Robe da chiodi

Le Corbusier a Ronchamp: danzare tra le catene

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Molto bello il nuovo libro di Jaca Book sulla cappella di Ronchamp, grazie in particolare alla campagna fotografica Bamsphoto Rodella che indaga benissimo sui dettagli. Ma nel libro ho trovato alcune citazioni che è bene annotarsi, tanto intuitivamente restituiscono l’idea di “avventura” che è imprescindibile per capire Ronchamp. “Avventura” nel senso di inoltrarsi su percorsi che non si possiedono. Avventura,come un lasciarsi andare…

Prima citazione da Hans Urs Von Balthasar
«Il fatto che Ronchamp sia una chiesa, dunque un edificio con nessi di scopo fin nei dettagli, non ha impedito al costruttore di danzare, perché appartiene alla sua professione di danzare, perché appartiene alla sua professione di danzare tra le catene – e quali catene! – e di dare agli interessi più realistici una forma che sfocia nella gratuità senza scopo…
Ronchamp resta l’opera di un singolo e della sua libera équipe… non possiamo spaventarci se egli si comporta da enfant terrible nello spazio santo. I bambini mettono mano a molte cose e parecchie cadono nel nulla, ma alla fine ê loro il regno dei cieli».

Lettera di Lo Corbusier a sua mamma, 26 giugno 1955
«Mia piccola cara mamma, tutto si è svolto in modo mirabile. Tutto ê stato gioia, bellezza, splendore spirituale. Il tuo Corbu è onorato al massimo. Considerato, amato. Rispettato. Il compito era molto delicato. È la più rivoluzionaria opera di architettura realizzata da molto tempo a questa parte. Sul piano religioso, cattolico, del rito. Ora il rito è valorizzato al massimo, decantato, riportato ai Vangeli dalla mia architettura… Ma il diavolo deve tramare in un angolo, ha l’abitudine di non restare inattivo.

Discorso di Le Corbusier alla benedizione della Cappella, 25 giugno 1955
«… L’opera è difficile, minuziosa, rude, forte dei mezzi impiegati, ma sensibile e animata da una matematica totale, creatrice dello spazio indicibile… Il dramma cristiano ha ormai preso possesso di questo posto. Eccellenza, io ci consegno questa cappella di semplice cemento, plasmata forse di temerarietà, certamente di coraggio, con la speranza che essa troverà in voi come in coloro che saliranno sulla collina, un’eco a ciò che tutti noi vi abbiamo inscritto».

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Dicembre 13th, 2014 at 10:13 pm

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Servillo e l’Angelo di Gaudenzio

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È stato grande Toni Servillo davanti alla parola di Testori. Vi si è accostato non per dirla, per recitarla, per esserne strumento. L’ha presa con cautela, guardandosi dal non caricarla mai di espressioni sovrapposte. La leggeva quasi con cautela, lasciandola scorrere, quasi che quella parola avesse un ritmo suo proprio. Ogni tanto se ne allontanava, come per lasciarla respirare e depositare. Girava intorno al leggio, si voltava trasformandosi in uno del pubblico, assorbito dalle immagini del Sacro Monte che s’alternavano sul grande schermo.
Mi ha suggerito Luca Doninelli che quella di Servillo è stata una lettura mozartiana. L’aggettivo mi sembra perfetto. Mozartiana perché straordinariamente capace di andare dentro le cose, arrivarne al cuore, sempre con leggerezza.
Di Testori si leggevano soprattutto pagine del Gran Teatro Montano. Un libro voluto da Gian Giacometti Feltrinelli, un libro bellissimo in tutto, in particolare nella sua volontà di essere popolare nel formato, di essere pensato per non mettere in soggezione nessuno. Il Sacro Monte è tesoro di tutti.
Sono pagine che conquistano, come conquista la parola che ti rende immediatamente familiari mondi di cui non sospettavi la bellezza. Sono pagine che sanciscono la meravigliosa grandezza tutta orizzontale di Gaudenzio. Una grandezza alla portata di ogni sguardo e di ogni cuore. L’immagine dell’Angelo annunciante, con il primo piano del volto, sul grande schermo è un’immagine che s’incolla con tenerezza alla memoria. La forza di Gaudenzio è quella di cercare un’arte vivente, non solo vissuta. Un’arte che sembra aver di suo addirittura il respiro, il fiato.

Un secondo pensiero riguarda questi scambio tra Napoli e la Lombardia, questa speciale consanguineità dialettale, nel senso di una lingua che si ritaglia sul corpo e sulla vita. Tanzio a Napoli e Servillo a Milano. Testori ed Eduardo. C’è un fil rouge anti centralistico, una dimensione di cultura che, per dirla con Papa Francesco, odora ancora di popolo.
Grazie a Giuseppina Ca rutti per la serata. E ad Ale Frangi per la foto.

Qui alcune delle interviste rilasciate da Servillo in occasione della lettura testoriana.
Avvenire
Corriere
Repubblica

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Dicembre 3rd, 2014 at 6:41 am

Un grande premio per Giulia Zini e l’Atelier dell’Errore

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Giulia Zini disegna sul treno tornando da Monaco

Giulia Zini disegna sul treno tornando da Monaco

Giulia Zini, 18 anni, ha vinto l’Euward 6 a Monaco. È il più importante premio per l’outsider in Europa. Viene assegnato ogni quattro anni da una giuria che questa volta era presieduta da Arnulf Rainer. Giulia Zini è la star dell’Atelier dell’Errore, la straordinaria esperienza per ragazzi con disturbi mentali, guidata da Luca Santiago Mora. È la prima volta che il premio viene vinto da un italiano. Giulia l’avevamo conosciuta a Casa Testori in occasione di Giorni Felici 2014. Presentava uno straordinario disegno ed era in un video intitolato, pensate un po’, Vorrei essere Arnulf Rainer. C’è una qualità profonda nel lavoro di Giuliane più in generale nei ragazzi dell’Atelier, garantita dal metodo e da una disciplina che aiuta a non restare ostaggi delle ossessioni. Mi sembra che qui l’energia sia ben più che il frutto di un’istintività. C’è un qualcosa messo a fattor comune, che dà unità anche stilistica ai lavori, che li porta ben oltre il livello di una espressività ossessiva. È sorprendente infatti la capacità che Giulia ha ad esempio di “chiudere” i suoi disegni, di portarli a un compimento oltre il quale un segno sarebbe di troppo. C’è quindi il senso di un percorso, di un tentativo di spingersi fuori, di un’uscita da quel solipsismo in cui resta imbrigliata quasi sempre la cosiddetta “outsider art”.

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Novembre 23rd, 2014 at 11:16 pm

San Vittore, il teatro e la libertà

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Emozionante la serata al Piccolo Teatro Studio con gli attori di San Vittore Globe Theater, guidati dalla bravissima Donatella Massimilla (al centro nella foto). Un esercizio felice di libertà, dove si capisce quanto il teatro sia uno spazio concreto e reale e non semplicemente simbolico. Gli autori (Merini, Testori, Shakespeare) sono presenze, compagni veri, che con le loro creature e le loro parole danno corpo a quella libertà. È stata bellissima per questo la dedica che Peter Brook ha voluto fare agli attori, letta durante lo spettacolo:
«Le pressioni della vita creano una società senza libertà. Nelle condizioni dure delle carceri però c’è una possibilità da cogliere. C’è il tempo e lo spazio per le arti, il Teatro e la cultura per animare e nutrire lo spirito. Su tutto la profonda comprensione delle contraddizioni, dell’umanità e dell’opera di William Shakespeare che va oltre tutte le barriere». Peter Brook.

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Novembre 23rd, 2014 at 11:05 pm

Napoli e la dimensione civile dell’arte

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A Napoli con il viaggio organizzato da Casa Testori in occasione della mostra di Tanzio da Varallo e Caravaggio (visita molto bella guidata da Cristina Terzaghi, la curatrice).
Sabato pomeriggio al Museo Archeologico, per la mostra di mio fratello, grandi arazzi che danzano nel cuore dell’immenso Salone della Meridiana. I lombardi a Napoli spesso danno spesso il meglio di sé.
È l’occasione per una visita al Museo. Una visita guidata da Luca Prosdocimo, archeologo, responsabile della didattica del grande museo. Tralascio la incredibile quantità di informazioni apprese sul corpo vivo delle opere in quasi due ore di visita. Mi colpiscono invece altri aspetti collaterali solo in apparenza. Il primo: come la qualità della preparazione di chi ci guidava fosse esaltata dalla passione nel voler comunicare. È sintomo della dimensione civile che è intimamente propria della storia dell’arte, che ha in sé una necessità di esser partecipata. Condivisione di un sapere che rende più profondo lo sguardo su di noi; che fa capire chi siamo, di quale ricchezza siamo fatti, che è dimensione ben più decisiva che pensare alla ricchezza che abbiamo a disposizione.
La nostra guida ha fatto una sottolineatura che val la pena segnarsi. Riguarda le scelte di Ferdinando di Borbone, che quando si trovò a tirar fuori dalla terra l’incredibile tesoro di Ercolano e di Pompei, decise di non “seppellirlo” di nuovo in una raccolta esclusiva e privata. La frase messa a sigillo del grande affresco apologetico del re, sul soffitto della salone della Meridiana, è programmatica: “Iacent nisi pateant”, le cose d’arte languono se non sono esposte al pubblico. Ma Luca Prosdocimo ci ha fatto notare anche il senso della grande statua di Ferdinando sullo scalone, che è ben visibile anche dall’esterno del museo, e che è nell’atteggiamento di chi invita ad entrare. Il Museo quindi come spazio aperto, perché il passato continui a parlare al presente, in quanto il presente non può fare a meno di attingere e dialogare con il passato.
Sperimentare questa consapevolezza all’interno di un museo bellissimo, allestito in modo esemplare, curato nei particolari e capace di un respiro che restituisce la grandezza della storia che vi è documentata; un museo pieno di pubblico e non di “folla”, è la miglior dimostrazione che nella storia dell’arte tutto si tiene.

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Come una città meravigliosa e scassata possa dotarsi di cose bellissime e “fuori gara” è uno dei misteri di Napoli. Il riferimento è alla nuova stazione Toledo della metropolitana, incredibile se non la vedi. Il senso di profondità è stato reso da Óscar Tusquets Blanca, immergendo i passeggeri in un mare di mosaico azzurro nel momento in cui scendendo si passa sotto la soglia del livello del mare. Un mosaico di un azzurro mosso, che ad un certo punto si apre in alto con un “buco” circolare che arriva sino alla superficie, come una sorta di grande periscopio. A questo aggiungete due mosaici di Kentridge (nella foto, il particolare di San Gennaro), la sua statua in superficie con il Cavaliere di Toledo, gli interventi di Bob Wilson e anche di “prezzemolo” Oliviero Toscani, e avrete una stazione da non credere. Una città che sembra aver bisogno di quasi tutto, spiazza tutti regalandosi un gioiello di arte pubblica. Evidentemente c’è da riflettere.

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Novembre 17th, 2014 at 6:58 am

Caccia la tesoro di Klein e Fontana

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Questo “viaggio” nella mostra di Klein e Fontana al Museo del Novecento di Milano è stato pubblicato su Alias, domenica 9 novembre.

Mettiamola così: questa non è semplicemente una mostra, è una sorta di caccia al tesoro. E dato lo spirito ironico e sempre spiazzante dei due protagonisti, la cosa ci sta. L’esposizione che il Museo del Novecento di Milano ha dedicato al sodalizio tra Lucio Fontana e Yves Klein è dislocata nel percorso un po’ schizoide di questa struttura progettata da Italo Rota; un percorso che riaffiora ad ogni piano e che si conclude in una sorta di vera sala del tesoro, l’ultima, al piano terra, affacciata sui portici dell’Arengario. La mostra curata da Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti è una mostra che si distingue nettamente nel panorama espositivo strabordante e vagamente bulimico di questa fine anno milanese, in quanto esito di un lavoro di ricerca che troviamo riassunto nel chiarissimo saggio di apertura di Zanchetti e negli altri contributi che rendono il catalogo uno strumento destinato a vivere oltre l’esposizione (Klein Fontana. Milano Parigi 1952-1962, sino al 15 marzo 2015; catalogo Electa).

C’è una data d’inizio per quest’avventura che ha legato le biografie di due tra i più visionari artisti del dopoguerra. È il 2 gennaio 1957, quando nella Galleria Apollinaire di Guido Le Noci, in via Brera 4, viene inaugurata la mostra di un artista francese ventinovenne. Yves Klein per la prima volta presentava “Proposizioni monocrome. Epoca blu”, 11 monocromi non appesi ai muri, ma sospesi nello spazio grazie ad aste metalliche che li reggevano. Klein era reduce dalla folgorazione per gli affreschi di Giotto di Assisi. Scriveva questo in una cartolina alla sua gallerista parigina, Iris Clert: “Chère Iris il y a dans la Basilique de St François d’Assise des tableaux monochromes intégralement Bleus!”. A Padova, agli Scrovegni, invece aveva colto nella grande scena della controfacciata il dettaglio dei due angeli, che nella parte alta stanno arrotolando il cielo per lasciare libero campo alla visione del Paradiso. Klein a Milano è come se avesse esposto scampoli di quel cielo arrotolato. «Siamo dinanzi al BluSignore, padrone assoluto della più definitiva tra le frontiere liberate», scrisse allora Pierre Restany. Non lo capirono in molti, gran parte dei giornali lo sbeffeggiarono, solo Dino Buzzati colse nelle bizzarrie di quel ragazzotto francese spunti nient’affatto banali. Tra i pochi acquirenti ci fu Lucio Fontana (anche Giuseppe Panza di Biumo si affacciò in galleria: anni dopo ammise che il mancato acquisto di Klein era stato uno dei maggiori errori della sua storia collezionistica). In Mostra il Monochrome, ora di proprietà della Fondazione Fontana, è esposto insieme ad altri tre pezzi provenienti da quella mostra pionieristica.

«Klein ha intuito lo spazio», disse molti anni dopo Fontana, in un’intervista a Carla Lonzi, spiegando così il suo interesse immediato per l’artista francese. “Spazio” è la parola chiave di quello straordinario, libero sodalizio che sarebbe nato tra loro due. «Più in là della prospettiva, la scoperta del cosmo è una dimensione nuova», aveva sempre confidato Fontana a Carla Lonzi. «È l’infinito. Allora buco questa tela che è la base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita». Il riferimento è alla serie dei quadri con i buchi risalenti agli inizi degli anni 50: «Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce di lì, non c’è bisogno di dipingere… tutti hanno creduto che io volessi distruggere: ma non è vero io ho costruito, non ho distrutto».

Per Klein e Fontana lo spazio non è più una dimensione intrinseca all’opera, ma del tutto estrinseca. Quindi non si tratta di darne una rappresentazione nuova, ma di proiettare l’opera in una dimensione diversa. Ovviamente su tutt’e due gioca la fascinazione per le esplorazioni spaziali, che Fontana recepisce quasi con una certa deferenza verso la scienza, e Klein invece in termini più intuitivi. Fontana non teme di mettere la sua arte al traino di quel moltiplicarsi di orizzonti aperti dalle nuove esplorazioni; Klein invece rivendica una capacità antipatrice dell’artista rispetto alla tecnologia. Scrive: «Ce ne sera pas avec des rockets, des spoutniks ou des fusées que l’Homme realisera la conquête de l’espace… mais c’est en l’habitant en sensibilitè». I fatti gli daranno sorprendentemente ragione: il suo mappamondo con il globo tutto dipinto con l’IKB (International Klein Blue: il pigmento da lui brevettato) è datato 1957. Quindi anticipa di quatto anni la visione di Jurij Gagarin, cosmonauta della prima navicella spaziale, che una volta arrivato in orbita comunicò alla base quella frase passata alla storia: «La terra è blu… Che meraviglia, è incredibile».
Klein e Fontana si concepiscono come due cosmonauti dell’arte. Si muovono con la leggerezza di chi si è liberato della forza di gravità che invece continua a schiacciare gran parte dell’arte, compresa quella che si considera più avanzata (come testimoniano i giudizi drastici di Fontana su Pollock: «Pollock è un macaco tale che l’abbiamo inventato noi europei.. Voleva uscire dal quadro, però l’ha imbrattato», dice sempre nell’intervista a Carla Lonzi). Klein gioca addirittura a librarsi nell’aria nella celebre e ironica performance “Saut dans le vide” del 1960, che usò come immagine di copertina di un numero unico del quotidiano La Dimanche: la foto (un fotomontaggio in realtà) di Yves che si butta a volo d’angelo da una finestra diventa l’emblema della nuova dimensione in cui l’artista è chiamato a muoversi. Fontana, come detto, è proiettato verso quello stesso orizzonte, ma ci arriva al traino di ciò che la scienza e le nuove scoperte gli offrono: in mostra è esposto l’Atlante di Pio Emanuelli, pubblicato nel 1934, frutto delle ricerche di Zanchetti sulle fonti iconografiche di Fontana: tra quelle pagine, oltre alle fotografie delle nebulose a spirale che ispirarono le Attese, c’è ad esempio la foto del meteorite Uegit, custodito al Museo di Mineralogia di Roma e giustamente esposto in mostra, a cui Fontana guardò per la serie di sculture Nature esposte per la prima volta a Parigi nel 1961. Anche la scelta del celebre titolo seriale di tante sue opere, “Concetto spaziale” è derivato dal linguaggio della divulgazione scientifica di quegli anni.

Si diceva che la mostra è una sorta di caccia al tesoro. In effetti man mano che si avanza nel percorso ci si rende conto di quale sia questo tesoro: è la scoperta delle convergenze inattese, delle affinità tra Klein e Fontana. Non c’è mai nulla di programmatico nei loro intenti, per questo il coincidere dei loro sguardi ogni volta sorprende nella sua apparente casualità. Scopriamo ad esempio che nella celebre installazione per la Triennale del 1951 Fontana aveva “già” voluto che il soffitto fosse dipinto di blu (ne parla Marina Pugliese nel saggio in catalogo). Mentre ci sono carte di Klein che sembrano realizzate con i frammenti cosmici fuoriusciti dai Concetti spaziali di Fontana. Sull’asse Parigi Milano, i due poi condividono anche la stessa galleria in Rue des Beaux arts, gestita da Iris Clert, personaggio entusiasta, di grande audacia intellettuale, ma insieme abilissima mercante («Iris est un génie, elle a vendu mes ballons pour des ‘mijons’», disse un Fontana completamente conquistato, riferendosi al tutto venduto delle sue sculture Nature).
Si arriva così alla sala finale, in un crescendo emozionante. Qui la Vittoria di Samotracia immersa nel blu di Klein è esposta a fianco del modellino della Tomba Cinelli di Fontana, il cui angelo è una sorta di infiammata reinterpretazione della Samotracia. Le Antropometrie, realizzate facendo appoggiare direttamente i corpi delle modelle coperti di blu sulle tele (“sono loro i miei pennelli”, disse Klein) con la loro corporeità dialogano con le tessere dei monocromi. C’è il reliquiario con i pigmenti, donato segretamente da Klein a Cascia, in segno della sua devozione a Santa Rita, a cui fa eco il preziosismo del Ritratto di Iris Clert di Fontana, un fondo oro intagliato e bucato. Ed è proprio in quest’ultima sala che si percepisce con chiarezza il più sorprendente punto di convergenza tra i due: è quel movimento a pendolo tra immateriale e corporeità, tra astrazione e figurazione (categore vecchie, ma rendono l’idea), tra ambizione verso un assoluto e capacità ironica nel trasferirlo in oggetto, tra sconfessione dello statuto tradizionale dell’opera d’arte e vocazione a render sempre preziosi i propri manufatti. Il Fontana dei tagli e dei buchi si prolunga nel Fontana barocco; il Klein immateriale dei monocromi si rovescia nelle impronte di corpi delle Antropometrie. Il loro sodalizio così documentato seppur così informale, ci parla dunque di una grande libertà, di un istintivo antintellettualismo, e anche di una vera, reciproca e divertita amicizia. Come attesta quella indimenticabile foto dei due che se la ridono, il 9 novembre 1961, in occasione dell’inaugurazione della mostra “Sculptures Nature: 1959” di Fontana alla galleria di Iris Clert. Sei mesi dopo Klein sarebbe morto, tradito dal suo cuore.

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Novembre 10th, 2014 at 6:53 pm

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Bramante e quel disegno che pesa come una montagna

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20 Architettura

È il centenario della morte di Bramante. Ce lo eravamo dimenticato un po’ tutti (era morto l’11 aprile del 1514). Si rimedia con due mostre a fine anno. Una a Brera. L’altra, affascinante, congegnata con la consueta intelligenza dal Palladio Museum di Vicenza: una mostra centrata sul celebre disegno degli Uffizi in cui Bramante impostò la pianta del nuovo San Pietro. «È un semplice foglio di carta, ma pesa come una montagna», ha detto il presidente del Consiglio Scientifico del museo, Howard Burns. «È considerato il disegno più importante per l’architettura del mondo occidentale, che dopo di esso non è stata più la stessa. Siamo intorno al 1506 e nel concepire la più grande basilica della Cristianità per il Papa Giulio II, Bramante mette a punto un nuovo concetto di spazio architettonico ispirato a quello dei grandi edifici della Roma antica», ha spiegato il direttore del Palladio Museum Guido Beltramini. «È un processo per gradi, che Bramante registra sul foglio Uffizi 20 A mano a mano che esce dal suo cervello: il disegno è quindi una sorta di palinsesto, un diario di viaggio alla scoperta di quella che sarà l’architettura del Rinascimento».

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Novembre 6th, 2014 at 8:09 pm

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Cattivi pensieri su Colosseo e Pollaiolo

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Sull’idea lanciata da Daniele Manacorda di ricostruire l’arena, demolita a fine 800, nel Colosseo si sono lette tante cose, con i consueti opposti schieramenti tra chi apre all’ipotesi e chi invece vi intravvede subito illecite retropensiero di sfruttamento. Stavolta però gli schieramenti sono stati meno meno schematici. Su Il manifesto è apparso un articolo di Valentina Purcheddu che si sfila dalla posizione tenuta da Settis e Montanari, e spiega le ragioni di progettare quell’intervento per il Colosseo. Scrive l’archeologa: «Rivestire il “Grande Ignudo” è ciò che Manacorda si augura per il Colosseo ma soprattutto per i suoi visitatori, che potrebbero in questo modo beneficiare di una corretta comprensione dell’edificio per spettacoli, esplorandone quegli spazi originaria¬mente nascosti, in cui si muovevano uomini e belve, godendo altresì di una prospettiva a cielo aperto dall’arena verso le gradinate e viceversa». Mi sembra un ragionamento convincente, le darei ragione. Poi è arrivato Pallotta, presidente della Roma, a ventilare l’idea di fare anche partite di calcio nel Colosseo (per fortuna ha sbagliato le misure: un campo non ci sta). E mi è tornato il dubbio che a pensar male, come fa Montanari, si farà pure peccato ma quasi sempre si indovina….

Apre la mostra delle donne dei Pollaiolo al Poldi Pezzoli. Picolla ma ricchissima di pezzi straordinari. Una curiosità: la tavoletta con Apollo e Dafne proveniente da Washington è stata attribuita dai curatori a Piero e non al più celebre Antonio del Pollaiolo, come si vede sul sito della National. Se fosse stato di proprietà dell’Ambrosiana, avrebbero già ritirato l’opera…

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Novembre 6th, 2014 at 8:04 pm

Tanzio, Klein e la stazione Amendola

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Sono state settimane segnate da Tanzio da Varallo. Prima un pomeriggio a Casa Testori per presentare la mostra di Napoli, con Cristina Terzaghi. Con lei anche Davide Dall’Ombra ed Elena De Filippis, conservatrice al Sacro Monte, che raccontando delle cappelle tanziesche in modo molto preciso e filologico, ha rivelato dei nessi e delle scelte di coerenza iconografica bellissimi (l’esempio della porta da cui entra Barabba per il Giudizio di Pilato, che coincide con quella contigua della cappella di Morazzone: uno sgomitare che trasforma alla fine la pittura in scultura). Ma lo stupore è scattato nella sequenza dei particolari presi da vicino degli affreschi, dove si può leggere la scatenata energia di Tanzio nel cogliere sempre le figure in momenti di accensione fisica e insieme psicologica. C’è una elettricità vitale nei suoi affreschi che tracima anche nello stile e nel segno delle pennellate. Mi ero messo di lato e ho fotografato le immagini di scorcio: ma l’effetto non ne esce diminuito. Tanzio è uno che fora sempre il muro, che lo innerva di muscoli, che lo trapassa con la rapacità dei suoi sguardi.
Stessa meraviglia a Napoli, per la mostra essenziale ed esempale a Palazzo Zarvelos (la visiteremo con Cristina Terzaghi il 15 e 16 novembre prossimi): camminare per via Toledo e vedersi apparire aldilà della grande porta a vetri la pala di Domodossola, con il cielo livido e l’aria gelata delle montagne, è un’immagine indimenticabile.
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Bella anche la mostra un po’ “dinoccolata” che Giorgio Zanchetti ha organizzato al Museo del 900: la relazione tra Klein e Fontana è di quelle relazioni non preordinate, in cui affinità poetica e simpatia umana si combinano in una chimica libera e conquistatrice. Si resta conquistati da questi due che agiscono sfrontatamente, senza parole d’ordine e anche con un’inedita allegria. Il lavoro di Zanchetta è esemplare, perché mette in fila con molto ordine ma anche con una narrazione affascinante tutti i fatti e gli incroci su questo asse Milano-Parigi. Resta la fatica di un percorso, molto spezzettato perché il Museo obbliga a percorsi così. Ma è una fatica che costa poco e che vive di continui sussulti. E quando si finisce c’è rammarico perché il labirinto congegnato da quei due geni folli non ci porti ancora altrove.
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Oggi sono 50 anni dalla inaugurazione della MM milanese. Se ne ha poca consapevolezza perché il tempo ha maldestramente macinato quel progetto meraviglioso firmato da Franco Albini e da Bob Noorda. I corrimani rossi, il bullonato nero, il finto marmorizzato alle pareti, il pantone rosso con le indicazioni in Helvetica corretto: un capolavoro di misura e di equilibrio (la foto rende l’idea: è la stazione Duomo fotografata da Ugo Mulas). Per capirne qualcosa bisogna andare alla stazione Amendola, l’unica preservata e custodita secondo il progetto originario. Sembra di mettere piede in un salotto pensato però per tutti e non solo per alcuni. Niente nostalgia, ma in quell’idea di un’infrastruttura affidata all’intelligenza e anche alla capacità poetica di quei due c’era un ipotesi di sviluppo e di modernità in cui Milano poteva essere faro e che invece non è stata perseguita.

Written by gfrangi

Novembre 1st, 2014 at 12:09 pm

Paolo VI, un papa per amico

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Viene beatificato, senza rulli di tamburi rispettando il suo stile, papa Montini. Per me il più grande papa del 900. Ci sono svariati e mai banali incroci con il mondo dell’arte nella sua storia. Ne esemplifico tre.

1. Va da sé, lo straordinario discorso tenuto il giorno dell’Ascensione del 1964 nella Cappella Sistina, in occasione di una Messa per gli artisti. «Bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti». Montini ammette le colpe della Chiesa con un’intelligenza senza pari: «Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell’uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza. Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori; perciò voi non ci avete conosciuto». E poi ancora: «E – faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui -vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’«oleografia», all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate». E poi il rimprovero, affettuoso ma senza sconti: «L’arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce le date questa facilità, questa felicità e allora restiamo sorpresi ed intimiditi e distaccati».

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2. Paolo VI fedele a queste parole non ha temuto, aprendo la sezione di arte moderna dei Musei Vaticani di portare anche l’arte che fa scandalo. C’è un Papa di Bacon (vedi sopra, sono di Gianni Agnelli), nelle raccolte. Grande apertura e grande coraggio di non sottrarsi alle evidenze non comode della storia.

3. Da arcivescovo di Milano aveva promosso a metà anni 50 il più esemplare piano di costruzione di nuove chiese che io conosca, chiamando i migliori architetti e lasciando loro libertà di applicare l’indicazione data. Perché l’indicazione c’era: chiese non enfatiche, chiese aperte, chiese semplici. In pochi anni sono state costruite la chiesa di vetro di Mangiarotti a Baranzate , la Madonna dei Poveri di Figini Pollini, le chiese di Ponti (San Luca in particolare), Sant’Enrico di Gardella a San Donato. Chiese svuotate di ogni enfasi, senza effetti speciali; chiese in cui si respira anche tutta la fatica del nostro tempo; chiese in cui ancora, entrando, ci si può commuovere.

Written by gfrangi

Ottobre 18th, 2014 at 5:16 pm