Adesso che va a terminare si prova un filo di nostalgia: nostalgia per quella meravigliosa canzone che per un mese è risuonata in quel piccolo ottagono, le cui dimensioni sono inversamente proporzionali al grande carico di memoria. L’intervento che Ragnar Kjartansson (a cura di Massimiliano Gioni, progetto di Fondazion Trussardi) ha pensato per la chiesa di San Carlo al Lazzaretto a Milano aveva la grazia di una cosa immaginata e realizzata nel posto giusto, al momento giusto, e soprattutto (che è la cosa più rara) con il tono giusto.
Il posto è il cuore di quello che un tempo era il Lazzaretto ai margini della città, fuori da porta Orientale. I pilastri e gli archi sono gli stessi che si erano presentati agli occhi di Renzo nel capitolo XXXVI dei Promessi Sposi. «Il tempietto ottangolare che sorge elevato sul suolo d’alcuni gradi…», scrive Manzoni. Si è creato così un collegamento, concreto e non solo simbolico, con una stagione che ha segnato la storia e la memoria della città: il grande stemma di San Carlo iscritto nel pavimento alle spalle degli organisti-cantanti era lì a sottolinearlo. San Carlo era anche sulla pala dell’altare, mentre comunicava, in quello steso luogo, i malati di peste. Curioso il fatto che il testo di Gino Paoli evochi uno spazio senza più pareti, proprio com’era in origine questa piccola chiesa, aperta su tutti i lati perché gli ospiti del Lazzaretto potessero assistere ai riti.
Anche il momento scelto per proporre questo rito condiviso è sembrato “psicologicamente” azzeccato. Con molta delicatezza Kjartansson ha offerto al pubblico la possibilità di un’esperienza riparativa: quella per rimarginare la profonda ferita collettiva causata dalla pandemia. All’artista islandese è riuscito di intercettare con sorprendente sensibilità un bisogno inespresso, un tacito desiderio di senso di fronte all’angoscia sperimentata: la canzone di Gino Paoli è diventata così la struggente colonna sonora di questo desiderio, una preghiera laica spalancata verso “cieli immensi” e “alberi infiniti”.
Infine il tono: è il sigillo poetico all’architettura di questo progetto. È un tono profondamente poetico, trattenuto nell’allestimento, giustamente ridotto all’essenziale, rispettoso del luogo (la lucina rossa del tabernacolo segnalava il fatto che quella restava sempre una chiesa). Kjartansson ha lasciato lavorare i materiali che aveva tra le mani, permettendo loro di contaminarsi. Naturalmente il materiale centrale era la canzone di Gino Paoli, trasformata in scultura sonora, che come l’artista ha sottolineato, contiene la capacità di trasformare lo spazio, che è una «caratteristica fondamentale dell’arte». Il riferimento non è solo allo spazio “chiuso” delle case a cui siamo stati costretti nel lockdown. È lo spazio della nostra immaginazione che è chiamata a pensare un mondo che non può e non deve essere come quello di prima.
Lo annuncia già il suo nome: Briey-en-Fôret. Briey è un piccolo centro al Nord Est della Francia, cittadina un tempo a forte vocazione mineraria, circondata da grandi boschi. Qui la municipalità nel 1957 venne tentata da un progetto utopistico, per dare casa a minatori e operai delle sue industrie siderurgiche: chiamò Le Corbusier proponendogli di costruire una nuova variante dell’Unité d’habitation inaugurata nel 1952 a Marsiglia. Sarebbe stata la terza, dopo quella già in cantiere a Nantes.
L’architetto fu subito conquistato dal contesto per via di quella grande foresta demaniale che avrebbe circondato il nuovo edificio. Edificio che era già tutto nella sua testa: «Dalle finestre si vedrà l’ondeggiare degli alberi; qualche passo più in là si scende in un piccolo valloncello delizioso attraversato da un corso d’acqua: faremo un lago, un giorno. L’Unité di Briey-en-Fôret sarà davvero come il nome suggerisce».
La prima pietra venne posata il 4 marzo 1959. Nel 1961 il cantiere era concluso e 339 nuovi appartamenti attendevano i loro inquilini. Tra loro anche il futuro sindaco, Guy Vattier che ricorda così quegli inizi: «Erano appartamenti con un buon isolamento termico e fonico. Regnava una vita straordinaria, con un mix di abitanti molto diversi: ingegneri, insegnanti, operai e medici. A loro si aggiungevano gli americani della vicina base aerea della Nato, che stavano sempre con le porte aperte. Era veramente un agglomerato umano come quello sognato da Le Corbusier». Nei 17 piani dell’edificio, che era lungo 110 metri, si erano accasate quasi 1500 persone. Ogni famiglia in un appartamento caratterizzato da un colore diverso, per spaccare l’uniformità cromatica del cemento armato grezzo, elemento principe nella chimica costruttiva delle Unité d’Habitation. Avrebbero dovuto esserci anche un asilo sul grande terrazzo e un supermercato: ma i due progetti finirono nel dimenticatoio, contro la volontà di Le Corbu.
Era il primo segnale di un vacillamento che avrebbe portato l’Unité sull’orlo di un declino irreversibile. I primi a lasciare gli appartamenti (ne occupavano ben 50) furono i soldati americani con le loro famiglie, dopo che nel 1966 la Francia aveva deciso di uscire dalla Nato. Nel frattempo anche la filiera siderurgica era entrata in crisi e Briey si trovò a fare i conti con una vera emorragia di popolazione. Progressivamente altri appartamenti vennero lasciati dai loro inquilini. La situazione precipitò al punto che nel 1983 tutto l’edificio, ritenuto pericoloso, fu chiuso e gli ingressi murati. Fu presa in considerazione addirittura l’idea di demolirlo, sinché nel 1987 la proprietà passò all’ospedale della cittadina, dietro il pagamento simbolico di un franco, con il progetto di portarvi la scuola di infermieristica. Era il segnale di una timida rinascita, a cui avrebbe lavorato con intelligenza e passione un’associazione locale, Premiére Rue, nata per iniziativa di un gruppo di architetti, con lo scopo di promuovere e valorizzare il grande edificio di Le Corbu. Il peggio era scongiurato, ma tanto era ancora il lavoro da fare.
Erano stati proprio i responsabili di Premiére Rue ad invitare Peter Doig nel 1991, insieme ad un gruppo di artisti, per discutere come ristrutturare i primi tre piani dell’edificio. Doig, scozzese, nato nel 1959, oggi è uno degli artisti più quotati al mondo, prese subito a cuore il destino di quell’edificio sfortunato, rendendosi anche disponibile a lavorare, per ripulire parti di cemento dagli strati di pittura. In realtà, forse a dispetto dei promotori dell’iniziativa quello che aveva colpito Doig era una sensazione fortemente drammatica: la grande costruzione che emergeva in mezzo alla grande foresta di Briey gli appariva come un «edificio- teschio, bianco osseo, che parla con i suoi vuoti». Una sensazione che lui stesso avrebbe paragonato con quella ricevuta visitando la città-isola di Suakin, in Sudan, con le sue migliaia di piccole case crivellate dai continui bombardamenti.
Doig è nato ad Edimburgo ma è presto emigrato con la sua famiglia prima a Trinidad e poi in Canada, luoghi su latitudini così lontane e opposte che hanno allenato il suo sguardo ad orizzonti vasti e impregnati di mistero. A Briey l’orizzonte in realtà era chiuso dalla fitta cortina di tronchi: ma l’apparire al di là degli alberi della massa bianca della costruzione di Le Corbusier aveva provocato una sollecitazione visiva fortissima, dalla quale nell’arco di quattro anni, tra 1991 e 1995, avrebbe ricavato una serie di cinque grandi opere, certamente tra le più emblematiche del suo percorso: una di queste, “Boiler House” (il soggetto in questo caso è l’edificio caldaia staccato dal corpo dell’Unité), è andata all’asta questa settimana da Christie’s con un prezzo di partenza di 13 milioni di sterline.
Le Corbusier è sullo sfondo, eppure è la sua creazione che occupa lo spazio mentale di questa serie di quadri. Doig racconta di aver scoperto la forza fantasmatica di questo edificio, scattando delle immagini in bianco nero, a loro volta fotocopiate e poi montate in un piccolo album. L’idea progettuale sulla quale si erano riversati i rovesci della storia, emergeva da quelle immagini indefinite, ancora più potente, come nucleo di un’utopia ferita. «Sono rimasto sorpreso dal modo in cui l’edificio si è trasformato davanti ai miei occhi da pezzo di architettura in sentimento. All’improvviso è stata tutta emozione», ha raccontato Doig. Sospinta all’indietro, schermata dall’intricato groviglio di alberi che Le Corbusier sognava di poter vedere ondeggiare dalla finestra, l’architettura prende corpo, sviluppa appieno il pensiero da cui è stata generata, che è un pensiero aperto anche ai fallimenti. Le linee certe e bloccate di Le Corbusier (“Concret Cabin” è il titolo di tre quadri di questo ciclo) sono chiamate a misurarsi con le sfocature e l’instabilità visiva degli alberi. In questo modo Doig mette in scena l’architettura come dramma finendo con il renderle davvero onore: è una sorta di servizio che la pittura rende a quella che è sempre stata ritenuta la sorella maggiore nel campo delle arti. Ne era stato maestro Cézanne, le cui case provenzali, quante volte schermate dalla geometria degli alberi, si ergevano nelle retrovie della tela come corpi cubici, muti e senza tempo. Ma per venire a noi, è una logica che vediamo messa in atto anche nei paesaggi urbani di Sironi, dove la pittura impregna le architetture di una densità che popola la città; una logica che riconosciamo anche nella Roma di Scipione, con i suoi edifici ad altissime temperature, infiammati dagli stridori della storia. Quello di Doig è dunque come un nuovo capitolo di questa storia dove pittura e architettura giocano un duello che conosce solo vincitori.
«Non è che me la possa prendere con lui. È privo di malizia, è come un bambino, un selvaggio, con purezza di cuore. E se penso di vivere senza di lui non è possibile». Detto e fatto: il giorno dopo Enzo Mari, il “lui” in questione, anche lei, Lea Vergine, se n’è andata.
Avrebbe certamente detestato che si insistesse su simili coincidenze, ma è difficile non riandare con la memoria a quella copertina che Enzo Mari le disegnò per un libriccino che raccoglieva 25 recensioni scritte in un arco di 13 anni, quasi tutte per Alias. Una mano che stringeva un cuore, ben pulsante. Il titolo del resto andava proprio in quella direzione: “La vita, forse l’arte” (Archinto). In quel libriccino di 137 pagine l’indice dei nomi aveva ben 530 voci: la vita appunto, che stipava le recensioni di una rete fittissima di incontri, di relazioni, di persone conosciute o studiate. Anche il recente libro intervista con Chiara Gatti (“L’arte non è faccenda per persone dabbene”, Rizzoli) si chiude, per suo evidente desiderio con un lunghissimo elenco di nomi. «I nomi di quelle creature che hanno illuminato la mia esistenza con amicizia affettuosa ma anche di coloro che, per pochi secondi, mi hanno fatto costeggiare la tenerezza e la gratitudine».
Ci sono sempre le persone al centro della sua ricerca e del suo lavoro intellettuale, fin da quella mostra del 1971 quasi di esordio, Napoli ‘25/’33, in cui affrontando l’avanguardia sotto il fascismo aveva allineato una serie di bizzarri personaggi che avevano seminato lo scandalo. Nel 1980 quando le viene commissionata da un sindaco illuminatissimo come Carlo Tognoli la mostra su “L’Altra metà dell’avanguardia” al Palazzo Reale di Milano, una mostra destinata a lasciare il segno e poi richiesta a Roma e Stoccolma, la sua ricerca si era mossa soprattutto nella direzione degli incontri. Quel catalogo, che resta ancora un punto di riferimento imprescindibile, è strutturato con le schede ragionate e ben scritte delle 114 artiste scelte in quanto appartenute a vari gruppi d’avanguardia della prima metà del Novecento. L’introduzione era posizionata in fondo, e scritta in forma di diario di bordo. Iniziava così quel testo: «Pronto, parla Lea Vergine, il Comune di Milano mi ha incaricato di realizzare una grande rassegna che testimoni l’attività di pittrici e scultrici nei gruppi delle avanguardie artistiche». Il telefono era uno strumento principe. Come anche i i viaggi, per stanare artiste che spesso avevano scelto di rifugiarsi nell’ombra. Bussare alla porta, suonare ai campanelli: l’arte chiedeva sempre di varcare qualche soglia. Anche a costo di sbattere contro sbarramenti insormontabili, come le accadde davanti all’appartamento parigino di Dora Maar. Se si suonava lei staccava la corrente. Se si telefonava la risposta era questa, «Madame Dora Maar ne répond pas au téléphone».
Il metodo di Lea Vergine era chiaro: non puntava mai ad essere esaustiva su un argomento, ma piuttosto voleva ogni volta proporre delle piattaforme perché da lì poi si sviluppassero lavori e ricerche. Erano mostre pensate per spalancare percorsi, per illuminare zone d’ombra, per documentare avventure non certo per sigillarle dentro visioni critiche. Certamente aveva sperato che da quel suo lavoro sulle artiste nei movimenti di avanguardia si generassero nuove ricerche, «che si cominciasse a lavorare sul tutto». Invece si era confessata delusa dialogando con Massimiliano Gioni quando nel 2015 aveva cercato di riprendere il filo del discorso con la mostra sulla “Grande Madre”, sempre a Palazzo Reale di Milano: «Purtroppo l’ombra ha ricoperto un sacco di artiste».
La molla per immaginare quella mostra era stata una reazione umanissima di sdegno: sdegno per come venivano tratte le artiste anche quando si cercava di metterle su qualche altare. «Mi arrivavano sul tavolo pubblicazioni e cataloghi che erano censimenti umilianti. Avevo assistito a manifestazioni terribili, dove alcune donne hanno massacrato le artiste sull’altare della donnità». Per questo aveva tenuto barra dritta rispetto al criterio della qualità: «Qualunque altra discriminante sarebbe stata infamante per le artiste stesse».
C’è anche un approdo in questi suoi percorsi. Ed è sempre all’insegna di un “imparare” piuttosto che di un codificare. Nel caso della mostra del 1980, per esempio, lo studio e gli incontri le avevano fatto “imparare” (il termine è suo) che le artiste «avevano tutte ironia e autoironia, avevano visione del mondo e dell’esistenza illuminata dalla pietas, ecco, non saprei dire meglio. Una pietas che butta a mare il concetto di normalità». Nel femminile scorgeva un’energia di “smarginamento” rispetto all’omologazione, un intuito che non era tanto una forma di cultura, ma una forma di libertà che lei definiva “disobbedienza”.
E poi c’era la scrittura, un’esperienza quotidiana nella quale ha sempre riposto la massima fiducia. Scrittura come leva per costruire una consapevolezza civile diversa. Ma soprattutto scrittura come dimensione quotidiana di avventura personale, attivata come un rito ogni mattina. La scrittura di Lea Vergine è sempre precisa, asciutta, a volte divertita grazie a giravolte realizzate con eleganza ed intelligenza. Scrittura che riempie di incanto e a volte anche di invidia. Non basta però certo l’abilità per spiegarne la presa. «Si scrive col corpo, dalla testa ai piedi», aveva raccontato a Chiara Gatti nel libro intervista. «Muovo le mani sulla carta. Il tatto è imprescindibile. Devo sentire la materia della carta, devo sentirne l’odore, e devo sentire la matita fra le dita, devo poter piegare il foglio in diversi modi». Una concretezza che ancorava il lavoro intellettuale alla realtà delle cose e della vita.
Questo articolo è uscito su Il Manifesto del 21 ottobre con il titolo “L’arte di illuminare le zone d’ombra”.
Il Ritratto della madre della Galleria Ricci Oddi ha chiuso la bellissima esperienza di “Umano molto umano”, la mostra realizzata con Collezione Poscio a Casa De Rodis a Domodossola. Per l’occasione ho voluto approfondire questo nodo affascinante: la centralità della figura di Cecilia Forlani nella vita e nell’arte di Boccioni.
Cecilia Forlani era nata a Morciano di Romagna nel 1852. Lì aveva conosciuto e sposato un compaesano, Raffaele Boccioni, usciere di prefettura. Nel 1876 avevano avuta la prima figlia, Amelia. Nel 1882 era nato invece Umberto. Era nato a Reggio Calabria, perché il lavoro di Raffaele contemplava spostamenti di sede ogni due anni. Dopo Reggio la famiglia si era spostata in città del nord. Arrivati a Padova, la famiglia si era divisa: mamma Cecilia se ne rimasta con Amelia. Papà Raffaele invece aveva continuato le sue peregrinazioni, insieme ad Umberto.
La famiglia si era spaccata. Raffaele avrebbe iniziato una relazione con un’altra donna, Virginia Piacenti (da cui ebbe altre due figlie). Umberto, seppur lontano, è molto solerte rispetto alla situazione della madre, costretta per vivere a lavorare con la sorella Amelia: tutt’e due cucitrici.
È un affetto filiale appassionato quello che lo lega a Cecilia. Scrive lettere lunghissime in cui racconta alla mamma il mondo che si squaderna davanti ai suoi occhi: «e tu abbi 1000000000000000000 baci tuo Umberto», chiude ad esempio una lettera scritta da Roma. Da Parigi racconta la meraviglia stupefacente delle donne che si truccano con colori vistosi. Ai suoi occhi quadi dei quadri viventi…
Eppure mamma Cecilia era donna d’altri tempi. Donna di un altro secolo come da questa testimonianza tratta dalla bella biografia di Gino Agnese. «Mamma Cecilia era una donna semplice, all’antica, con un fisico largo da donna di paese, che dimostrava più dei suoi anni. Aveva dei capelli bianchi sempre ordinatamente raccolti sulla testa, e la vediamo spesso indossare vesti lunghe e coprirsi le spalle con scialli: quasi più nonna che mamma. Certamente il suo portamento non si conciliava neppur lontanamente con l’immaginario futurista che si stava facendo largo nella testa di Boccioni».
Quando nel 1910 la sorella Amelia si era sposata con Guido Callegari e aveva dovuto traferirsi a Feltre dove lui insegnava, Umberto è molto preoccupato per la mamma che resta sola (abitava in corso Genova a Milano). «Per di più c’è mia madre e a parte il suo ben comprensibile dolore resta in me il cruccio di lasciarla solo con mezzi scarsi, che ora non sono più in grado di integrare», scrive invece in una lettera alla vigilia della fatale partenza per militare.
Insomma un’attenzione costante per questa donna doppiamente fondamentale per la sua vita. È figura centrale dal punto di vista affettivo, ma è anche sorprendentemente figura chiave per il suo percorso artistico. È straordinaria la silenziosa complicità che si crea tra Umberto e Cecilia, tra una donna dell’altro secolo e un giovane audace protagonista del nuovo secolo. Umberto ha decine di avventure amorose, alcune anche di intensità folgorante (come quella con Sibilla Aleramo), ma non mette mai in conto di avere una relazione stabile. C’è sempre mamma Cecilia al centro dei suoi equilibri privati.
Boccioni nell’arco di poco più di 10 anni di attività creativa dipinge ben 62 ritratti della madre. Si può spiegare pigramente la cosa con l’agio di avere una modella sempre a disposizione. Ma è una spiegazione che in realtà aggira la questione.
Boccioni ritrae la madre in ogni situazione, mixando quasi sempre una tensione affettiva con una tensione sperimentale a volte anche violenta. Cecilia si concede al
Figlio, senza riserve. Si fa ritrarre nella quotidianità mentre cuce o mentre è a letto malata (1908). Oppure accetta di posare con la schiena nuda, seduta su una sedia, quasi fosse una prostituta (è Boccioni a confessarlo). E la sua schiena diventa territorio per una sperimentazione pittorica che fa esplodere di energia nuova la compostezza della tecnica divisionista. Il titolo è “Controluce” (1909): c’è, anche se non la si vede, la finestra, da cui entra la luce e da cui tra poco entrerà l’energia della modernità.
Anche nelle “Tre donne” (1909-10), la finestra non la si vede, anche se la luce che entra sembra cucire le figure, nella trama di quei veli da vestali: è il “cerchio magico” di casa Boccioni, con la mamma, Amelia e sul retro, quasi un po’ defilata, Ines, la ragazza venuta dal nulla, l’unica donna per la quale Boccioni abbia avuto pensieri che andassero all’al di là dell’appassionata avventura.
Nel 1911 il nuovo erompe, il fuori entra nello spazio intimo della casa: la mamma è affacciata al balcone: sotto, nella strada, la città cresce, si alza, freme. È la vita moderna che travolge i confini, anche quelli del quadro. La mamma, con il suo corpo dell’altro secolo, si sporge su quella scena del secolo nuovissimo, ne resta contaminata, quasi inglobata. Il futuro le ronza attorno e lei se ne lascia avvolgere.
Si potrebbe scambiare tutto questo per un crescendo di eccitazione modernista. In realtà Boccioni sta puntando ad altro, e il corpo della madre diventa decisivo proprio in questa prospettiva. Il 1912 è l’anno del quadro “colossale”, dipinto nello studio di via Adige 23 (lo si riconosce dalla ringhiera del balcone), “Materia”. «Capolavoro ostico e stupendo», lo definisce Gino Agnese. La madre da alle spalle alla finestra. La città che sale ha ormai invaso con le sue dinamiche e la sua energia lo spazio interno. La frenesia dinamica si costituisce in monumentalità: la madre è una sorta di “grande madre” le cui forme assorbono quelle del paesaggio urbano che l’avvolge. È un quadro che ritrova anche un perno, nelle mani intrecciate, che giganteggiano al centro. La madre generatrice della vita – della vita specifica di Boccioni – sembra porsi anche nume tutelare, generatrice della novità della sua pittura. Attorno tutto può esplodere senza finire in un nulla, proprio perché c’è quel perno.
Materia (nel titolo risuona l’affinità con “mater”) sembra un quadro di non ritorno. Il “quadro” come oggetto, come spazio ha raggiunto la massima potenzialità. Per andare oltre ci vuole altro. Boccioni perciò si dà alla scultura, nel nuovo studio di Porta Romana 135. Il passaggio avviene sull’idea dell’“Antigrazioso” (1912-13), prima quadro poi appunto esploso in scultura. È ancora la madre che si presta a questo rovesciamento estetico, per cui tutti i canoni della tradizione vengono messi alla berlina in nome di un’altra bellezza, che è energia in azione, che è terremoto di forme, frattura rispetto ad ogni cristallizzazione ideale. Il quadro si fa scultura. E la scultura si fa somma di altre dimensioni: “Testa + casa + luce” è il titolo del lavoro purtroppo distrutto; un’opera che ha l’energia di un ordigno nell’attimo del suo esplodere. La testa, ça va sans dire, è quella di Cecilia.
È lei che sta al gioco del figlio, e assiste anche divertita alle sue spericolate peripezie: stupenda la foto in cui la vediamo ridere più che sorridere, nello studio, davanti al gesso di “Forme uniche della continuità dello spazio”. Ride alle sue spalle anche Umberto, felice per le nuove frontiere attraversate…
Il finale è all’insegna di una ricomposizione che è solo un indizio di un nuovo che non ebbe tempo per farsi realtà. L’acquarello è del 1915, c’è la finestra, c’è l’interno con mamma e sorella, e c’è la vibrazione di un “già ma non ancora”. Boccioni è inghiottito dalla follia bellica che lui stesso sposa. Dipinge il ritratto a Ferruccio Busoni tra una chiamata al fronte e l’altra. Scrive dal fronte al musicista: «Inutile dirle quanta gioia riconoscente mi abbia data la sua lettera e quanta tranquillità abbia dato alla mia vita l’invio delle 2000 lire a mia Madre! Grazie! Tutto questo periodo della mia vita è sotto la sua influenza e a Lei devo la pace e la calma con le quali posso sopportare questa vita terribile».
Ha anche il tempo per un’altra travolgente storia d’amore, con Vittoria Colonna, nobile romana conosciuta sulle sponde del Lago Maggiore in casa di amici comuni. Il 16 agosto del 1916 la caduta da cavallo fatale, che la madre nella sua premura aveva quasi presentito. «Ti lascio colla raccomandazione di non essere imprudente quando andrai a cavallo perché tu meglio di me saprai che le bestie sono capricciose. Ti bacio lungamente con tutto il mio affetto Tua mamma», aveva scritto Cecilia nell’ultima lettera.
Prima di partire per Verona, Umberto si era preoccupato di firmare le sue opere perché la mamma in caso di difficoltà potesse venderle. Premuroso fino all’ultimo, questo figlio avventuriero del nuovo secolo. Aveva condiviso la sua preoccupazione anche con Vittoria, che dopo la morte di Umberto si era presentata a Cecilia con un assegno in mano, come ad eseguire il mandato di quell’uomo che aveva pazzamente amato.
Cecilia visse ancora 11 anni, senza però riprendersi dalla morte del figlio: rimase muta e immobile, assistita da Amelia, che le dedicò una frase piena d’amore sulla lapide del cimitero di Verona, dove madre e figlio riposano fianco a fianco.
Se la vita finisce, ma l’immaginario corre. E Boccioni ci lascia con questa visione profetica: «Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più. La sua immobilità sarà un arcaismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé. I colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi e le opere pittoriche saranno vorticose composizioni musicali di enormi gas colorati, che sulla scena d’un libero orizzonte commoveranno e elettrizzeranno l’anima complessa della folla che non possiamo ancora concepire».
Una Milano piena di pudore, dall’aria nebbiosa e dai colori smorzati. Una Milano dove le persone non hanno tempo né testa e per mettersi in posa, ma camminano rapide su quei selciati perennemente umidi. Comincia così la bella mostra che il Castello Sforzesco ha voluto dedicare a Cesare Colombo, fotografo e testimone devoto e puntuale di “un’altra” Milano possibile. Sono immagini precocemente a colori, scattate nel 1956, dove il colore è usato non come espediente spettacolare ma come strumento per calarsi nell’aria della città. «Il colore può essere usato come un elemento ulteriore di informazione senza che diventi orpello o una violenza visiva», annotava Colombo in uno dei suoi tanti scritti sulla fotografia, scritti sempre regolati da una grande coerenza, dove estetica e morale si trovano sempre perfettamente allineate.
Milano, o meglio “quella” Milano, è l’orizzonte amato e indispensabile di Cesare Colombo. Una città che coincide con una visione della vita, del lavoro e anche dell’arte. «Lo stile dei milanesi è quello di essere aziendali anche in arte», scriveva Giuseppe Turroni negli anni 50, presentando il Gruppo dei Navigli, una delle tante esperienze collettive a cui Colombo aveva partecipato. Milano è il terreno dal quale scaturisce anche una precisa concezione della fotografia a cui restare fedeli per tutta la vita. La fotografia è testimonianza civile, è strumento di conoscenza, indagine sull’umano, agente di memoria capace di attivare discussioni sul presente; è volano di partecipazione. Soprattutto è sguardo oggettivo sulla realtà. Con la stessa precisione si può anche dire cosa la fotografia non dovrebbe essere: esercizio estetico, orpello visivo, spazio per ambiguità poetiche, pratica di evasione. Il fascino di Colombo sta proprio in questa sua determinazione nel tracciare il perimetro, da cui deriva anche una idea precisa del compito a cui è chiamato.
La fotografia per Colombo è davvero una fede fondata, come aveva scritto Angelo Schwartz, sulla «forza espressiva del documento ottico che non ha bisogno di forzature tonali o elaborazioni in camera oscura». La fotografia per Colombo è un esercizio costante di antiretorica: la mostra milanese si adegua perfettamente a questo imprinting. Allestita nello spazio della Sala Viscontea, prevede sulle due lunghe pareti di quasi 30metri il flusso delle fotografie, per la gran parte entrate a far parte delle Civiche raccolte comunali per decisione delle figlie di Colombo. Al centro, Italo Lupi, che ha firmato l’allestimento, ha invece concepito un doppio tavolo basso che attraversa tutto lo spazio: da una parte c’è la biografia di Colombo, dall’altra invece una selezione di scritti suoi e su di lui. Nel presentare in catalogo il progetto espositivo Lupi spiega di aver voluto ottenere «lo specchio fedele di un grande fotografo, di un vero intellettuale con il quale era dolce e bello lavorare e ascoltare le sue parole di affilata ironia».
La mostra su Colombo è insomma una mostra in pieno “stile Colombo”: sobria, precisa, appassionatamente documentaria, curata da Silvia Paoli, conservatrice del Civico archivio fotografico del Castello Sforzesco. Il suo saggio in catalogo è esemplare nel voler restituire cronachisticamente la parabola del fotografo. Ma è proprio tra le pieghe di questa sequenza ricchissima di mostre, di interventi pubblici, di scritti, di commissioni private e qualche volta pubbliche che emerge con nitidezza e affidabilità la visione di Colombo.
Da questa sequenza emerge ad esempio l’intelligente pragmatismo dell’uomo e del fotografo. Pur essendo schierato a sinistra, Colombo non vive mai questa appartenenza con schematismi ideologici. Ad esempio il suo rapporto con il mondo industriale non è mai dettato da un comprensibile opportunismo, visto che si trattava del più importante committente di progetti fotografici. In Colombo prevale invece una convinzione tutta milanese che l’industria sia una espressione di quella cultura del “fare” di cui lui stesso si sentiva figlio. In particolare negli anni 80 si concepisce come “fotografo d’industria”, curando anche due importanti progetti come la mostra milanese “Fabbriche in posa” e quella fiorentina “La fabbrica di immagini. L’industria italiana nella fotografia di autore”: quest’ultimo titolo evidenzia un’intelligenza di approccio, che non nasconde la destinazione a fine di marketing che spesso caratterizza questo tipo di produzione.
Ma se lasciamo parlare le immagini, è difficile non scorgere una simpatia naturale nello sguardo di Colombo nei confronti del mondo del lavoro. La sua foto della Torre Galfa (1968) ripresa dalle finestre del Pirelli, con quella geometria ordinata di persone sorprese in piena operatività, è diventata, come aveva scritto Corrado Stajano, «l’icona della città lavoratrice». È di 10 anni prima una foto ancor più emblematica: un gruppo di dipendenti ascolta gli auguri della Direzione alla vigilia di Natale. In primo piano ci sono le fette di panettoni per il brindisi. È un agglomerato umano assolutamente milanese, facce scolpite dalla cultura del lavoro, che Colombo registra senza sovrascritture.
Del resto la sua idiosincrasia verso la fotografia come disciplina creativa, lo portava a considerare la sua attività in termini più “terra terra“, cioè di semplice lavoro. Di creatività c’era sempre bisogno, ma, come lui precisava, andava intesa «in senso non estetico ma comportamentale». Nell’ambito del “comportamentale” ad esempio rientra «la grandissima curiosità umana» che Corrado Stajano vedeva come origine del suo lavoro di fotografo (un lavoro, aggiungeva, «privo di vezzi e velleità formalistiche»).
In un’intervista rilasciata poco tempo prima di morire nel 2014, Colombo confessava di aver dedicato tutta la vita «senza rimpianti alle immagini fotografiche». E poi aggiungeva: «Cosa non frequente, più spesso a quelle degli altri che non alle mie». Infatti è stato continuo e formidabile il suo lavoro di collegamento e di stimolo nei confronti di tutto l’ambiente fotografico milanese. Un impegno culminato con la grande mostra del 1977 alla Rotonda della Besana intitolata “L’occhio di Milano”, da lui curata per conto del Comune. La mostra raccoglieva lavori solo di fotografi milanesi di nascita o di adozione: 400 lavori scelti dagli stessi autori (assenti «i fotografi che mettono in scena la pubblicità, la moda, l’arredamento, l’erotismo»). La risposta del pubblico fu clamorosa in termini anche numerici, a conferma di una delle convinzioni cardine di Colombo: che la fotografia è strumento di partecipazione e di costruzione collettiva. «Un secondo occhio» indispensabile «per completare il volto della città», scriveva nell’introduzione del catalogo da lui seguito anche editorialmente con lo studio MID.
Ma Colombo ebbe modo di occuparsi anche con grande finezza di analisi e di scrittura di altri colleghi non milanesi (e dal linguaggio molto diverso dal suo), come accadde su Abitare per la morte di Mario Giacomelli o per la grande mostra reggiana dedicata a Luigi Ghirri, con un intervento pubblicato proprio su Alias nel 2001, diventato occasione per riflettere sul ruolo di Ghirri e sul «suo sistema visivo» che aveva generato uno spostamento dall’osservazione diretta della realtà alla riflessione critica sulle modalità di rappresentazione della realtà stessa.
Uscendo dalla mostra un ultimo inevitabile pensiero riguarda Milano, oggi così diversa, così città vetrina. Ci si chiede cosa sarebbe stata Milano se si fosse mantenuta fedele, pur con tutte le sue contraddizioni, a quell’idea di città che Colombo ha indagato, rappresentato e amato per tutta la vita. Ma un pensiero come questo è la dimostrazione che la sua fotografia continua ad essere un fattore attivo di stimolo e di riflessione.
«Donne come la Maria Brasca vincono la vita con il sentimento (ti vogliono bene e basta; questa è la loro verità)… dentro di loro di vitale e di robusto; anche la Valeri ha dentro qualcosa di rozzamente vitale, per questo ho scritto la commedia pensando a lei. È l’unica attrice italiana che sia capace di dire “si sieda e aspetti un momento” senza strascicare le parole come un’attrice di accademia. Nella prima scena d’amore, bisogna vedere come si lascia andare, con quale calore parla al suo Romeo, come lo domina, lì, seduta su un prato».
Così diceva Testori della sua Maria Brasca e di Franca Valeri che l’aveva portata in scena. Mi piace ricordare questo passaggio il giorno in cui la Valeri compie 100 anni: è nata a Milano il 31 luglio del 1920, con il nome di Franca Nursa. Con quel nome aveva di fatto esordito a teatro nel gennaio del 1948 rappresentando “La Caterina di Dio”, un dramma sacro scritto da Giovanni Testori, e oggi perduto. Umbro Apollonio, testimone di quella messa in scena, ricordava una Franca Nursa-Valeri «esangue ed arsa, nell’abito bianco della domenicana». Il cambio del nome le venne suggerito da Silvana Mauri, data la sua passione per la poesia di Paul Valery. Nel 1960 è quel nome d’arte che campeggia sulle locandine del Piccolo, per la prima di Maria Brasca (pubblicata da Feltrinelli all’interno dei Segreti di Milano). «Guarda cos’ho scritto per te», le aveva detto Testori, incontrandola un giorno a Parigi dove la Valeri allora recitava. Nel frattempo lei aveva già conosciuto il successo nel cinema (“Le luci del varietà” di Fellini) ma soprattutto era nota come star della radio con il personaggio della “signorina snob”, che Testori adorava e che a tante volte, divertendosi, imitava. L’esordio della Brasca con la regia di Mario Missiroli avvenne il 17 marzo 1960 al Piccolo Teatro diretto da Paolo Grassi. Fu un grande successo per lei, che amava profondamente quel personaggio, “ritagliato” sulla sua persona. «Non è una stratega. Non è neanche una povera illusa, perché in fondo ci riesce… è una cocciuta, fissata: vuole ottenere. È uno di quei personaggi che lavora: è sostanzialmente ottimista», ha raccontato l’attrice nel 2012 a Laura Peja, la studiosa che ha scritto un libro sulla vicenda della Maria Brasca (Scalpendi editore). «È stato molto bravo Testori a tracciare questo tipo di ragazza milanese, di quelle sole, molto sole anche se di buona famiglia, che però sono testarde se si mi mettono in testa una cosa…». In fondo pochi autori come Testori hanno creduto tanto nella forza umana delle donne…
Marzo 1961. Gerhard Richter aiutato da un amico sale su un treno della S-Bahn, la rete urbana di Berlino, e passa ad Ovest insieme a Marianne Eufinger, familiarmente Ema, la donna con cui si è sposato nel 1957. Non è una scelta dettata da ragioni politiche ma da un istinto artistico: nel 1959 visitando Documenta a Kassel aveva avuto la chiara percezione che solo in un contesto così avrebbe trovato stimoli per dire qualcosa di nuovo con la pittura. A Est aveva raccolto ottimi riconoscimenti, ma quella per lui era ormai una strada morta. Ad agosto di quell’anno veniva alzato il muro di Berlino: le porte alle spalle gli si chiudevano in ogni senso. Non sarebbe più tornato nella sua Dresda fino al 1986.
Richter arriva in Germania Ovest e si costringe ad azzerare tutto: tra le accademie possibili sceglie quella di Düsseldorf, la più viva ma anche la più lontana da ciò che fino a quel punto lui era stato. Proprio in quel 1961 Josef Beuys prendeva la cattedra di Monumental Sculpture. Richter viene iscritto prima alla classe di Ferdinand Macketanz e poi a quella di Otto Götz. Sono anni cruciali e anche drammatici per quello che oggi viene definito il più grande tra gli artisti viventi. Anni che sono diventati anche soggetto di un film, “Opera senza autore”, uscito nel 2018 e arrivato da poco sia su RaiPlay che su Amazon Prime. Il regista è Florian Henckel von Donnersmarck, lo stesso che con “Le vite degli altri” nel 2007 aveva vinto il premio Oscar per il miglior film straniero. Nel frattempo è uscito un volume monumentale su Richter, edito da Prestel e curato da uno storico dell’arte tedesco, Armin Zweite (“Gerhard Richter. Life and Work”, 2020, 95 euro, 480 pagine), dove proprio ai primi anni di Düsseldorf viene dedicata un’attenzione particolare.
Quando Richter si iscrive in Accademia ha quasi 30 anni, per vivere è costretto a fare lavoretti e a ricorrere all’aiuto del suocero, Heinrich Eufinger, ginecologo, un personaggio il cui passato, pesantemente coinvolto con il nazismo, non era noto all’artista: è proprio questo il tema al centro del film, girato a partire dalle rivelazioni contenute in una biografia non autorizzata di Richter uscita nel 2005, scritta da un giornalista tedesco, Jürgen Schreiber (la si può leggere in traduzione francese, edizioni Les presses du réel).
La determinazione con cui Richter affronta questo azzeramento è feroce. Non vuole concedere nulla a ciò che fin lì era stato. Armin Zweite nel libro parla di un “periodo di riorientamento”, in dialogo con compagni di corso che avrebbero segnato la sua storia, Sigmar Polke su tutti. In realtà dalle sue testimonianze e dai suoi scritti il “turning point” risulta segnato da una forte inquietudine. «Esistere significa quotidianamente lottare per la forma e la sopravvivenza», annotava nel 1962. La lotta nel suo caso era quella di non cedere al virtuosismo pittorico di cui aveva pur dato notevole prova negli anni che ora aveva cancellato dalla sua vita. «Odio lo stupore della capacità», scriveva sempre in quegli anni. «È troppo facile lasciarsi distrarre dall’abilità manuale e dimenticare invece l’immagine». Proprio l’immagine, la più casuale e banale, si presenta come il punto di svolta. Nel libro di Zweite questo passaggio è documentato con molta precisione. “Table” (1962), il quadro a cui Richter nella sua precisione catalogatoria assegna il numero “1”, è ispirato da una pagina di “Domus” con la foto di un tavolo allungabile disegnato da Ignazio Gardella. Del tavolo resta solo il piano bianco, che prende tutta la larghezza della tela e lievita nello spazio; l’aspetto è quello di un monolite “bombardato” da una cancellatura di pittura selvaggia. Istintivamente vi si può vedere il segno di quella lotta a cui lo stesso Richter faceva riferimento. A posteriori l’impressione è quella di una genesi, di un parto avvenuto: un nuovo inizio al quale conferire tutti i crismi dell’ufficialità con quel numero “1”. È l’avvio di una sequenza straordinaria di quadri realizzati a partire da semplici foto amatoriali o prese da giornali. La pittura è chiamata ad obbedire ad un già esistente, a sgravarsi da ogni soggettività. «In pittura, pensare è dipingere», «i miei quadri sono più intelligenti di me»: sono due sentenze che ricorrono spesso negli scritti e nelle interviste di Richter e che riescono a rendere l’idea di quel varco che gli si era aperto davanti, proprio in virtù di questa pratica da nuovo amanuense. In realtà nello spazio reso così sottile alla fine fa breccia potentemente la storia.
La vicenda di “Aunt Marianne” (1965) è emblematica. L’opera prende spunto da una foto di famiglia scattata in occasione di una festa, nel giugno 1932. Si riconosce la zia Marianne, sorella di sua madre, che tiene in braccio il piccolo Gerhard, di appena 4 mesi. Proprio la vicenda di Marianne è al centro della biografia non autorizzata (ma molto avvincente) di Jürgen Schreiber. La ragazza, che allora aveva 14 anni, era affetta da crisi di schizofrenia ed era finita negli ingranaggi della tragica macchina messa in atto dai nazisti per la purificazione della razza ariana, prima attraverso la sterilizzazione e poi con vere eliminazioni di massa. Marianne venne costretta a ricoveri forzati per lunghi anni in ospedali psichiatrici, in condizioni spesso terribili. Nell’ultimo, quello di Arnsdorf, aveva trovato la morte il 16 febbraio 1945 (quell’anno morirono il 67% dei pazienti dell’ospedale): ma proprio ad Arnsdorf lavorava in posizione di responsabilità Heinrich Eufinger, il futuro suocero di Richter, ginecologo, tristemente specializzato nella pratica delle sterilizzazioni. L’artista era totalmente all’oscuro di questa tragica coincidenza, anche perché Eufinger dopo la guerra si era abilmente riciclato, salvando la moglie del comandante russo del campo di Mühlberg, a rischio di vita per un parto ad alto rischio. Aveva avuto nuova carta d’identità e si era trasferito ad Ovest. Marianne e la sua vicenda avevano lasciato un segno profondo in Richter, tanto da immaginare il quadro come una maternità. “Mutter und Kind”: con questo titolo venne infatti presentato nel Padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia del 1972.
Tra 1963 e 1966 Richter continua a lavorare sui “photo-paintings”; si riconosce nella definizione di artista pop, segue con interesse gli sviluppi di Fluxus, espone con Polke, Lueg e Kuttner in un negozio abbandonato di Düsseldorf, con una mostra in stile neo dada, presentandosi loro stessi come opere d’arte. La pittura è il cuore del suo lavoro, ma, come sottolinea Armin Zweite, per lui è qualcosa concettualmente molto vicino ad un “ready made”. In realtà iniziano ad accorgersi di lui amanti della pittura; e tra i più solerti ci fu Giovanni Testori. Tra le carte dello scrittore, in corso di archiviazione a cura di Davide Dall’Ombra, è stato trovato un piccolo dossier del 1968 con un elenco di opere di Richter, e relative fotografie, sulle quali Testori aveva messo gli occhi. Quasi tutte venivano dalla galleria Heiner Friedrich di Monaco, che in quegli anni stava promuovendo la nuova arte tedesca e dove Richter aveva nel 1966 esposto i suoi “Farbtafeln”, semplici campionari di colori, a ribadire l’eterogeneità delle sue strategia artistiche. Nel dossier arrivato a Testori erano indicati i prezzi, davvero inimmaginabili rispetto alle quotazioni di oggi: i valori non superavano i 3.500 marchi, che equivalevano a circa 600mila lire. Nonostante lo scrittore avesse messo le crocette sulle opere scelte e conteggiato anche i costi di trasporto, per motivi che non conosciamo l’acquisto non andò in porto. Ma è un episodio indicativo di un reciproco trasversalismo, di cui non ci resta che immaginare i possibili affascinanti esiti.
Il 5 luglio Andrea Bianconi sale sulla vita di Cima Carega, per portare la sua poltrona “to have an idea”. Mi ha chiesto di comparire come curatore di questa sua impresa. L’ho fatto più che volentieri, regalandogli queste parole.
Poltrona etimologicamente ha la stessa radice di poltrire, e verrebbe da dire che poco ha a che vedere con lo spirito della montagna. Poltroni sono coloro che furbescamente si defilano da una fatica, come ad esempio quella del salire. Tanto più se il salire dovesse comportare di caricarsi proprio una poltrona sulle spalle… C’è come sempre un qualcosa di surreale nelle performance immaginate da Andrea Bianconi: azioni pensate per rovesciare il punto di vista sul mondo. Intuizioni venate di bizzarria e insieme di idealismo. Questa volta Bianconi ha voluto candidamente smantellare quell’ossimoro: insediare una poltrona sulla cima di una montagna. La montagna scelta ha a che vedere con il paesaggio della sua vita: la Cima Carega si staglia all’orizzonte, a poche decine di chilometri in linea d’aria da Arzignano. È un paesaggio fisico che probabilmente è diventato anche paesaggio mentale: possiamo immaginare che nei sogni notturni di Bianconi bambino quella montagna sia stato teatro di chissà quali avventure. Dato che un artista poco o tanto resta sempre bambino, i sogni di Andrea oggi non sono molto diversi. E tra i sogni c’è stato forse anche quello di fare della montagna un prolungamento dei propri spazi abituali. Scorrendo le foto di artisti nei loro studi, capita tante volte di sorprenderli in poltrona ad esaminare (o a pensare) i propri lavori in progress; così ci piace immaginare Bianconi che dall’alto della Cima Carega osserva le idee che volteggiando libere nello spazio vasto si articolano in forme mirabolanti.
Ed eccoci al punto: c’è una ratio sorprendentemente chiara nel progetto di Bianconi. Se le idee sono il patrimonio più prezioso (patrimonio davvero amico) per lui come artista, è chiaro che dovesse metterle nelle condizioni migliori per generarsi e moltiplicarsi. La poltrona, come stato di calma, offre una condizione ideale. Per questo le aveva disseminate per Bologna a gennaio, come opportunità di pausa pensante offerta a tutti. Ora ha immaginato questo upgrade: portare in alto la poltrona come si trattasse di un rito celebrativo. Consegnarla allo spazio rarefatto della montagna perché la custodisca e lei, da lassù, possa irradiare l’aria sottostante con le sue emissioni generose e positive. Questo spiega il valore simbolico del farsi carico della poltrona, che infatti verrà portata sulle spalle dai vari componenti del Durona Team, che ogni 10 minuti se la passeranno. Una volta arrivata lassù, troverà casa nel rifugio Fraccaroli, poco sottostante la cima. A quel punto Bianconi potrà dimostrare come anche l’etimologia sarà stata smentita: la poltrona si svela come spazio abitato da vibrazioni. Spazio eccitato che non “poltrisce” affatto. Antenna dalla forma imprevedibile, che emette segnali e li distribuisce a chiunque si voglia sintonizzare. Il contenuto del segnale è uno e molteplice: sono le idee. Così ogni mattina, Bianconi aprendo le finestre guarderà lassù, e potrà sorridere pensando che c’è chi veglia sulla giornata degli artisti.
«Il Quartiere Latino, sul quale si era spalmato il consueto languore delle lunghe vacanze è tornato oggi alla vita e alla sua vivacità: al Municipio del 14esimo arrondissement il Futuro e il Presente si univano nelle persone del signor Gino Severini e Jeanne Fort. Lo sposo è il pittore futurista, la sposa è la figlia di Paul Fort, il Principe dei Poeti».
Così riportava una delle tante cronache dedicate ad un matrimonio che aveva incuriosito ed eccitato Parigi: era il 28 agosto 1913 e come sottolineava il giornalista inglese del “Northern Advocate”, la platea degli invitati evocava simbolicamente altri possibili matrimoni: quello tra Italia e Francia e soprattutto quello tra cubisti e futuristi. In effetti Severini, innamoratissimo della sua Jeanne, aveva organizzato tutto mettendo a punto una strategia ben calibrata. Innanzitutto aveva neutralizzato l’offensiva di Umberto Boccioni, autore di un telegramma dai toni minatori, firmato anche da Carrà, Russolo e Marinetti. «Se persisti a sposarti ti ritireremo la nostra solidarietà», era il messaggio. Ma Severini aveva abilmente convinto Marinetti a essere addirittura da testimone, facendogli sapere che l’altro testimone sarebbe stato Apollinaire. A marzo di quello stesso 1913 Apollinaire aveva accettato di scrivere un Manifesto dell’Antitradizione Futurista. «Il manifesto è importantissimo», scriveva lo stesso Marinetti ad un riluttante Ardengo Soffici. Più del contenuto contava il peso politico dell’intellettuale francese, che si offriva in questo modo di proporre un ponte tra cubismo e futurismo. Il tentativo non era destinato a fare grande strada, ma Marinetti si sentì obbligato ad accogliere l’opportunità offertagli da Severini. Arrivò a Parigi a bordo di una bella automobile bianca che prestò agli sposi nel giorno delle nozze. Del resto era stato proprio il padre del futurismo a causare l’incontro tra Severini e la sua futura moglie, portando l’amico artista nel 1911 al Closerie de Lilas, il caffè dei poeti simbolisti a Montparnasse dove teneva banco Paul Fort. Jeanne era sempre presente a questi appuntamenti anche se non aveva ancora 15 anni. Così tra lei e Gino era scattato presto il colpo di fulmine.
Di questo suo matrimonio d’amore e anche di convenienza, Severini ha raccontato diffusamente nella sua autobiografia “La vita di un pittore”, pubblicata nel 1946. Ed è da lì che Lino Mannocci, artista toscano, da tanti anni di stanza a Londra, ha preso il la per un percorso intelligente e curioso. Prima una mostra al Museo del Novecento di Firenze a cura di Sergio Risaliti, esponendo una serie di quadri-cartolina dedicati a sposi e invitati a quel matrimonio. Poi un libro in cui Mannocci passa in rassegna i protagonisti di quella giornata festosa, provando anche a ricostruire “la scena“ dei possibili dialoghi (Lino Mannocci, “Scene da un matrimonio futurista”, Affinità elettive, 220 pag, 20 euro). È un libro dal sapore evocativo che insegue la strana umanità convocata per quella festa e se ne lascia conquistare: le immagini con le opere di Mannocci accompagnano i singoli incontri, come esercizi di memoria, affettuosa ed insieme ancora eccitata dall’evento.
Anche i testimoni della sposa, «abbagliante di gioventù e di grazia» (Severini), erano stati frutto di una scelta ben calibrata. Il primo era Alfred Vallet, fondatore del “Mercure de France”, l’altro Stuart Merril un poeta americano molto stimato da Mallarmé. Proprio quest’ultimo si trovò certamente al centro di una discussione che aveva infiammato la festa. Poche settimane prima infatti Apollinaire aveva pubblicato sul “Mercure de France” una bizzarra ricostruzione del funerale di Walt Whitman, decisamente offensiva. Merril, che viveva nel mito di Whitman, aveva inviato una lettera di protesta al giornale. L’incontro al matrimonio futurista fu occasione per un chiarimento, tra i protagonisti della polemica davanti a Vallet, direttore del “Mercure”. Apollinaire, con assoluta nonchalance, poche settimane dopo pubblicò una rettifica in cui ammetteva che il suo articolo era frutto di una confidenza fattagli da Blaise Cendrars, senza nessun altro riscontro.
Indiscusso animatore della festa era stato Max Jacob. Con Paul Fort «rivaleggiava nei “jeux des mots”, in aneddoti scherzosi, in ogni specie di trovate, una più divertente dell’altra», ricorda Severini. Lui così riflessivo, era sempre disposto a perdonare gli accessi dell’amico Jacob che durante la festa si era reso protagonista di una delle sue bravate. Dopo aver messo al centro del tavolo una copia in gesso in miniatura della “Vittoria di Samotracia”, regalo di un artigiano italiano, l’aveva fracassata a colpi di bottiglia al grido di «in una tale assemblea di futuristi questa vecchia statua è un non senso». Severini la prese a male, ma poi perdonò l’amico e invitò tutti a continuare a divertirsi. «Jacob ogni volta mi abbagliava con la sua cultura e la sua vivissima immaginazione», confessa nella sua autobiografia. Sulla festa aleggiava il fantasma di Picasso, grande amico di Jacob (due anni dopo gli avrebbe fatto da padrino, in occasione della conversione di Max al cattolicesimo). Tra gli invitati c’era André Salmon, poeta e amico di Pablo fin dai tempi del Bateau Lavoir. Tra i meriti di Salmon quello di aver convinto Picasso ad esporre finalmente in pubblico la grande tela che da anni teneva girata nello studio, con la scusa che spaventava chi entrava: erano “Les Demoiselles d’Avignon”.
Impossibile non notare tra i tavolini del Café Voltaire dove si era tenuta la festa, un personaggio come Rachilde Emery, moglie di Alfred Vallet. Bisessuale e iconoclasta, aveva ottenuto per prima dalle autorità francesi il permesso di potersi presentare in pubblico vestita da uomo. Nel 1884 aveva pubblicato un romanzo, “Monsieur Vénus“, che era stato sequestrato e che le aveva causato una condanna a due anni di reclusione a 2mila franchi di multa. «Dominava tutte le conversazioni con la sua “verve” indiavolata», ricorda Severini. Eppure “mademoiselle Baudelaire”, come era stata ribattezzata da Maurice Barrés, aveva ceduto alla corte ostinata e paziente di Alfred Vallet, un uomo dal carattere opposto al suo. Si erano sposati e insieme avevano fondato il “Mercure de France”, la rivista letteraria più autorevole nella Parigi di quegli anni. Durante la festa Rachilde fu molto colpita dalle canzoni di uno degli invitati. Si chiamava Francis Carco, ed era scrittore. Lo volle conoscere. Scoprì che un anno prima aveva mandato un suo romanzo al “Mercure” senza ricevere risposta. Pochi mesi dopo “Jesus la caille”, questo il titolo, era nelle librerie.
L’articolo è uscito su Alias del 21 giugno 2020 con il titolo “Livio Mannocci e i confetto dell’avanguardia”
Imperturbabili come nel loro stile, Gilbert & George sono planati ai bordi del lago Maggiore, negli spazi di Casa Rusca a Locarno, con le sue facciate gentili e tinteggiate di rosa. Senza battere ciglio si sono adattati agli spazi così svizzeri di queste sale ordinate e basse, che in tanti casi hanno soffitti di legno da architettura alpina.
Non c’è da stupirsi: in una delle interviste realizzate con Hans Ulrich Obrist i due spiegavano che «qualunque sia lo spazio devi accettarlo per quello che è. Una volta che hai colto lo spazio, allora puoi utilizzarlo in modo positivo». È una sfida che anche questa volta hanno raccolto con la massima scrupolosità seguendo la loro filosofia che mette al bando il ruolo del curatore («Organizzano le mostre secondo i loro gusti e le loro idee. A noi non piace, perché una mostra è fatta per i visitatori», spiegano in un video di presentazione della mostra, confermando la loro ostilità al sistema dell’arte contemporanea come sistema chiuso e autoreferenziale). Al direttore di Casa Rusca, Rudy Chiappini, hanno chiesto una planimetria precisa, con indicazione di ogni dettaglio, prese elettriche comprese, e hanno restituito un modellino completo di tutto con la mostra allestita. È nata così “The Locarno Exhibition 2020” (fino al 18 ottobre), un progetto che trasferisce il caos centrifugo dell’East End London, dove Gilbert & George vivono e hanno il loro studio, sulle sponde placide del Verbano svizzero. Si poteva pensare al rischio di un corto circuito, invece Gilbert & George, con il loro atteggiamento garbato, navigano perfettamente a loro agio in una situazione che esalta il meccanismo impeccabile, quasi ad orologeria, che regola ogni loro opera. «Siamo ossessionati dal controllo», confessano. La struttura modulare dei lavori, con i rettangoli che corrispondono alla misura della carta della sofisticatissima stampante, è una sintassi che garantisce una narrazione ordinata del caos.
La mostra è un’antologica del lavoro degli ultimi 15 anni, con una selezione di cinque cicli: le stanze quindi si presentano come blocchi compatti, con fortissimi rimbalzi da un’opera all’altra. Il tutto a beneficio del visitatore, bombardato da immagini pulite e accese di energia cromatica, nonostante veicolino contenuti il più delle volte repulsivi. L’arte di Gilbert & George è un’arte immersiva all’origine, perché scaturisce dalla loro quotidiana immersione nella realtà urbana che circonda lo studio di Fournier Street. «Prendiamo Londra e la mettiamo dentro un apparecchio di risonanza magnetica», spiegano in catalogo. Sotto l’apparecchio ci finiscono ogni volta anche loro, vere sculture viventi, immancabilmente presenti sulla scena dei quadri.
«Vogliamo che ogni quadro si decida da solo, nello stesso modo in cui una giornata si decide da sola». Nella concezione e genesi dei cicli sembra che scatti davvero un meccanismo automatico che prolifera senza freni dentro lo spazio libero dei quadri. È quello che accade nel ciclo travolgente delle “London Pictures” (2013), costruito replicando gli strilli (ovviamente di cronaca nera) rubati dalle locandine dei giornali popolari della metropoli: il ciclo completo è costituito da ben 292 opere con quasi 4mila titoli. La sequenza delle scritte, tutte in caratteri rafforzati da un contorno, restituisce l’effetto di un film muto sull’ultimo giorno del mondo. In realtà lo sguardo di Gilbert & George non è mai né censorio né intellettualistico; semmai è ultimamente comprensivo perché subisce la fascinazione di questa realtà schizzata. Così anche sullo sfondo di queste opere compaiono sempre loro, quasi imbavagliati dalle scritte, con quella espressione impenetrabile da clown urbani, ironici e dolenti. Gli altissimi livelli acustici evocati dalla mitragliata dei titoli di cronaca non sono però motivo di scandalo; semmai rappresentano un sismografo della vita quotidiana da cui Gilbert & George non si chiamano fuori. Loro osservano e intercettano immagini ad alta densità con cui si riempiono il cervello e poi lasciano che il racconto che ne scaturisce venga a comporsi dentro le griglie della loro sintassi figurativa.
È questo ordine visivo che permette di scatenare narrazioni disturbanti senza che queste divorino il quadro come un Saturno che inghiotte i suoi figli. Ce ne si accorge davanti al ciclo più visionario presente in mostra, quello delle “Beard Pictures” (2016). Gilbert & George sempre curatissimi nella loro mise volutamente anacronistica, volto perfettamente rasato, si sottopongono ad un violentissimo contrappasso. L’ispirazione viene dal mutamento a cui assistono nelle strade della loro East London: barbe foltissime e anche aggressive diventano codice distintivo di tanto fanatismo religioso, ma segnano la fisionomia anche de nuovi eccentrici come gli hipster. «Un soggetto apparentemente banale», scrive Michael Bracewell nell’introduzione al catalogo locarnese, «diventa la base per una serie di quadri così riccamente fantastici, vertiginosi e declamatori». È un tema legato alla storia, ma portato sull’orlo dell’assurdo: «le loro barbe diventano forme oscure, estruse, estrapolate, follemente esagerate, protese in una stravagante eccentricità». Assistiamo ad uno scatenamento di soluzioni, spesso risolte con sconfinamenti nel vegetale, introducendo così un ulteriore elemento di bizzarra contaminazione tra le specie. Le barbe si dilatano prendendo la forma di grandi foglie sui volti virati in rosso acceso dei due artisti, come succede nel caso del bellissimo “Beard Alert”. Sulla griglia compositiva s’accavalla poi un’altra griglia di filo spinato: una doppia cortina per un quadro-prigione. In realtà la potenziale angoscia di un’immagine come questa si scioglie davanti all’irridente iconicità di Gilbert % George in versione “red”.
La storia entra pienamente in gioco anche nel ciclo delle “Scapegoating Pictures” (2013), riflessione su quella cultura del “capro espiatorio”, che produce aggressività sociale, risentimento, radicalizzazione ideologica. Il leitmotiv della serie è costituito dalle lattine simili a bombe, che contenevano il “gas esilarante”. Piovono all’interno dei quadri, disponendosi ordinatamente come inoffensivi motivi decorativi: anche in questo caso Gilbert & George, pur mandando messaggi che hanno una direzione chiara, evitano di farsi chiudere dentro logiche univoche.
La narrazione di un mondo infetto non impedisce una scoperta simpatia verso quello stesso mondo. Solo così si spiega la bellezza, tante volte addirittura sontuosa, delle loro opere, che si squadernano davanti ai nostri occhi con una lucentezza senza ombre o sfumature: non è un caso che i tracciati dei riquadri rimandino all’intelaiatura di piombo delle antiche vetrate. A volte Gilbert & George lasciano libero corso a motivi pittorici vistosi come accade nel più vecchio dei cicli in mostra “The Jack Freak Pictures” (2008). Qui dominano il bianco, il rosso e il blu della bandiera britannica, colori che vengono giocati in soluzioni vorticose ed esagitate. I due sono stati scopertamente tifosi della Brexit e quindi non disdegnano i nuovi sovranismi. Ma poi nei lavori questo attaccamento identitario viene travolto dall’energia libertaria che è il vero leit motiv di tutto il loro percorso. Nell’opera centrale di questo ciclo, l’immagine dell’alba dorata della nazione, che si distende come insolito e anche clamoroso sfondo, deve fare i conti con le sagome dei due artisti ridotti a malinconici pupazzi tatuati con i disegni della bandiera britannica. Il titolo non lascia scampo: “JackShit”. Corrosivi come sempre, sfrontati e imperturbabili, ma alla fine eccitati dall’appartenenza a quei colori.
Articolo pubblicato su Alias, domenica 14 giugno 2020
O meglio perché faccio questo blog: perché penso che la storia dell'arte liberi la testa, perché è stupido vedere 150 mostre all'anno senza lasciare una traccia di pensiero.