Imperturbabili come nel loro stile, Gilbert & George sono planati ai bordi del lago Maggiore, negli spazi di Casa Rusca a Locarno, con le sue facciate gentili e tinteggiate di rosa. Senza battere ciglio si sono adattati agli spazi così svizzeri di queste sale ordinate e basse, che in tanti casi hanno soffitti di legno da architettura alpina.
Non c’è da stupirsi: in una delle interviste realizzate con Hans Ulrich Obrist i due spiegavano che «qualunque sia lo spazio devi accettarlo per quello che è. Una volta che hai colto lo spazio, allora puoi utilizzarlo in modo positivo». È una sfida che anche questa volta hanno raccolto con la massima scrupolosità seguendo la loro filosofia che mette al bando il ruolo del curatore («Organizzano le mostre secondo i loro gusti e le loro idee. A noi non piace, perché una mostra è fatta per i visitatori», spiegano in un video di presentazione della mostra, confermando la loro ostilità al sistema dell’arte contemporanea come sistema chiuso e autoreferenziale). Al direttore di Casa Rusca, Rudy Chiappini, hanno chiesto una planimetria precisa, con indicazione di ogni dettaglio, prese elettriche comprese, e hanno restituito un modellino completo di tutto con la mostra allestita. È nata così “The Locarno Exhibition 2020” (fino al 18 ottobre), un progetto che trasferisce il caos centrifugo dell’East End London, dove Gilbert & George vivono e hanno il loro studio, sulle sponde placide del Verbano svizzero. Si poteva pensare al rischio di un corto circuito, invece Gilbert & George, con il loro atteggiamento garbato, navigano perfettamente a loro agio in una situazione che esalta il meccanismo impeccabile, quasi ad orologeria, che regola ogni loro opera. «Siamo ossessionati dal controllo», confessano. La struttura modulare dei lavori, con i rettangoli che corrispondono alla misura della carta della sofisticatissima stampante, è una sintassi che garantisce una narrazione ordinata del caos.
La mostra è un’antologica del lavoro degli ultimi 15 anni, con una selezione di cinque cicli: le stanze quindi si presentano come blocchi compatti, con fortissimi rimbalzi da un’opera all’altra. Il tutto a beneficio del visitatore, bombardato da immagini pulite e accese di energia cromatica, nonostante veicolino contenuti il più delle volte repulsivi. L’arte di Gilbert & George è un’arte immersiva all’origine, perché scaturisce dalla loro quotidiana immersione nella realtà urbana che circonda lo studio di Fournier Street. «Prendiamo Londra e la mettiamo dentro un apparecchio di risonanza magnetica», spiegano in catalogo. Sotto l’apparecchio ci finiscono ogni volta anche loro, vere sculture viventi, immancabilmente presenti sulla scena dei quadri.
«Vogliamo che ogni quadro si decida da solo, nello stesso modo in cui una giornata si decide da sola». Nella concezione e genesi dei cicli sembra che scatti davvero un meccanismo automatico che prolifera senza freni dentro lo spazio libero dei quadri. È quello che accade nel ciclo travolgente delle “London Pictures” (2013), costruito replicando gli strilli (ovviamente di cronaca nera) rubati dalle locandine dei giornali popolari della metropoli: il ciclo completo è costituito da ben 292 opere con quasi 4mila titoli. La sequenza delle scritte, tutte in caratteri rafforzati da un contorno, restituisce l’effetto di un film muto sull’ultimo giorno del mondo. In realtà lo sguardo di Gilbert & George non è mai né censorio né intellettualistico; semmai è ultimamente comprensivo perché subisce la fascinazione di questa realtà schizzata. Così anche sullo sfondo di queste opere compaiono sempre loro, quasi imbavagliati dalle scritte, con quella espressione impenetrabile da clown urbani, ironici e dolenti. Gli altissimi livelli acustici evocati dalla mitragliata dei titoli di cronaca non sono però motivo di scandalo; semmai rappresentano un sismografo della vita quotidiana da cui Gilbert & George non si chiamano fuori. Loro osservano e intercettano immagini ad alta densità con cui si riempiono il cervello e poi lasciano che il racconto che ne scaturisce venga a comporsi dentro le griglie della loro sintassi figurativa.
È questo ordine visivo che permette di scatenare narrazioni disturbanti senza che queste divorino il quadro come un Saturno che inghiotte i suoi figli. Ce ne si accorge davanti al ciclo più visionario presente in mostra, quello delle “Beard Pictures” (2016). Gilbert & George sempre curatissimi nella loro mise volutamente anacronistica, volto perfettamente rasato, si sottopongono ad un violentissimo contrappasso. L’ispirazione viene dal mutamento a cui assistono nelle strade della loro East London: barbe foltissime e anche aggressive diventano codice distintivo di tanto fanatismo religioso, ma segnano la fisionomia anche de nuovi eccentrici come gli hipster. «Un soggetto apparentemente banale», scrive Michael Bracewell nell’introduzione al catalogo locarnese, «diventa la base per una serie di quadri così riccamente fantastici, vertiginosi e declamatori». È un tema legato alla storia, ma portato sull’orlo dell’assurdo: «le loro barbe diventano forme oscure, estruse, estrapolate, follemente esagerate, protese in una stravagante eccentricità». Assistiamo ad uno scatenamento di soluzioni, spesso risolte con sconfinamenti nel vegetale, introducendo così un ulteriore elemento di bizzarra contaminazione tra le specie. Le barbe si dilatano prendendo la forma di grandi foglie sui volti virati in rosso acceso dei due artisti, come succede nel caso del bellissimo “Beard Alert”. Sulla griglia compositiva s’accavalla poi un’altra griglia di filo spinato: una doppia cortina per un quadro-prigione. In realtà la potenziale angoscia di un’immagine come questa si scioglie davanti all’irridente iconicità di Gilbert % George in versione “red”.
La storia entra pienamente in gioco anche nel ciclo delle “Scapegoating Pictures” (2013), riflessione su quella cultura del “capro espiatorio”, che produce aggressività sociale, risentimento, radicalizzazione ideologica. Il leitmotiv della serie è costituito dalle lattine simili a bombe, che contenevano il “gas esilarante”. Piovono all’interno dei quadri, disponendosi ordinatamente come inoffensivi motivi decorativi: anche in questo caso Gilbert & George, pur mandando messaggi che hanno una direzione chiara, evitano di farsi chiudere dentro logiche univoche.
La narrazione di un mondo infetto non impedisce una scoperta simpatia verso quello stesso mondo. Solo così si spiega la bellezza, tante volte addirittura sontuosa, delle loro opere, che si squadernano davanti ai nostri occhi con una lucentezza senza ombre o sfumature: non è un caso che i tracciati dei riquadri rimandino all’intelaiatura di piombo delle antiche vetrate. A volte Gilbert & George lasciano libero corso a motivi pittorici vistosi come accade nel più vecchio dei cicli in mostra “The Jack Freak Pictures” (2008). Qui dominano il bianco, il rosso e il blu della bandiera britannica, colori che vengono giocati in soluzioni vorticose ed esagitate. I due sono stati scopertamente tifosi della Brexit e quindi non disdegnano i nuovi sovranismi. Ma poi nei lavori questo attaccamento identitario viene travolto dall’energia libertaria che è il vero leit motiv di tutto il loro percorso. Nell’opera centrale di questo ciclo, l’immagine dell’alba dorata della nazione, che si distende come insolito e anche clamoroso sfondo, deve fare i conti con le sagome dei due artisti ridotti a malinconici pupazzi tatuati con i disegni della bandiera britannica. Il titolo non lascia scampo: “JackShit”. Corrosivi come sempre, sfrontati e imperturbabili, ma alla fine eccitati dall’appartenenza a quei colori.
Articolo pubblicato su Alias, domenica 14 giugno 2020