interrompono di netto all’altezza della navata. Sopra ha posizionato un bellissimo gozzo ligure di 18 metri, trovato nelle acque di Santa Margherita ligure: la chiglia taglia il mare di carta, la prua si proietta in mezzo alla navata. Gli alberi e le vele sono ammainate come in prospettiva di un naufragio. Tutto suggestivo, tutto elegante. Tutto abbastanza compiaciuto. Naufuagio con spettatore, è il titolo: come se in realtà non ci riguardasse. L’arte di Parmiggiani si chiama infatti fuori dall’arena del mondo e della storia. E dalle sue dimensioni (il tempo, innanzitutto). È un rito propiziatorio e vagamente esoterico in vista di un day after senza più scorie. Un day after perfetto, impeccabile, curato nei minimi dettagli.

Written by gfrangi

Febbraio 9th, 2011 at 8:55 am