Robe da chiodi

Realismo magico, la vittoria di Cagnaccio

leave a comment

C’è un supplemento di magia in questa ritorno del Realismo magico a Milano, dopo il precedente del 1989 curato da Maurizio Fagiolo dell’Arco. La mostra ha infatti una doppia dedica ad Elena Marco e a Emilio Bertonati. Elena Marco è la moglie, scomparsa prematuramente nel 2020, di Mario Bellini, architetto ed eccezionale collezionista degli artisti di questa stagione contrassegnata da quel plausibilissimo ossimoro. Bellini, oltre ad essere il più importante prestatore, ha firmato anche l’allestimento delle sale di Palazzo Reale; un allestimento calmo, ritmato, con un marrone elegante ed uniforme che cala il visitatore in quel presente sospeso. Emilio Bertonati invece è il gallerista, collezionista, e critico che negli anni 70, con grande fiuto e determinazione, aveva riscoperto la Nuova Oggettività tedesca e il suo addolcito contraltare italiano (“Realismo magico”, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, fino al 27 febbraio, catalogo Sole24Ore cultura).

Il Realismo magico non è stato istanza organizzata alla stregua di un movimento, ma una posizione tacitamente condivisa sull’onda di quel “Rappel à l’ordre” raccomandato da Jean Cocteau con i suoi saggi scritti all’indomani della grande carneficina della Guerra Mondiale e profeticamente anticipato da maestri disallineati come André Derain e Giorgio De Chirico. È un momento breve, circoscrivibile alla prima metà degli anni ’20, anche se, per tanti protagonisti, quella stagione era destinata a prolungarsi e a consolidarsi come una grammatica visiva alla quale restare agganciati. 

Era stato un critico tedesco, Franz Roh, a coniare nel 1925 l’ossimoro per descrivere un fenomeno che coinvolgeva tutta l’Europa. La declinazione italiana era marcatamente segnata da un ritorno alla tradizione e in particolare ad una visione neo quattrocentesca che Carlo Carrà per primo aveva indicato come riferimento per una pittura che voleva lasciarsi alle spalle il disordine delle avanguardie e il furore dell’espressionismo. «Faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi», scriveva Carrà in una lettera a Giovanni Papini. Nell’introduzione al catalogo Valerio Terraroli parla di «un generale richiamo, arrivato dalle pagine di “Valori Plastici”, a una sobrietà atemporale, in cui la forma trionfa sull’indistinto e la plasticità si fa severa e architettonica». 

A fondare “Valori plastici” era stato, insieme alla moglie Edita, Mario Broglio, che oltre a mettere in atto in quanto artista quella nuova visione, si era rivelato un formidabile propagandista, esportando già nel 1921, le opere dei colleghi del Realismo magico in Germania. Broglio con Edita sono due figure centrali nel percorso a Palazzo Reale. La loro è una declinazione morbida del ritorno all’ordine, tenue nei toni, e del tutto antitetica alla retorica del Novecento, teorizzato da Margherita Sarfatti. È una situazione che può far pensare ad un ripiegamento in una dimensione di intimismo, ad una chiusura dell’arte su se stessa, come in un microcosmo parallelo in cui valgono riferimenti formali fuori dal tempo (Casorati e i due Broglio tornano anche a dipingere su tavola, quasi per obbligarsi ad una disciplina neo quattrocentesca). In realtà dentro il guscio protettivo di questo ritorno all’ordine c’era spazio per una complessità e per avventure innovative e illuminate come quella che vide protagonista a Torino Felice Casorati, in dialogo serrato con il collezionista Riccardo Gualino. In una delle sale più belle della mostra milanese, i Gualino, rispettivamente padre, madre e giovane figlio, con i loro ritratti frontali e cristallizzati, sembrano farsi spettatori delle due ballerine Cynthia Maugham e Raja Markman, ugualmente immortalate da Casorati, in due quadri davvero magici, ed esposti sulla parete di fronte. Creature dai lineamenti fatati e sottilmente malinconici, Cynthia e Raja erano state chiamate da Cesarina Gualino per dar vita ad un laboratorio di danza moderna nel teatrino privato costruito in via Galliari, inaugurato nel 1925. Casorati si era occupato della decorazione interna del teatrino. Nel 1930 avrebbe sposato Daphne, la sorella pittrice di Cynthia.

L’aver pensato la mostra anche come un omaggio ad Emilio Bertonati ha suggerito ai curatori Gabriella Belli e Valerio Terraroli, di inserire nel percorso alcune testimonianze della Nuova Oggettività tedesca. Sono inserimenti sempre precisi e tematicamente pertinenti, che rendono evidente la differenza di temperatura tra le due esperienze. “L’imprenditore” di Heinrich Davringhausen è un ritratto spietato, emblema di un capitalismo che si preparava a consegnare la Germania al nazismo. I due paesaggi di Franz Radzwill prefigurano scenari tempestosi, con cieli di tenebra solcati da luci bellicose: la storia preme drammaticamente e finisce con lo scuotere l’ordine ritrovato della pittura. 

Il coté italiano, per quanto si misuri con il fascismo già in atto, invece si muove su registri molto più pacati e antipolitici: del resto, come sottolinea Gabriella Belli nel testo in catalogo, questo era un modo per sottrarsi «dall’asservimento al movimento di Novecento di Margherita Sarfatti, con il quale il Realismo magico è sempre stato ambiguamente confuso, ma dal quale si distingue profondamente per contenuti e modi». La differenza radicale con Novecento è testimoniata dal caso di Cagnaccio di San Pietro, la presenza «più dura e inclemente» e forse per questo più intrigante del Realismo magico. Il suo “Dopo l’orgia” (1928) era stato rifiutato dalla Biennale presieduta proprio da Margherita Sarfatti. Dal polsino abbandonato sul pavimento spuntava infatti un gemello decorato con l’insegna del fascio, denuncia sottile ma feroce al “machismo” di regime. Paradossalmente Cagnaccio era invece piaciuto ad Hitler: in visita alla Biennale del 1934, aveva puntato gli occhi sul suo ritratto di “Randagio”, un ragazzo derelitto che allunga la mano per chiedere l’elemosina. L’artista non voleva saperne di cederlo al dittatore, ma alla fine, messo sotto pressione, dovette arrendersi. Ne fece subito una replica, che oggi è custodita al Mart.

Cagnaccio, al secolo Natalino Bentivoglio Scarpa, era stata una scoperta di Emilio Bertonati. Nel 1971 gli aveva dedicato una personale alla Galleria del Levante di Milano che nel sottotitolo veniva definita “Prima retrospettiva”, come a sottolineare la dimenticanza in cui l’artista era stato colpevolmente relegato dopo la sua morte avvenuta nel 1946. Il testo del catalogo era firmato da Giovanni Testori, che in quegli anni collaborava in modo sistematico con il gallerista, curando tra le altre cose, in quello stesso anno, la prima grande mostra pubblica sulla Nuova oggettività alla Rotonda della Besana di Milano, in anticipo sulla stessa Germania. Testori era anche collezionista e tre dei Cagnaccio presenti in mostra conservano ancora le cornici che avevano quando erano appesi ai muri della casa novatese dello scrittore.

Con Cagnaccio inevitabilmente sale la tensione drammatica della mostra e cambia anche il campionario umano dei soggetti, presi dal popolo e non più da quell’élite colta e illuminata. Il ritorno all’ordine diventa così per lui una formula per rappresentare, con precisione icastica, gli squilibri sociali di quel tempo.  Non solo sociali, ma anche di genere, come nel caso di “Primo denaro”, un capolavoro del 1924, dove vediamo lo scorcio violento di una figura femminile nuda, addormentata al fianco del piattino con il compenso per la sua prestazione: dettaglio drammatico e crudele. La conclusione è quindi, inevitabilmente, nel segno della pittura di Cagnaccio, chirurgica e accorata nello stesso tempo. La magia lascia il campo ad un’amarezza, inevitabile riflesso della storia.

Pubblicato su Alias, 8 gennaio 2022

Bentivoglio Scarpa Natalino detto Cagnaccio di San Pietro, Dopo l’orgia, 1928,

Written by gfrangi

Gennaio 15th, 2022 at 10:20 am

Lo stupore di Consagra a colori

leave a comment

Racconta Pietro Consagra nella sua autobiografia che in una delle periodiche visite a New York dove vivevano la moglie Sofia con i quattro figli, venne indotto a fare un’esperienza psichedelica. «Disegnavo su dei fogli che mi avevano dato e guardavo i fiori emettendo luci colorate. Vagavo nell’infinito vuoto… Poi una sensazione cominciava a vivere, una voglia di capire e di tornare. Era un ritornare giù a rimbalzi… Il rientro è stata una grande gioia di sentire tutto di me».

Era il 1966. Nel dicembre di quell’anno Consagra avrebbe presentato alla Galleria Marlborough di Roma dei lavori nuovi, inaspettati: ferri girevoli colorati, accompagnati da una serie di pannelli dipinti. L’anno dopo la stessa galleria portò quei lavori a New York. «Una mostra delicata come un velo», commentò l’artista, che aveva parlato anche di una ritrovata tenerezza nei confronti della propria scultura. Per lui erano anni di grandi sconquassi, sul piano artistico e su quello privato. Nel 1964 il trionfo della Pop Art alla Biennale era stato vissuto da lui come «sopravvento che non lascia aria da respirare… dentro il mio cuore entrava un mattone». L’arte americana risucchiava quella europea, come aveva amaramente constatato Roberto Longhi nel suo ricordo di Giorgio Morandi trasmesso dal Telegiornale Rai nel giugno 1964: “Exit Morandi”, arrivano i barbari. Per Consagra il problema si poneva in termini personali ancora più drammatici. Militante del Pci, aveva combattuto i paladini del realismo, da Guttuso a Trombadori, che avevano monopolizzato la linea culturale del partito. Per questo, con tutti gli amici del gruppo Forma 1, era stato accusato di accondiscendere, con la scelta per l’astrattismo, ad un’arte individualista e borghese. «La mia barca era travolta dall’oceano. Il nostro modernismo era stato solamente provocatorio?», si domandava Consagra. A tutta questa inquietudine e senso di fallimento si aggiungeva anche la dolorosa crisi del suo matrimonio e l’inizio della relazione con Carla Lonzi. «Mi ero aggrappato a Carla», racconta l’artista. Una presenza preziosa per la sua intelligenza ma soprattutto per quel suo porsi oltre i conflitti e i travagli che avevano contrassegnato il Dopoguerra. Lei aveva un approccio completamente diverso: «Faceva la critica d’arte e si occupava delle proposte dei giovani artisti».

È in questa situazione di passaggio e di precarietà che in modo inatteso Consagra apre al colore: un colore delicato, estraneo a quello plateale della Pop art. Lo scultore siciliano si aggancia piuttosto alle esperienze di Calder e di Ellsworth Kelly per approdare ad una situazione che Maurizio Calvesi, nell’introduzione alla mostra della Galleria Marlborough aveva sintetizzato in modo perfetto: «Questa scultura non celebra più un incontro, un colloquio, una libertà dai chiari connotati politici e democratici, ma celebra una nascita, una libertà senza programmi e senza aggettivi». “Colloqui” era il titolo assegnato ad una serie opere che avevano segnato il decennio tra 1952 e 1962: opere che cercavano una relazione diretta e frontale con l’osservatore, in una prospettiva sempre orizzontale. L’astrattismo per Consagra era tutt’altro che un linguaggio fine a se stesso, ma in costante dialogo con la società, con la sua energia di libertà capace di proporre una spiritualità come provocazione e di destabilizzare i processi di massificazione.

Quando questa visione entrò in crisi, fu il colore a offrirsi come via di uscita. È la “nascita” di cui parlava Calvesi nella presentazione del 1966 e che ora è al cuore della mostra proposta a Lugano negli spazi del Masi e ideata da Giancarlo e Donna Olgiati, collezionisti, amici e sostenitori del lavoro dell’artista (“Pietro Consagra. La materia poteva non esserci”, a cura di Alberto Salvadori, fino al 9 gennaio; catalogo Mousse). Come sottolinea Lara Conte in uno dei saggi in catalogo, Consagra aveva individuato nel colore «una possibilità trasformativa della scultura e una libertà espressiva del fatto scultoreo, tuttavia lontana dall’attrazione Pop». In mostra lo spazio che accoglie questa serie di lavori del biennio 1965/66 è isolato strategicamente dai “Lenzuoli”, grandi teli dipinti con colori lavabili e realizzati dall’artista a partire dal 1967 e posizionati come veri sipari.  Sulla superficie delicata e bianca Consagra annota in modo ritmico e ordinato dei flussi di immagini, che sembrano tracce, impronte di sculture immaginate. «Un terreno fertile di sperimentazione, analisi, verifica e inventario delle idee», li definisce Paola Nicolin nel saggio in catalogo. La leggerezza ariosa del supporto e la natura vagante di queste forme preparano l’occhio all’apparizione delle sculture colorate che sbucano in questo spazio così brutalmente contemporaneo come un imprevisto prato fiorito. 

I lenzuoli hanno una doppia funzione strategica: da una parte separano lo spazio, dall’altra introducono a quella dimensione di leggerezza che contrassegna questi lavori di Consagra. Non è un caso che nei titoli, oltre ai colori relativi di ciascuna opera, troviamo spesso la formula “Ferro trasparente”. Le sculture infatti non sono solo sottili, ma lasciano passare l’aria nel gioco delicato di vuoti che si crea con il giustapporsi delle lamine metalliche. Sono leggere e si reggono spesso su supporti esili come dei veri steli. Sembrano un aggregarsi di petali che generano forme docili e insieme molto contemporanee. Quanto ai colori, rivelatori di una pulsione dichiarata verso la pittura, sono concettualmente i più lontani dalla tavolozza Pop: turchese, rosa, violetto, bianco, arancio, “blu Cimabue”, carminio. Colori dialoganti, discorsivi che riaffermano la natura “non autoritaria” della scultura di Consagra. Colori pastello, come di un artista che riassapora gioie infantili e si avventura negli spazi di una inedita libertà. 

C’è evidentemente un cambio di passo con la stagione precedente, documentata in mostra da lavori celebri e anche potenti come “Impronta solare” (1961) e “Colloquio fermo” (1959). Permane la frontalità della scultura, ma le opere colorate si lasciano alle spalle quel «piglio forte e diciamo pure macho» come lo definisce Andrea Cortellessa nel suo saggio in catalogo, mettendolo in relazione con una componente opposta del suo temperamento: la fragilità emotiva e una dimensione di paura spesso dichiarata: «La sofferenza mi atterrisce», confessa in “Vita mia” (l’autobiografia è stata ripubblicata da Skira). E ancora: «Sostengo la necessità dell’arte perché ho paura». 

Completa il percorso di questa mostra uno spazio dedicato alle “Città frontali”, esperienza della fine degli anni ’60, che fa sintesi delle stagioni precedenti. Riemerge la necessità di un discorso pubblico che Alberto Salvadori definisce come un tentativo di «delineare un umanesimo contemporaneo». La città è spazio amato, è «un argomento di emozioni umane». Per questo Consagra non può accettare che la scultura sia un semplice riempitivo alla progettualità degli architetti e vuole giocarsi a livello di concezione delle forme della città. Che forse proprio in virtù dell’esperienza con la scultura a colori, appaiono futuribili ma addolcite dal fluire di linee che le fanno essere molto umane.

Pubblicato su Alias, 12 dicembre 2021

Written by gfrangi

Gennaio 15th, 2022 at 10:20 am

Posted in Mostre

Tagged with , ,

Corpus Domini, un titolo che pesa

leave a comment

La scelta di ricorrere alle impronte digitali degli artisti per il manifesto e la copertina del catalogo di Corpus Domini, la mostra aperta a Palazzo Reale a Milano, suona come una chiara dichiarazione programmatica: il primo corpo con il quale si deve fare i conti è proprio il corpo dell’artista. Le impronte degli artisti viventi ci sono quasi tutte (Roberto Gober ha mandato un certificato di nascita). Per quelli che invece non ci sono più, hanno messo i loro pollici i componenti del team curatoriale. La sequenza di impronte manda un doppio messaggio. Da una parte ci dice che i corpi non sono astrazione, ma ingombrano e sporcano sempre la storia con la loro scia di fisicità. Dall’altra parte ci avverte che sui corpi oggi incombe l’invasività di un controllo sempre più pianificato. 

Nelle sale di Palazzo Reale, dove la mostra concepita da Francesca Alfano Miglietti è stata allestita, i corpi, o ciò che potentemente li evoca, hanno potuto mettere in scena una loro rivincita. Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima è un progetto di lungo corso, cullato dalla curatrice con la complicità di un personaggio unico come Lea Vergine, cioè di colei che già nel 1974 aveva esplorato l’esperienza della Body art. A Lea Vergine è dedicata infatti la prima sala del percorso, con una vetrina dove sono raccolte le sue pubblicazioni che testimoniano un’attenzione quasi militante sul tema del corpo nell’arte. Lea Vergine a Palazzo Reale aveva curato nel 1980 una mostra storica, quella dedicata all’Altra metà dell’avanguardia. È proprio grazie alla progressiva, crescente spinta impressa dalle artiste con la loro sensibilità che nel corso del Novecento il mondo culturale è tornato a fare i conti con l’irruzione dei corpi sulla scena dell’espressione figurativa: l’esperienza di Louise Bourgeois, purtroppo assente in questa mostra, ha rappresentato da questo punto di vista un passaggio capitale a partire dalla fine degli anni Quaranta, con la scelta di mettere al centro del proprio lavoro la sfera delle relazioni intime, dando loro forme poetiche, disinibite e potenti.

«Quella pensata insieme a Lea», scrive Alfano Miglietti nell’introduzione al catalogo pubblicato da Marsilio, «era “La mostra sul corpo nell’arte”, una mostra sul corpo nell’arte del Novecento, un’esposizione che avrebbe somigliato alle ricerche di entrambe, vicine e diverse. Corpus Domini nasce come progetto altro, come necessità di spostamento». Lo spostamento ha portato a orientare il progetto dall’orizzonte della Body Art a quello dell’Iperrealismo e soprattutto a dare spazio alle istanze dettate dal presente, a cominciare dall’emergenza dei corpi migranti. Si tratta di un’emergenza che ha anche delle ricadute concettuali, perché in tanti casi ci troviamo di fronte a corpi cancellati, che si palesano quindi sotto altre specie. 

Nel percorso della mostra si può ad esempio intercettare un filone di opere che parlano dei corpi attraverso gli involucri che li hanno ospitati, gli abiti in primis. In una delle prime sale ci si imbatte nella montagna nera di Le Terril Grand-Hornu, una delle ultime opere di Christian Boltanski. Le Grand-Hornu è una regione mineraria del Belgio; troviamo ammucchiati, fino a sfiorare il soffitto della sala, sotto una luce fioca, migliaia di vestiti da lavoro scuri che richiamano quelli indossati per tanti anni, ogni giorno, dai minatori. Abiti densi di corpi che hanno assorbito l’oscurità della terra. 

C’è molta densità anche nell’opera di Kimsooja. L’artista coreana è presente con quattro dei suo Bottari, fagotti fatti con lenzuoli colorati che contengono tutto il necessario per esistenze nomadi: sono i lenzuoli in cui si viene avvolti alla nascita e con i quali si viene sepolti nel momento della morte. Curiosamente anche Dayanita Singh espone dei fagotti, questa volta in fotografia: si tratta di tessuti sfumati di rosso che custodiscono plichi di documenti presi da archivi indiani. Time Measures è il titolo dato a queste opere, chiamate ciascuna a nascondere e proteggere i dati di una vita. Il muro di valigie di Fabio Mauri evoca invece abiti che sono stati drasticamente separati dai rispettivi corpi; Il Muro Occidentale o del Pianto è come un deposito bagagli ab aeternum, perché nessuno passerà mai a ritirarli. Sul muro una piccola edera rampicante stende pietosamente i suoi rami. Lo fronteggia un altro muro, costruito con bauli metallici made in Cina, dall’aspetto molto aggressivo e carcerario: al centro uno schermo mostra l’esecuzione capitale di un giovane attivista arrestato nei giorni della rivolta di Piazza Tienanmen. 

Nella sala contigua centinaia di scarpe legate da una raggiera di fili di cotone rosso “camminano” in assenza di corpi: Chiharu Shiota, un’artista giapponese che si era fatta notare con un’installazione ugualmente corale all’ultima Biennale, le ha volute tutte spaiate. Sembra un’opera nata da un tacito patto di condivisione a distanza e i fili, con quell’andamento così ordinato e lirico potrebbero simboleggiare l’aspirazione, spesso repressa, a sperimentare percorsi comuni. 

L’Iperrealismo è l’altra nota dominante della mostra e introduce il tema dell’assedio che consumismo e tecnologia hanno portato alla realtà fisica dei corpi. L’Iperrealismo taglierà a breve il traguardo di cinquant’anni di storia, essendo uscito allo scoperto a documenta 5 di Kassel nel 1972, ma la sua parabola è tutt’altro che esaurita: in mostra si va dall’opera di John Deandrea del 1971, passando per il classico Douane Hanson e approdare a Marc Sijan e Gavin Turk, tutt’e due con lavori del 2015. Un’energia manipolatoria fa irruzione invece nella scultura di Marc Quinn, interprete di inquietanti scenari del post umano con il suo uomo gravido o con la Venere metropolitana plasmata in cemento e incisa di cicatrici. 

Se un appunto si può fare a questo progetto espositivo, è quello di non avere fatto pienamente i conti con il titolo, così potente ed evocativo. Corpus Domini contiene quel genitivo che, oltre a essere fattore cardine per chi crede, è anche un fattore che innesca una quantità di ipotesi di lavoro e di suggestioni, come si può evincere dal bel testo in catalogo del cardinal Gianfranco Ravasi, come pure da quello di Chiara Spangaro. Del resto ci sono opere in mostra che possono anche essere lette in raccordo con quel titolo: lo struggente busto d’uomo di Zharko Basheski, artista macedone, è in fondo un contemporaneo Cristo agonizzante; gli organi umani ricostruiti nella fragilità del vetro e disposti sul tavolo da Chen Zen sono come commoventi reliquie di un corpo sociale che chiede un senso per le proprie sofferenze. E il continuo ritorno dei vestiti come materiali sui quali tanti artisti lavorano, richiama la veste di cui Cristo è spogliato e che viene giocata ai dadi dai suoi aguzzini. 

Quel titolo ha infatti un tale contenuto di storia e di memoria che non si può pensare risuoni neutro e non chieda di stabilire dei raccordi. Del resto il “corpo glorioso” evocato nel sottotitolo per indicare una situazione relativa al passato, nella gran parte dei casi era anche un corpo ferito, segnato da altre “rovine”. Basta entrare in Duomo per rendersene conto: come ogni anno in questo periodo, tra le navate sono esposti gli straordinari quadroni con storie e miracoli di San Carlo, iperbolica rappresentazione di una fisicità assediata da un’altra dolorosissima pandemia di oltre quattro secoli fa. Attraversare la piazza e andare a vederli è un utile completamento all’esperienza di questa mostra.

Pubblicato su Domani, 14 novembre 2021

Antony Gormley Creta / Clay, (14 elementi / elements) Courtesy l’artista / the artist e / and Galleria Continua Foto: Stephen White & Co.

Written by gfrangi

Gennaio 15th, 2022 at 10:18 am

A. R. Penck, la potenza dell’innocenza

leave a comment

L’opera da cui prende avvio la bella mostra di A. R. Penck allestita al Museo Comunale di Mendrisio è un’opera che sgombera subito il campo. “Standart”, 1969, rappresenta la sagoma sintetica di un uomo in posa simil vitruviana. È dipinta in stile graffiti con un segno nero, drastico e semplice, su una tela trattata come un muro. Penck aveva ammesso che l’ispirazione gli era venuta dai disegni visti sulle pareti dei bagni pubblici; in quei prototipi aveva poi immesso l’energia di una primitività contemporanea. Non ci sono riferimenti alla cultura figurativa occidentale, dato che la cortina di ferro, come lui ha testimoniato, era impermeabile al passaggio delle immagini. È un’opera che immediatamente richiama la grammatica visiva di Keith Haring e di Basquiat: ma in quel 1969 loro avevano rispettivamente 11 e 9 anni… 

“Standart” non è semplicemente un titolo, è molto di più. “Stand”, che sta per “presa di posizione”; la parola risuona anche come “stendardo”, quindi bandiera, vessillo di un’arte appunto tutta nuova. “Standart” è un progetto radicale, «una ricerca sulla natura dell’immagine che ne metta in luce le potenzialità di espressione simbolica», scrive Ulf Jensen in uno dei saggi del catalogo. Penck lo definisce così: «Un sistema di segni fatto in modo tale da non essere solo percepito e imitato, ma anche prodotto, moltiplicato e operativamente modificato». Per l’artista quella sua stagione nell’Est finito sotto il comunismo sovietico, era stata la stagione dell’innocenza. C’è in effetti un che di potentemente innocente nell’idea di innescare la produzione libera di un linguaggio visivo più ampio e più comprensibile di qualsiasi espressione linguistica. 

A.R. Penck era nato invece nel 1939 a Dresda. Il suo nome reale era Ralf Winkler. Nel 1968 aveva scelto lo pseudonimo ispirandosi ad uno studioso di geologia dell’era glaciale, Albrecht Penck, che aveva esplorato la stratigrafia dell’era del Pleistocene. La sua biografia corre in parallelo con quelle di George Baselitz e Gerhard Richter, ma a differenza loro aveva scelto di restare molto più a lungo nella Germania dell’Est, coltivando appunto quel suo sogno di innocenza. Un sogno che consisteva anche nel dar corpo a un linguaggio artistico alternativo al dogma del realismo socialista, capace di uscire «da una dimensione personale per abbracciare la realtà nella maniera più ampia possibile», come scrive Simone Soldini curatore della mostra, insieme allo stesso Ulf Jensen e a Barbara Paltenghi Malacrida (“A. R. Penck”, fino al 13 febbraio 2022). “Weltbilder”, “quadri-mondo”, è non a caso il titolo di una serie di opere dei primi anni Sessanta, ben rappresentati in mostra, in cui Penck comincia a elaborare un linguaggio visivo chiaro e diretto. Il suo orizzonte fin da subito è il mondo che lo circonda, che vorrebbe dotare di un modello espressivo in grado di dare informazioni attraverso la semplicità delle immagini. Con l’energia del neofita, si fa notare per opere clandestine, dal messaggio molto chiaro: “Wandbild. Das Geteilte Deutschland” (“Murale. La Germania divisa”) è un intervento realizzato nel 1962 nel seminterrato di una Casa dello studente ed è la prima rappresentazione del paese tagliato dal Muro di Berlino. Era un’esplicita sfida al potere, dove il leader del partito Walter Ulbricht veniva rappresentato come uno schiavista. 

Penck approfondisce il suo progetto “Standart” studiando la cibernetica; lo concepisce come contributo alla costruzione del socialismo, attraverso il modello di una nuova pratica artistica. Ma la crisi del 1968, con i carri armati russi a Praga, segna un punto di non ritorno. Penck viene dichiarato «artista asociale» e nonostante la grande popolarità che si era conquistato è costretto a sparire dalla scena pubblica.  

In realtà sul suo percorso paradossalmente pesò di più un riconoscimento che non questa censura. Nel 1972 infatti Harald Szeemann, che aveva avuto modo di conoscere direttamente il suo lavoro, lo aveva invitato in documenta 5 a Kassel includendolo tra le “mitologie individuali” messe in atto dagli artisti nel dopoguerra. Evidentemente si era creato un corto circuito nella ricezione del suo progetto: “Standart” non intendeva assolutamente essere la creazione di una mitologia personale ma aveva l’ambizione di proporsi come modalità linguistica libera, creativa e replicabile; una modalità al passo con i tempi, dato il progressivo prevalere della comunicazione per immagini rispetto a quella per parole. 

Per Penck si apre una nuova stagione, che passa anche dalla fatica di una crisi personale. Nel 1977 scopre la scultura, anche grazie alla vicinanza con un altro protagonista di questa stagione dell’arte tedesca, Markus Lüpertz. Come scrive Soldini in catalogo, Penck «trova una via di uscita grazie ad un pezzo di legno che tiene da tempo sotto il letto e che ora prende a colpi d’accetta». La scultura per lui è un altro modo per abbracciare la realtà: «Ho bisogno di realtà. Qui dove tutto succede davvero», dice. Le sculture sono una delle sorprese della mostra e s’impongono per questo senso di immediatezza e di rapidità gestuale trasferita però nella stabilità del bronzo. Il legno spesso fa da matrice, ma a differenza di Baselitz, Penck sceglie di solidificarlo nel metallo, per accentuarne il peso di realtà. 

Nel frattempo Penck continua ad elaborare pensieri pittorici riempiendo centinaia di quaderni di appunti visivi: in mostra ne sono esposti una ventina; altri, con un intelligente sistema di proiezione, vengono anche sfogliati, in modo che ci si possa rendere conto della coerenza che li caratterizza. L’arrivo a Ovest nel 1980 significa «la perdita della mia innocenza», come lui stesso confessò. «Dovevo trovare una mia nuova collocazione». Infatti vediamo come in “Standard West”, del 1981, la carica icastica delle sue figure sia subito chiamata a fare i conti con un caos che ne mina le radici. Per questo Penck cerca uno “Sguardo in avanti”, come sottolinea nel titolo di un bellissimo acquerello in mostra, ma resta fondamentalmente fedele a se stesso e a quella sua propensione a raccontare il mondo più che se stesso. Anche nella serie degli Autoritratti, è l’occhio sgranato, puntato sulla realtà a fare da perno. Intanto Penck elabora una sua cosmogonia nella quale continua a inglobare la storia e la politica. Esemplare il caso del grande quadro “How it Works”, dipinto in America nel 1988 in occasione della mostra alla Galleria Hofmann di Los Angeles, che suona come una potente metafora dell’aggressività del liberalismo. Invece in “The Battlefield”, tela di oltre 10 metri di lunghezza, riprende il modello dei “Weltbilder” per una visionaria e selvaggia rappresentazione del mondo nell’anno della caduta del Muro: una sorta di big bang pittorico. Nel 2013, poco prima dell’ictus che lo avrebbe costretto, all’inattività, dipinge “Aquila e serpente – pianeta nero”, quasi metafora della globalizzazione, che nell’immediatezza comunicativa dell’immagine richiama ancora l’efficacia della “Standart”.

Una parola infine per la mostra che si collega idealmente a quella dedicata nelle stesse sale a Per Kirkeby nel 2017. Si tratta di due artisti che vengono dalla scuderia del grande gallerista Michael Werner (prestatore di quasi tutte le opere esposte) e che sono stati pochissimo visti in area italiana. Anche in questo caso l’allestimento è inappuntabile e restituisce intatta l’energia e la freschezza di un artista «dalla straordinaria energia sobillatrice» come lo definisce Enzo Cucchi, intervistato da Ester Cohen per il saggio in catalogo (dedicato al rapporto tra Penck e il nostro paese e in particolare alla partecipazione a Terrae Motus su invito di Lucio Amelio). In copertina al catalogo c’è solo il suo volto in close up, senza neanche necessità del titolo. Quasi un omaggio alla sua “Standart”, pittura che non ha bisogno di parole.

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:38 pm

Posted in Mostre

Tagged with , ,

Dolore e perdono, lo stile di Louise Bourgeois

leave a comment

Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama. 

Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».

Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».

La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».

L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di  tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».

La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore. 

Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art  di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».

Pubblicato su Domani, 24 ottobre 2021

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:35 pm

Posted in art today,moderni

Tagged with

De Chirico il ritornante

leave a comment

«L’Efesino ci insegna che il tempo non esiste e che sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire». Era il luglio 1917. Giorgio De Chirico scriveva da Ferrara al grande amico Apollinaire, dimostrando di avere già le idee chiare: se la storia è sempre un grande ritorno, il suo destino sarebbe stato quello di essere un “ritornante”. Inutile affannarsi ad inventare il nuovo quando «il sogno ci mostra il passato uguale al futuro e il ricordo si mischia alla profezia». Meglio lasciarsi portare dalla navetta che attraversa indifferentemente il passato e il presente in un continuum temporale, come il suo alter ego Ebdòmero (pubblicato nel 1929). Insomma, non si può dire che De Chirico non avesse preavvertito tutti, quando nel 1968 decise di riattivare per la terza volta il motore della sua Metafisica. La prima Metafisica era stata quella fondativa, tra 1910 e 1918. La seconda era quella “riformata” tra anni Venti e Trenta, dove la visione storico-mitologica-favolosa si scioglieva in un approccio più naturalistico. La terza, la Neometafisica, ha segnato l’ultima stagione di De Chirico: il maestro ha riapprocciato i vecchi temi con mente divertita, facendo suo quel suggerimento che proprio Apollinaire gli aveva dato tanti anni prima: con «colori più ridenti» la sua metafisica ci avrebbe guadagnato.

A lungo questa stagione di De Chirico è stata liquidata con un preconcetto negativo. Ma da tempo è in corso una convinta rivalutazione, come dimostra il libro di Lorenzo Canova, esplicito fin dal titolo: “Il grande ritorno. Giorgio De Chirico e la Neometafisica” (La Nave di Teseo, 360 pag., 28 euro). 

Ci sono alcuni fattori oggettivi che hanno reso necessario un ripensamento. Nel 1966 usciva il volume dei Maestri del Colore della Fabbri dedicato al maestro. Un volume evidentemnete congegnato in casa, con prefazione della moglie Iasabella Far e una sequenza di immagini che non teneva conto dell’ordine cronologico, né delle gerarchie critiche (in copertina c’era un’opera del 1963). Per una giovane generazione di artisti quel fascicolo aveva rappresentato una rivelazione. Tra i primi a mettersi sulla scia del vecchio maestro era stato Tano Festa che aveva trovato in De Chirico un’autorevole sponda per quell’operazione di recupero di capolavori del passato, collocati dentro la struttura a schermo dei suoi dipinti. «La Neometafisica può essere considerata come una sorta di “premonizione” di una certa “bassa risoluzione” di molta arte contemporanea, non solo legata alla pittura», sottolinea giustamente Canova. De Chirico si concede infatti la licenza di prendere alla leggera il dipingere, con un’esecuzione dei quadri più libera e a volte volutamente sommaria, senza preoccuparsi di contraddire quella rigorosa disciplina evocata nel “Piccolo trattato sulla tecnica pittorica” (1928). Il vecchio maestro, il “pictor classicus”, burbero nemico di tutte le avanguardie, si ritrovava ad essere in «una singolare e probabilmente inconsapevole sintonia con il nuovo» (Maurizio Calvesi). E non sono solo i pittori-pittori ad accorgersi di lui. Giulio Paolini (proprio in un’intervista rilasciata ad Alias) aveva spiegato che «nessuno meglio di De Chirico ha saputo destreggiarsi nell’insostenibile ruolo di “artista contemporaneo” per essersi abbandonato a una trionfale caduta libera negli abissi del Tempo». Secondo Philip Guston i quadri di Chirico rivelavano una grande libertà e una capacità di rischio senza precedenti nella pittura moderna. 

Il vecchio maestro replicava e giocava con i suoi vecchi soggetti. Un atteggiamento inaspettatamente affine a quello della Pop Art. Se ne era reso conto Andy Warhol che nel 1973 aveva preso parte a New York ad un ricevimento in onore di De Chirico organizzato al consolato italiano. Nella foto scattata da Giorgio Gorgoni si vede il “ritornante” sorridere con tono un po’ beffardo, mentre al suo fianco Warhol sembra quasi in soggezione. Qualche anno dopo, in occasione della grande retrospettiva-omaggio al Moma (1982), sfogliando il catalogo Warhol avrebbe avuto un’ulteriore folgorazione: in una doppia pagina erano state pubblicate tutte le 18 repliche delle “Muse Inquietanti”. Il Pictor optimus aveva bruciato tutti sul tempo intuendo la forza intrinseca nella serialità.  

L’eclettismo di De Chirico anticipa anche il postmoderno, come sottolinea Francesco Vezzoli. I suoi “soli elettrici” degli anni 70 prefigurano le visioni del gruppo Memphis. E andrebbe anche esplorata l’importanza che il maestro ha avuto nella genesi della Transavanguardia, cioè di una pittura figurativa liberata dalla preoccupazione di rappresentare la realtà e che si riconosceva in quello «spaesamento degli oggetti» strappati dalla rete abituale di rapporti di causa effetto o di vicinanza.

Questa centralità inattesa di De Chirico (che pervade anche il linguaggio televisivo) è uno degli aspetti più interessanti del libro di Canova. Un libro che nella sua concezione cede ad un eccesso di tentazione mimetica nei riguardi del maestro. I capitoli infatti sono tutti scanditi come Stanze, nelle quali veniamo accompagnati in ripetute (e a volte anche un po’ ripetitive) immersioni nell’immaginario del maestro. Dato che “il ritornante” con la Neometafisica torna sui suoi soggetti archetipi, la costruzione del libro avanza per nuclei iconografici o tematici di Stanza in Stanza. Una delle più emblematiche è inevitabilmente quella dedicata al “Figliol Prodigo”, che è non a caso la rappresentazione di un “ritorno”. De Chirico fino al termine della sua vita rinnova l’incontro con il padre nell’abbraccio sognato; quel padre perso troppo presto e sempre rimpianto. Dopo il capolavoro solenne del 1919, nelle repliche si era andato costituendo in padre archeologo pietrificato, a volte con un ribaltamento di ruoli: era lui a essere il “ritornante” consolato dal figlio. Nella versione finale, datata 1973, il climax si addolcisce. L’impaginazione solenne ripiega su una soluzione più domestica. Siamo all’interno di una stanza, il figlio giovane riccioluto (quasi pasoliniano…) e seminudo appoggia con dimestichezza la mano sulla spalla del padre. La porta è semiaperta, dalle finestre si vede un panorama di mare come quello della Grecia natia, quella stessa terra dove ora il padre era sepolto. Appoggiato al muro si vede un esile bastone: che sia il padre questa volta il “ritornante”? Il vecchio De Chirico sembra così giocare affettuosamente con se stesso e con i propri sogni, senza nessun timore di dare una versione quasi fumettistica di un proprio capolavoro iconico. Il “pictor optimus”, per il quale il passato era uguale all’avvenire, in realtà era più che mai al passo con i tempi…

Pubblicato su Alias 17 ottobre 2021

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:31 pm

Le teste cristiane di Alessandro Pessoli

leave a comment

Con la mostra di Alessandro Pessoli i Chiostri di Sant’Eustorgio proseguono il percorso intrapreso da qualche anno per fare dialogare alcuni protagonisti della scena artistica contemporanea con questo contesto così carico di storia e di fede. Dopo Adrian Paci, Kimsooja, Stefano Arienti e Vincenzo Agnetti è la volta di un artista come Alessandro Pessoli nato a Cervia nel 1963 e che da anni ha scelto di risiedere a Los Angeles. Il titolo che Pessoli ha scelto per questo suo progetto espositivo è molto emblematico: “Testa cristiana”.

Alessandro Pessoli, Testa cristiana derisione, 2018. Photo Andrea Rossetti per Artribune

Da secoli i credenti si sono relazionati con i volti dei santi mediati dalla fantasia e genialità degli artisti; per secoli questi volti sono state presenze preziose e protettive, veri riferimenti per il cuore dei fedeli. Poi, come disse con grande sincerità Paolo VI nel celebre discorso nel 1964, quella relazione, quell’“amicizia” tra la chiesa e gli artisti si è inceppata e così anche i volti dei santi hanno iniziato a diradarsi. 

Per questo è stimolante guardare al percorso “Testa cristiana” di Alessandro Pessoli come ad un tentativo di riprendere quel discorso interrotto. L’artista non parla semplicemente di volti, ma allarga l’accezione: parlare di “testa cristiana” significa infatti mettere in campo qualcosa di più profondo, relativo ad un “pensare”, che va oltre l’aspetto fisiognomico e tocca quello psichico e culturale. I santi infatti non sono mai solo figure buone, ma sono intelligenze in azione, capaci di sviluppare, nello specifico di circostanze storiche sempre diverse, un pensiero sulla vita, sul mondo e sul mistero che li riguarda.

Quello di Pessoli è un percorso che deve realisticamente fare i conti con una memoria interrotta, come diceva Paolo VI. Riprendere quel percorso, provare ad allinearlo con l’oggi, implica perciò lavorare anche sulle ferite e sulle fratture, accettare la fatica di volti che sembrano a volte sfigurati. «Carico di tensione l’immagine, perché voglio che sia espressiva, perché per me non è pacificata», ha detto l’artista. È una tensione necessaria per far sì che questi volti e queste teste siano delle presenze a noi contemporanee. 

C’è inoltre un tocco di bizzarria a caratterizzare l’arte di Pessoli. È un tocco a cui l’artista non rinuncia neppure in questo ciclo, anche a rischio di sembrare irrispettoso. Ma come non ricordare che ai santi si è sempre attribuita una necessaria dose di follia? E don Giovanni Bosco non sosteneva forse che le teste cristiane sono piene di una strana allegria?

(Testo per il depliant distribuito ai visitatori in mostra)

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:50 pm

Posted in Mostre

Tagged with

Emma Ciceri/1. Da una schiena all’altra

leave a comment

La mano di Emma che accarezza la schiena di Ester. Lì vicino c’è la Pietà Rondanini, con quella schiena della madre ricurva sul Figlio. È davvero intenso e “necessario” il dialogo che Emma Ciceri ha instaurato con l’ultimo capolavoro di Michelangelo.

Grazie alla disponibilità della direzione dei Musei del Castello Sforzesco, ha potuto stare a lungo, a tu per tu con la Pietà, nei giorni di chiusura. Lei ed Ester a vivere in quel contesto una condizione di vicinanza che da quando Ester è nata, è diventata per loro una condizione quotidiana e inalienabile. È nata così “Nascita Aperta”: due video che vanno in simultanea, dove gli stessi gesti si rimbalzano, compiuti in casa e al museo, cioè nella “casa” della Pietà. La presentiamo lunedì proprio al Museo della Pietà (dalle 14 alle 18) dove poi l’opera resterà per un mese: il progetto è di Casa Testori, curato da Gabi Scardi. L’installazione, ha scritto Gabi Scardi, “è una dichiarazione di adesione all’esistenza in ogni sua forma, anche là dove la vita si fa insondabile”. Aggiungo che è un’opera che ha la forza di una complementarietà: è complementare alla Pietà, perché dimostra come questo capolavoro sia “necessario” alla nostra vita. “Nascita Aperta” è un titolo che oltre ad essere bellissimo contiene un paradosso: la Pietà è immagine umanissima ma di una morte. Associarla alla Nascita che ogni giorno si compie nel rapporto tra Emma ed Ester, diventa una chiave per andare in profondità rispetto a quel capolavoro. Che quindi parla di vita, nella forma drammatica e anche dolcissima di un abbraccio sconfinato.

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:36 pm

Emma Ciceri/2. La Pietà come Nascita

leave a comment

Ci vogliono ragioni profonde e anche una grande delicatezza per entrare in dialogo con un capolavoro impossibile da “circoscrivere” come la Pietà Rondanini di Michelangelo. Le ragioni di Emma Ciceri non sono molto distanti da quelle che hanno mosso il vecchio Michelangelo davanti a quel blocco di marmo. È un senso di infinità che si spalanca dentro la percezione di una finitezza, di una irrevocabile imperfezione. È quella dimensione solidale dei corpi, che in forza d’amore ribaltano la gravità della fatica e del limite in esperienza ascensionale.

Le ragioni per lavorare al cospetto della Pietà stavano dunque in una corrispondenza con quel capolavoro, vissuta e pensata. Emma si è accostata in punta di piedi, come a cercare riscontri tra la propria esperienza di madre e quella fissata, o meglio erosa, nel marmo da Michelangelo. Ha così trovato un’eco di quella dimensione imprevedibile che consiste nello scoprirsi sostenuti nel momento in cui si è sostegno: un confluire dei corpi in relazioni dove i ruoli non sono più rimarcabili, tanto che, come lei stessa ha confessato, è approdata alla convinzione che «la regia di “Nascita Aperta” dovesse essere di Ester».

Questa energia di ascolto ha trovato poi un suo corrispettivo nell’esito: il video è un lavoro che trova la sua intensità proprio nella delicatezza con cui sta un passo indietro, vela, allude, stabilisce corrispondenze silenziose. La scelta allestitiva è stata del tutto coerente con questa modalità di linguaggio: i due schermi, volutamente di dimensioni ridotte, sono stati collocati in una delle nicchie dell’Ospedale Spagnolo, protetti da una struttura a libro, appartati. E proprio per questo in profonda relazione con la Pietà.

Come Casa Testori siamo stati felici di accompagnare Emma Ciceri in questo percorso che l’ha portata ad operare all’ombra di un’opera che Giovanni Testori tanto amava. Credo infine che questa esperienza, resa possibile dall’apertura intelligente e dallo spirito di collaborazione della dirigenza del Castello Sforzesco, indichi una modalità vera e non strumentale di relazione tra arte contemporanea e opere del passato. Con tutta l’umiltà che ha caratterizzato il suo intervento, Emma Ciceri ha reso evidente come la Pietà Rondanini, capolavoro non finito e infinito, si prolunghi dentro le fibre della vita presente. Il titolo scelto da Emma allude, credo, anche a questo.

(Prefazione al volume di prossima uscita dedicato a “Nascita Aperta”)

Written by gfrangi

Ottobre 9th, 2021 at 5:32 pm

Gli albori di Schifano

leave a comment

A Roma in quell’inizio di anni 60 gli unici rimasti a dipingere erano gli operai chiamati a verniciare i selciati delle strade con strisce pedonali e segnaletiche orizzontali. Il boom delle auto costringeva le città a “ridisegnare” le proprie strade. Nel bellissimo film di Elio Petri, “I giorni contati”, uscito nella prima metà del 1962, il protagonista, un memorabile Salvo Randone, dopo aver lasciato il lavoro, si divertiva a bighellonare di notte per Roma prendendo in giro gli operai che, con pennello e secchi di vernice bianca, erano costretti a piegare la schiena per dipingere strisce regolari sull’asfalto (qui un link ad una sequenza del film con Piero Guccione nelle parti di artista-idraulico).

Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mario Schifano alla galleria La Salita, 1960

Negli studi degli artisti all’opposto si respirava una radicalità che non lasciava più spazio alla pittura. «La pittura era finita e bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo, di attuale», ha raccontato Mimmo Rotella che in quegli anni agiva con i suoi décollage, interagendo quindi con l’ambiente urbano. Come poteva vivere questa transizione radicale, questa “condizione zero” (Maurizio Calvesi) Mario Schifano, un artista che aveva la pittura nel sangue? È il tema affascinante di un libro di Giorgia Gastaldon, un vero ed esemplare esercizio di archeologia del contemporaneo, frutto di una tesi di dottorato a Udine, la cui pubblicazione è stata resa possibile grazie alla Biblioteca Hertziana- Istituto Max Planck per la storia dell’arte (“Schifano. Comunque, qualcos’altro”, Silvana, 39 euro)

Il libro scava in questa situazione cruciale che va dal 1959, anno della mostra di esordio dell’artista alla Galleria Appia Antica, fino alla consacrazione con la partecipazione alla Biennale del 1964, con un’attenta ricostruzione e risistemazione della cronologia così da rendere più chiari questi albori dell’arte di Schifano. 

Il titolo è tratto dall’unica dichiarazione di poetica che Schifano abbia mai rilasciato e che aveva affidato in forma di appunto a Maurizio Calvesi tra 1961 e 1962. «Suggerito dalla memoria lo comincio; sapendolo già lo elaboro; usando sopra la superficie: colla, carta, smalto. Lavorando copro tutto: a volte è giallo, a volte è nero oppure bianco e blu o rosso; infine come per dargli un nome e accettarlo ci segno una cifra, a volte. Questo è il mio quadro, non so se frattura con il gusto corrente; per me, comunque, qualcos’altro». Parole che avanzano per suggestioni e allusioni, ma che nello stesso tempo si soffermano sulla concretezza dell’atto artistico e si chiudono con quell’affermazione che ci parla nei termini di una necessità e anche di una irriducibilità. A quel punto del percorso Schifano aveva sperimentato con la prima personale all’Appia Antica un tentativo di aggirare la pittura attraverso l’uso del cemento, sotto l’egida di Emilio Villa. Era un tentativo poi subito abbandonato, ma quel passaggio gli aveva permesso di appropriarsi del paradigma del “quadro oggetto”. Il quadro è pensato come «oggetto autoreferenziale perché incardinato alle categorie sulle quali era costituito, cioè i vari materiali utilizzati per realizzarlo»: un fattore di coscienza che accomunava le esperienze più avanzate a Roma ma in particolare a Milano. «Un quadro vale solo in quanto è, essere totale. Alludere, esprimere, rappresentare sono oggi problemi inesistenti», sosteneva il più oltranzista di tutti, Piero Manzoni.

Mario Schifano con Emilio Villa

È proprio partendo da questa consapevolezza che Schifano si inoltra nell’esperienza del monocromo. L’esordio è alla galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani, nel 1960, con la collettiva “5 pittori Roma 60. Angeli, Festa, Lo Savio, Schifano, Uncini”. Il “quadro oggetto” è tecnicamente complesso. Schifano lavora a volte sul telaio aggettante, a volte usa la traversa per dare forma a dei dittici. Ma è il lavoro sulla superficie della tela a dare più stimoli all’artista e a permettergli di esercitare quella che Gastaldon definisce «una ricercata piacevolezza materica del dipingere». Vinavil e Ripolin sono i ritrovati a cui Schifano fa ricorso in modo sistematico per i suoi monocromi. Con il Vinavil bagna i fogli di carta con i quali copre la superficie della tela; il Ripolin è invece uno smalto dalla ricetta tradizionale, molto coprente che l’artista usa senza diluirlo con la trementina per aver un colore più corposo e denso e rendere così ben percepibile la fisicità della materia pittorica. Come ha scritto Flavio Fergonzi (supervisore al dottorato di Giorgia Gastaldon) il risultato è quello di «spingere l’osservatore a indugiare sulla vitalità pittorica del quadro».

Il flyer per la personale a La Tartaruga, 1961

Il passaggio successivo è quello decisivo del ritorno delle immagini. Anche in questo caso, pur nella sua reticenza a parlare del proprio lavoro, è Schifano a inquadrare sinteticamente la situazione con una testimonianza affidata a Nancy Ruspoli: «O uno andava nelle strade e guardava i cartelloni pubblicitari, o andava nelle gallerie a vedere i quadri informali. Stranamente per me e altri pittori era quello che si trovava all’esterno delle gallerie che ci sollecitava». È il 1961. A marzo apre la personale alla Tartaruga di Plinio De Martis. Schifano lascia trasalire sulla superficie della tela forme che sono insieme astratte e immagini tratte dall’occasionalità di quegli sguardi sul mondo. In “Roma 1961”, a bande verticali bianche e nere, dove il bianco che ha una corposità data dalle increspature della carta e dalle colature dello smalto, richiama il contesto del film di Petri. La segnaletica è un incentivo, diceva l’artista. Che concludeva: «Poi, dipingere comunque». Fondamentale punto di riferimento in questa transizione è Jasper Johns, che diventerà suo interlocutore diretto in occasione del viaggio americano del 1963 ma la cui fama era già ampiamente consolidata in quel 1961. È un rapporto che è stato indagato da Fergonzi nel suo libro sull’influsso dell’artista americano in Italia (Electa 2019, recensito su Alias da Luca Pietro Nicoletti, 15 marzo 2020). Schifano avrebbe fatta sua la lezione di pittura di Johns, cioè che «il campo pittorico, in un quadro moderno, può accogliere l’immagine solo se dichiara l’autonomia della pittura».

Su questa lezione Schifano innestò però la sua italianità, come aveva rilevato da subito Cesare Vivaldi. Evita di restare bloccato su un’interrogazione fredda sul significato del vedere e invece lascia che i linguaggi della tradizione si sovrappongano alle seduzioni della visione moderna della città. È il momento della meravigliosa fioritura che culmina nella presenza alla Biennale del 1964, preceduta dalla mostra newyorkese dello stesso anno alla Galleria Odyssia. Sulla copertina del depliant di quella personale compare un disegno dal titolo emblematico En plein air”. Un germe felice di paesaggio che esplode, per quanto trattenuto dalla disciplina di un monocromo, nei grandi quadri dipinti a New York e mandati a Venezia. «Sono bellissimi. Sono puliti e pieni di cose, saranno i più moderni e i meno modernisti della Biennale», annunciava a Calvesi nel maggio 1964. E in quelle parole si riconosce anche uno scatto d’orgoglio rispetto all’America che non lo aveva capito.

La recensione è stata pubblicata su Alias il 19 settembre 2021

Written by gfrangi

Settembre 21st, 2021 at 4:31 pm

Posted in Mostre