Una Milano piena di pudore, dall’aria nebbiosa e dai colori smorzati. Una Milano dove le persone non hanno tempo né testa e per mettersi in posa, ma camminano rapide su quei selciati perennemente umidi. Comincia così la bella mostra che il Castello Sforzesco ha voluto dedicare a Cesare Colombo, fotografo e testimone devoto e puntuale di “un’altra” Milano possibile. Sono immagini precocemente a colori, scattate nel 1956, dove il colore è usato non come espediente spettacolare ma come strumento per calarsi nell’aria della città. «Il colore può essere usato come un elemento ulteriore di informazione senza che diventi orpello o una violenza visiva», annotava Colombo in uno dei suoi tanti scritti sulla fotografia, scritti sempre regolati da una grande coerenza, dove estetica e morale si trovano sempre perfettamente allineate.
Milano, o meglio “quella” Milano, è l’orizzonte amato e indispensabile di Cesare Colombo. Una città che coincide con una visione della vita, del lavoro e anche dell’arte. «Lo stile dei milanesi è quello di essere aziendali anche in arte», scriveva Giuseppe Turroni negli anni 50, presentando il Gruppo dei Navigli, una delle tante esperienze collettive a cui Colombo aveva partecipato. Milano è il terreno dal quale scaturisce anche una precisa concezione della fotografia a cui restare fedeli per tutta la vita. La fotografia è testimonianza civile, è strumento di conoscenza, indagine sull’umano, agente di memoria capace di attivare discussioni sul presente; è volano di partecipazione. Soprattutto è sguardo oggettivo sulla realtà. Con la stessa precisione si può anche dire cosa la fotografia non dovrebbe essere: esercizio estetico, orpello visivo, spazio per ambiguità poetiche, pratica di evasione. Il fascino di Colombo sta proprio in questa sua determinazione nel tracciare il perimetro, da cui deriva anche una idea precisa del compito a cui è chiamato.
La fotografia per Colombo è davvero una fede fondata, come aveva scritto Angelo Schwartz, sulla «forza espressiva del documento ottico che non ha bisogno di forzature tonali o elaborazioni in camera oscura». La fotografia per Colombo è un esercizio costante di antiretorica: la mostra milanese si adegua perfettamente a questo imprinting. Allestita nello spazio della Sala Viscontea, prevede sulle due lunghe pareti di quasi 30metri il flusso delle fotografie, per la gran parte entrate a far parte delle Civiche raccolte comunali per decisione delle figlie di Colombo. Al centro, Italo Lupi, che ha firmato l’allestimento, ha invece concepito un doppio tavolo basso che attraversa tutto lo spazio: da una parte c’è la biografia di Colombo, dall’altra invece una selezione di scritti suoi e su di lui. Nel presentare in catalogo il progetto espositivo Lupi spiega di aver voluto ottenere «lo specchio fedele di un grande fotografo, di un vero intellettuale con il quale era dolce e bello lavorare e ascoltare le sue parole di affilata ironia».
La mostra su Colombo è insomma una mostra in pieno “stile Colombo”: sobria, precisa, appassionatamente documentaria, curata da Silvia Paoli, conservatrice del Civico archivio fotografico del Castello Sforzesco. Il suo saggio in catalogo è esemplare nel voler restituire cronachisticamente la parabola del fotografo. Ma è proprio tra le pieghe di questa sequenza ricchissima di mostre, di interventi pubblici, di scritti, di commissioni private e qualche volta pubbliche che emerge con nitidezza e affidabilità la visione di Colombo.
Da questa sequenza emerge ad esempio l’intelligente pragmatismo dell’uomo e del fotografo. Pur essendo schierato a sinistra, Colombo non vive mai questa appartenenza con schematismi ideologici. Ad esempio il suo rapporto con il mondo industriale non è mai dettato da un comprensibile opportunismo, visto che si trattava del più importante committente di progetti fotografici. In Colombo prevale invece una convinzione tutta milanese che l’industria sia una espressione di quella cultura del “fare” di cui lui stesso si sentiva figlio. In particolare negli anni 80 si concepisce come “fotografo d’industria”, curando anche due importanti progetti come la mostra milanese “Fabbriche in posa” e quella fiorentina “La fabbrica di immagini. L’industria italiana nella fotografia di autore”: quest’ultimo titolo evidenzia un’intelligenza di approccio, che non nasconde la destinazione a fine di marketing che spesso caratterizza questo tipo di produzione.
Ma se lasciamo parlare le immagini, è difficile non scorgere una simpatia naturale nello sguardo di Colombo nei confronti del mondo del lavoro. La sua foto della Torre Galfa (1968) ripresa dalle finestre del Pirelli, con quella geometria ordinata di persone sorprese in piena operatività, è diventata, come aveva scritto Corrado Stajano, «l’icona della città lavoratrice». È di 10 anni prima una foto ancor più emblematica: un gruppo di dipendenti ascolta gli auguri della Direzione alla vigilia di Natale. In primo piano ci sono le fette di panettoni per il brindisi. È un agglomerato umano assolutamente milanese, facce scolpite dalla cultura del lavoro, che Colombo registra senza sovrascritture.
Del resto la sua idiosincrasia verso la fotografia come disciplina creativa, lo portava a considerare la sua attività in termini più “terra terra“, cioè di semplice lavoro. Di creatività c’era sempre bisogno, ma, come lui precisava, andava intesa «in senso non estetico ma comportamentale». Nell’ambito del “comportamentale” ad esempio rientra «la grandissima curiosità umana» che Corrado Stajano vedeva come origine del suo lavoro di fotografo (un lavoro, aggiungeva, «privo di vezzi e velleità formalistiche»).
In un’intervista rilasciata poco tempo prima di morire nel 2014, Colombo confessava di aver dedicato tutta la vita «senza rimpianti alle immagini fotografiche». E poi aggiungeva: «Cosa non frequente, più spesso a quelle degli altri che non alle mie». Infatti è stato continuo e formidabile il suo lavoro di collegamento e di stimolo nei confronti di tutto l’ambiente fotografico milanese. Un impegno culminato con la grande mostra del 1977 alla Rotonda della Besana intitolata “L’occhio di Milano”, da lui curata per conto del Comune. La mostra raccoglieva lavori solo di fotografi milanesi di nascita o di adozione: 400 lavori scelti dagli stessi autori (assenti «i fotografi che mettono in scena la pubblicità, la moda, l’arredamento, l’erotismo»). La risposta del pubblico fu clamorosa in termini anche numerici, a conferma di una delle convinzioni cardine di Colombo: che la fotografia è strumento di partecipazione e di costruzione collettiva. «Un secondo occhio» indispensabile «per completare il volto della città», scriveva nell’introduzione del catalogo da lui seguito anche editorialmente con lo studio MID.
Ma Colombo ebbe modo di occuparsi anche con grande finezza di analisi e di scrittura di altri colleghi non milanesi (e dal linguaggio molto diverso dal suo), come accadde su Abitare per la morte di Mario Giacomelli o per la grande mostra reggiana dedicata a Luigi Ghirri, con un intervento pubblicato proprio su Alias nel 2001, diventato occasione per riflettere sul ruolo di Ghirri e sul «suo sistema visivo» che aveva generato uno spostamento dall’osservazione diretta della realtà alla riflessione critica sulle modalità di rappresentazione della realtà stessa.
Uscendo dalla mostra un ultimo inevitabile pensiero riguarda Milano, oggi così diversa, così città vetrina. Ci si chiede cosa sarebbe stata Milano se si fosse mantenuta fedele, pur con tutte le sue contraddizioni, a quell’idea di città che Colombo ha indagato, rappresentato e amato per tutta la vita. Ma un pensiero come questo è la dimostrazione che la sua fotografia continua ad essere un fattore attivo di stimolo e di riflessione.