Nell’ossimoro del suo nome c’è tutto il destino e tutto il fascino di Letizia Battaglia. Nella vita è stata una magnifica combattente, ma affamata di bellezza e di felicità. «Le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza», diceva di sé e del proprio lavoro. Letizia Battaglia se n’è andata a 87 anni, e il vuoto che lascia è un vuoto davvero grande, e non solo per il mondo della fotografia. Definirla fotografa infatti è paradossalmente riduttivo, perché la fotografia era per lei un mezzo, mai un fine.
«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente», aveva dichiarato nella magnifica monografia-confessione scritta da Giovanna Calvenzi e pubblicata nel 2010 per Bruno Mondadori. In realtà Battaglia è stata una grande fotografa, capace di fissare con le sue immagini una stagione drammatica e la vita di un’intera città. Aveva iniziato un po’ per caso, quando già aveva alle spalle un matrimonio che l’aveva delusa e tre figlie. Per questo aveva lasciato Palermo per Milano, alla ricerca di un modo per ricominciare. La macchina fotografica è stato lo strumento che l’aveva rimessa in movimento. Nel 1974 era tornata a Palermo, per avviare insieme a Franco Zecchin, l’agenzia Informazione fotografica, lavorando per l’Ora, quel piccolo quotidiano, coraggioso come lei, in prima linea nella lotta alla mafia. È per l’Ora che Battaglia ha documentato una stagione sanguinosa di Palermo. Tra le tante fotografie di quegli anni, una parla di lei più di tutte le altre: è quella scattata il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lei era per caso nei paraggi con Zecchin e la figlia. Corse dove c’era il capannello delle persone, si affacciò al finestrino dell’auto: davanti a lei Sergio, l’attuale presidente della Repubblica, reggeva il corpo del fratello ucciso. Scattò la foto in un secondo, “à la sauvette”, come insegnava Cartier Bresson, “in fretta e furia”. «In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare», aveva confessato anni dopo in un’intervista rilasciata ad Angela Mainitiù per Il Manifesto. E poi in poche righe aveva stupendamente sintetizzato il suo modo “morale” di porsi in queste situazioni: «Che cos’è il supporto di un fotografo? È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto».
Sono fotografie che Letizia Battaglia si è portata sempre dietro come delle ferite. Aveva anche ipotizzato di distruggerle, poi se le era appese in casa per cercare di metabolizzarle, infine le aveva rifotografate sovrapponendo immagini di donne e di vita. È una relazione con il proprio lavoro che evidenzia la sua libertà. «Sono persona, non fotografa», ripeteva. Come persona non le interessava la bellezza delle immagini, ma la bellezza della vita. Per questo non risparmiava frecciate a grandi autori secondo lei a rischio di estetismo, come Mapplethorpe o Salgado. Diane Airbus e soprattutto Koudelka erano invece i suoi riferimenti, o maestri “involontari”. Con il grande fotografo boemo aveva fatto tanti viaggi, sempre in camper, dalla Turchia fino al Nord Europa. Soprattutto Koudelka, come pure Ferdinando Scianna, era diventato una presenza famigliare all’Agenzia Informazione Fotografica, poi diventato Laboratorio IF, perché Battaglia e Zecchin ne avevano voluto fare una vera e propria scuola, un’esperienza che fosse didattica ma che spingesse ad andare sempre in prima linea. Con la stessa generosità e passione nel 2017 si era buttata nell’avventura del Centro internazionale della fotografia al Cantiere della Zisa a Palermo, un progetto tanto ambizioso quanto faticoso, un sogno come tanti suoi sogni marcati da ferite (“Sulle ferite dei suoi sogni” è non a caso il titolo del libro con Giovanna Calvenzi). Letizia Battaglia lascia un grande vuoto perché ci mancherà quel suo impeto d’amore verso la vita, che l’ha fatta essere pienamente donna, amica di tanti, attivista, mamma e persino bisnonna, come orgogliosamente sottolineava. E naturalmente l’ha fatta essere anche grande fotografa. A questo proposito, se interpellata rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, avrebbe ribadito di non essere capace di fotografare la guerra, «perché per me è indispensabile l’amore».
Fabio Mauri è un artista che amava sempre procedere sottotraccia. Negli anni 80 aveva lavorato attorno ad una serie di carte che ha lasciato “senza titolo” ma che palesemente rappresentano una riflessione a partire dall’Apocalisse. Sono carte a tecnica mista di straordinaria bellezza, quasi dei fogli segreti, nati da un sostrato sofisticato di pensiero. Usciti dai cassetti dello Studio Fabio Mauri, l’archivio che gestisce intelligentemente la sua eredità, hanno permesso la realizzazione di una mostra, che come spiega la curatrice Francesca Alfano Miglietti è la sua «prima grande mostra di disegni… opere che si lasciano spiare nel loro farsi» (Fabio Mauri. Opere dall’Apocalisse, Galleria Viasaterna, Milano, fino al 1 aprile).
I lavori di Mauri, per loro natura, sollecitano sempre domande: scaturiscono da percorsi di coscienza assolutamente personali, ma sfociano ogni volta su un orizzonte pubblico, come lui stesso aveva spiegato in un’intervista del 2007 a Stefano Chiodi, pubblicata su Doppiozero: «L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi private. Diventano politiche nella lunga durata».
Anche nel caso di questa serie di disegni, le domande possono essere molteplici. Ad esempio, da dove è scaturita la necessità di questo confronto con il testo più enigmatico della Bibbia? Va precisato che si tratta di un confronto linguisticamente strutturato. Nei fogli gli echi delle parole di San Giovanni risuonano nella forma di spezzoni di oggetti, le trombe in particolare, ma soprattutto nella dimensione spaziale che evoca un dopo-storia, un mondo sul ciglio di una rivelazione finale. L’intensità della luce di questi disegni è un altro fattore che richiama l’intensità folgorante e senza appello delle parole del testo biblico. Mauri non agisce per suggestioni, ma accetta di farsi permeare da questa febbre visiva, senza mai smarrire il controllo del suo lavoro. Se il dettato di partenza può apparire enigmatico, il suo intento è sempre quello di approdare ad una esplicitezza, ad un’evidenza. «Procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark», diceva di sé. Sono perciò disegni che deflagrano davanti ai nostri occhi con i loro colori e le loro forme; disegni visionari ma mai cifrati, segnati da una chiarezza di senso che non lascia mai nulla nell’indeterminatezza.
Da dove dunque scaturisce la necessità di questo confronto con l’Apocalisse? Certamente il ciclo è parte della riflessione sulla storia, portata avanti in tutta la sua opera. È un’indagine sul destino e sul mondo («L’arte che si politicizza in realtà è l’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo», sosteneva). Il ciclo di carte ripropone anche l’importanza che la riflessione religiosa ha sempre avuto nella sua vita e nel suo lavoro, pur restando, come nel suo stile, sottotraccia; una riflessione tanto più profonda quanto meno veniva proclamata. Se ne può trovare l’origine nell’esperienza giovanile a Civitavecchia, nel Villaggio dei Ragazzi, dove con un sacerdote si era preso cura per otto anni di ragazzi rimasti orfani per la guerra, facendo l’istruttore. Con loro aveva mantenuto i contatti, come ha testimoniato il fratello Achille, chiamandoli sempre i suoi “fratellastri”. «Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?», gli aveva chiesto Chiodi nell’intervista del 2007. «La fede. Io ormai so che Dio c’è», era stata la sua risposta, dove è significativo il persistere del tempo verbale al presente. Era stato importante per lui anche il rapporto con padre Davide Turoldo, di cui aveva illustrato nel 1948 un libro di poesie, “Io non ho mani”. Personalmente ho il ricordo di un meraviglioso disegno con “Cristo in bicicletta”, verosimilmente di quello stesso periodo, visto alla retrospettiva milanese di Palazzo Reale del 2012. Erano gli anni in cui un altro grande amico di padre Davide, Giovanni Testori, concepiva il suo racconto d’esordio, “Il Dio di Roserio”, ancora un “dio” in bicicletta…
Risale invece agli anni ’80 “Dio in scena”, la performance-conferenza tenuta a Milano alla Galleria Marconi, nella quale Mauri aveva condensato, come sua abitudine, gesto, pensiero, scrittura e visione, non senza una punta di ironia. In quell’occasione il suo obiettivo era anche quello di capire se «a Dio piace l’arte moderna e se per caso gli era piaciuto quello che faccio io». La risposta “trovata” era aperta a più possibilità: «A Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute…».
Si può stabilire anche un raccordo tra il ciclo dell’Apocalisse e una delle sequenze che più hanno segnato il suo percorso, le serie “End”, avviata nel 1966 e replicata fino alla sua morte. Mauri ha preso in prestito il linguaggio del cinema per catturare quel momento finale a cui aggrapparsi prima che lo schermo diventi nero. Come ha ricordato Ivan Barlafante, suo assistente e oggi tra i promotori dello Studio Fabio Mauri, l’ultima versione di questa lunga serie era stata realizzata nella casa dell’artista, poco prima che morisse. L’aveva voluta incisa nel cemento, tanto che per l’occasione era stato necessario proteggere dalla polvere i libri e gli arredi con teloni di plastica. Lo stesso Mauri aveva osservato il lavoro sbucando da un foro fatto in quei teloni… “The End” rappresenta un modo di mettersi come sempre su una linea di confine e forse di agganciare l’inesprimibile, l’altrove.
Il ciclo esposto a Milano fino ad ora era sempre rimasto nel cassetto. Eppure alcune delle carte erano state incorniciate da Mauri stesso, con una scelta calcolata circa le misure e il colore del passepartout. È difficile pensare che lui potesse realizzare opere destinate a restare confinate in un ambito privato: il rapporto con il mondo è un fattore costante e anche portante della sua riflessione artistica. Questo non toglie che, come sottolinea Francesca Alfano Miglietti nel testo scritto per la mostra, in Mauri «il disegno sembri fungere da metodo di ricerca e parallelamente da zona franca della visionarietà». C’è quindi una differenza tra l’artista delle installazioni e delle performance e quello delle opere su carta, ed è una differenza che ha una sua ragion d’essere, come evidenzia la curatrice: infatti «è proprio questa dualità, ancora una volta, ad evidenziare l’attitudine di Mauri a non irreggimentarsi in nulla di dogmatico e di definitivo».
Certamente oggi è difficile non mettere in relazione questa serie di disegni di Mauri con quanto sta accadendo nel mondo. Qualunque forma prenda, la sua arte finisce con l’incrociare la storia, con le sue tragiche costanti. Ogni lavoro funziona in particolare come presa di coscienza rispetto al demone dell’ideologia totalitaria, «quel modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo». Anche se i disegni dell’Apocalisse rappresentano uno sporgersi sul dopo-storia, la scena resta sempre ingombra delle rovine della storia. A questo proposito, la mostra presenta anche un’altra serie di disegni folgoranti, quella degli “Scorticati”. Sono disegni, riferibili sempre agli anni ’80, realizzati con colori fluo. L’aspetto abbagliante va in contrasto con il soggetto, evidenziato dal titolo del ciclo: volti spettrali, che sembrano trafitti e quasi arsi da radiazioni. Mauri fa memoria delle immagini dei genocidi novecenteschi, ma come sempre il suo sguardo non si chiude sul passato e continua con piena evidenza a interpellare il presente. Come lui diceva, opere che «diventano politiche nella lunga durata».
Dal battello a vapore partito da Marsiglia e approdato ad Ajaccio la mattina del 5 febbraio 1898 erano state scaricate due casse piene di tele, di dimensioni piccole (18x22cm) e medie (36×48 cm). Facevano parte dei bagagli di Henri Matisse e di sua moglie Amélie Parayre. La coppia era in viaggio di nozze, ma quel carico evidentemente suggeriva anche altri programmi. Il viaggio era stato terribile per le condizioni del mare; il tempo all’arrivo pessimo, con pioggia, vento e grandine.
L’impressione di quelle prime ore venne presto cancellata dalle sensazioni dei giorni successivi. Il 28 febbraio Matisse scriveva all’amico Henri Salvetti, un amico còrso di stanza a Parigi, di sentirsi in «un paese meraviglioso dove voglio restare probabilmente molto tempo (non oso dirlo, 2 anni)». E poi spazio all’elenco delle meraviglie: «Mandorli in fiore in mezzo ad ulivi argentati e il mare blu, talmente blu che lo si mangerebbe. Gli alberi di arancio verde scuro con i frutti che sono come gioielli incastonati, grandi eucalipti con le foglie variegate come piume di gallo… e alle spalle montagne con le cime innevate». Matisse è completamente infatuato da questo suo primo incontro con il Sud e il Mediterraneo. Si mette al lavoro con un’intensità mai sperimentata. «Da un quadro all’altro spuntano delle risposte inattese, differenti, alcune saranno riprese e approfondite, altre abbandonate». Non si è solamente lasciato alle spalle il buio del Nord. Ad Ajaccio Matisse, non ancora trentenne, sperimenta la libertà di non dover rispondere a nessuno, neanche a quel maestro pur molto tollerante che era stato Gustave Moreau all’École des Beaux-Arts.
Matisse sarebbe rimasto in Corsica fino a luglio, con la breve parentesi di un viaggio a Parigi all’inizio di giugno. In quei mesi aveva dipinto oltre 50 tele, quelle che si era portato con sé alle quali se ne erano aggiunte alcune, più grandi, comperate in loco. Una parte molto rappresentativa di quella produzione nei mesi scorsi era confluita in una bella mostra organizzata ad Ajaccio (“Matisse en Corse. Un pays merveilleux”), curata tra gli altri da Jacques Poncin, architetto e presidente della locale Associazione amici di Matisse. Poncin nel 2017 aveva pubblicato un libro (“Matisse à Ajaccio”, Éditions Alain Piazzola), dove per la prima volta si metteva a fuoco l’importanza “fondativa” per l’artista di Cateau-Cambrésis di quei mesi trascorsi in Corsica. Della mostra resta un bel catalogo, con una serie di saggi che in modo compatto e corale approfondiscono i mesi trascorsi dall’artista nell’isola, e soprattutto con una galleria di riproduzioni di opere, di impressionante energia.
Le parole con cui Matisse descrive questa sua folgorazione per la Corsica, la sua luce e i suoi colori, trovano un loro corrispettivo nell’accelerazione che la sua pittura registra in parallelo. È un vero big bang: Matisse rompe gli indugi, abbandona ogni timidezza e ogni riverenza verso i riferimenti autorevoli del presente o del passato. La distanza lo agevola, ma lui vive l’avventura còrsa con la consapevolezza di una verifica radicale rispetto alla propria vocazione di pittore. «Avevo deciso di darmi la scadenza di un anno, durante il quale volevo, senza ostacoli di mezzo, dipingere come io intendevo… è allora che ho sentito crescere in me la passione per il colore. Non lavoravo che per me. Ero salvo», avrebbe confidato nel 1925 all’amico Jacques Guenne. L’intensità dei colori della Corsica invade le piccole tele. La pittura si libera dai contorni e da ogni preoccupazione narrativa, si fa drasticamente semplice. I primi lavori sono ancora figurative, poi con il passare delle settimane, le preoccupazioni compositive si allentano. In una delle ultime opere, “Toit de l’Hôpital d’Ajaccio”, restano poche magnifiche campiture orizzontali, di un’essenzialità e di uno splendore che sembra preannunciare De Staël. Le soluzioni cromatiche hanno l’audacia proprio dello sguardo del neofita, che non conosce regole ma sgrana gli occhi davanti all’abbagliante apparizione del mondo. Gli ulivi lo conquistano con la loro forma bassa e compatta: ne “L’arbre”, piccolo olio su cartone dipinto d’impeto, la materia si fa splendente e aggressiva, mandando in dissolvenza le forme. È evidente come Matisse faccia barra, su Cézanne, «notre père a tous», unico riferimento fondamentale in questa fase. Sulla scia del maestro di Aix lavora per liberare e soprattutto organizzare sulla superficie della tela le sensazioni innescate nella relazione con la realtà. Parla «di un enorme lavoro di organizzazione». Come ha scritto Pierre Schneider nel suo importante libro su Matisse del 1984, non sono certo sensazioni calme: «Ad Ajaccio il suo pennello era approdato su toni senza precedenti, per poi arretrare come preoccupato di provocare un incendio impossibile da tenere sotto controllo… è l’incendio che segna il passaggio dalla luce al colore». Sempre secondo Schneider, Matisse concepisce il colore come una forza, non più usata per descrivere una forma o per imitare la natura, in quanto dotata di una sua autonomia ed energia espressiva: simbolo e sintesi di questa sua stagione è la scoperta dell’arancione.
Naturalmente l’eco di questo principio di incendio erano arrivati anche a Parigi. Gustave Moreau era morto il 18 aprile di quell’anno. Matisse aveva mantenuto un rapporto stretto con Henri Marquet e con Henri Evenepoel, suoi compagni d’accademia. È quest’ultimo a esternare tutto il suo sconcerto davanti alle opere dell’amico. Uno sconcerto straordinariamente rivelatore. Il 6 giugno gli scrive, commentando i quadri che aveva potuto vedere: «Mi hai anticipato dicendo che c’era qualcosa di epilettico. Ebbene sì! Trovo che sia così. Tu sei dotato di un occhio straordinario, ma per me stai mettendo in gioco la sua salute». Lo rimprovera perché trova la sua pittura esasperata, come di uno «che digrigna i denti». Al padre Evenepoel parla dell’amico come di un «impressionista epilettico e folle».
In realtà Matisse è non solo determinato ma molto lucido rispetto al passo che sta facendo. Sa di essere debitore all’impressionismo («Sono partito da lì») ma coglie la debolezza di quella pittura. «Sono opere che brulicano di sensazioni contradditorie. La loro è una trepidazione». Anni dopo, facendo un bilancio di questa sua stagione in Corsica nei dialoghi con Jacques Guenne, spiegava di essere arrivato «lentamente a scoprire il segreto della mia arte. Consiste in una meditazione a partire dalla natura, nell’espressione di un sogno sempre ispirato alla realtà. Con più accanimento e regolarità, ho imparato a spingere ogni studio in una direzione certa».
Vi siete mai chiesti perché in ogni città italiana nell’offerta alberghiera compaia sempre un hotel Bristol? Quali titoli ha questa cittadina del sud est dell’Inghilterra per meritarsi una simile nomea? Il merito in realtà è tutto di un suo cittadino, Frederick Augustus Hervey, IV duca di Bristol oltre che vescovo anglicano di Derry. Era un viaggiatore instancabile, uomo curioso, colto, un insaziabile collezionista, protagonista tipo di quel fenomeno che oggi è conosciuto come Grand Tour, cioè quella «comunità di tourists che nel secolo dei Lumi ha rappresentato la più numerosa e libera accademia itinerante che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto», per dirla con le parole di uno dei massimi conoscitori di questa epopea culturale, Cesare De Seta.
Giovan Battista Piranesi, Rython
Il Grand Tour è stato uno straordinario percorso di formazione che ha visto l’Italia, le sue ricchezze artistiche, il suo paesaggio ma anche la sua antropologia, come materia di studio per aristocratici, per artisti, scrittori, musicisti, scienziati. Durante quel lungo periodo di pace che va dal Trattato di Aquisgrana (1748) fino alla prima campagna napoleonica in Italia (1796) migliaia di personaggi di primo piano arrivarono nel nostro paese, concependo il viaggio come una straordinaria occasione di arricchimento personale ma anche come un titolo indispensabile per una progressione nella propria carriera. Si veniva in Italia per imparare, per ampliare i propri orizzonti, per plasmare il gusto, per tessere relazioni intellettuali e non solo. Quando si tornava al proprio paese, si riportava un bottino di conoscenze, di “souvenir” in forma di quadri o di stampe, ai quali spesso si aggiungevano reperti da collezionismo: un materiale affascinante e vasto che ora è al centro della mostra alle Gallerie d’Italia, curata da Fernando Mazzocca con Stefano Grandesso e Francesco Leone. Come ricorda Mazzocca nell’introduzione al catalogo, al Grand Tour era stata dedicata una grande mostra, con ben 265 opere, alla Tate Gallery di Londra nel 1996, poi esportata al Palazzo delle Esposizioni di Roma. In questa occasione si è voluto piuttosto spostare l’attenzione dai viaggiatori «agli artisti e a quei protagonisti che, come Winckelmann, Goethe, Madame de Staël, hanno dato corpo con le loro creazioni al grande sogno dell’Italia, consegnando la sua visione all’immaginario collettivo».
La mostra racconta l’altra faccia del Grand Tour: quella delle fucine, dei circoli, dei personaggi, artisti soprattutto, che con la loro intraprendenza, perizia e autorevolezza diventavano punti di riferimento indispensabili per i viaggiatori. Johann Joachim Winckelmann è certamente uno di questi. Tedesco, era arrivato a Roma nel 1755 al seguito del cardinal Archinto, nunzio in Polonia. I suoi studi in archeologia lo avevano portato a entrare in contatto con un altro cardinale, Alessandro Albani, la cui villa, fuori Porta Salaria, era un vero “museo parlante”, per la ricchezza di sculture antiche: Winckelmann divenne il bibliotecario di casa Albani. Nel 1764 aveva pubblicato la sua Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia dell’arte nell’antichità): un testo nel quale convergevano tutte le nuove conoscenze di carattere filologico, ma insieme si imponeva un nuovo approccio per «guardare i capolavori antichi secondo una concezione estetica che coinvolge la morale e il sentimento». Insomma si era imposto come un autentico influencer in grado non solo di orientare nella conoscenza dell’arte antica ma soprattutto di plasmare il gusto di quegli ambiziosi turisti.
Per rispondere alla domanda che veniva dai viaggiatori del Grand Tour, tanti artisti si mostrano molto abili nell’innovare la loro offerta, con soluzioni anche altamente sofisticate. È il caso di Giovanni Battista Piranesi, un veneziano emigrato a Roma, che era ricercatissimo per le sue straordinarie acqueforti con le vedute della città eterna. Erano immagini che destabilizzavano l’equilibrio del vedutismo settecentesco innescando una percezione drammatica e suggestiva dell’antichità classica. Goethe stesso sembra restarne influenzato come testimoniano le pagine con il suo addio a Roma: «Dopo aver disceso, forse per l’ultima volta, la lunga via del corso, salii al Campidoglio, che si ergeva come un palazzo fatato nel deserto. La statua di Marco Aurelio mi fece pensare al Commendatore del Don Giovanni…». Ma Piranesi in mostra è presente con un altro tipo di lavori, decisamente sorprendenti. Sono le sculture frutto di libere ricombinazioni di frammenti antichi con elementi moderni. Geniali pastiche, reinvenzioni fantastiche sul corpo di quegli spezzoni di antichità. Per realizzare questi suoi ibridi, raccontava un testimone oculare, Piranesi aveva fatto una raccolta così grande di marmi, «che oltre avere riempito tutta la sua casa ha preso moltissime botteghe nella sua strada che sono anche piene, e per tutto si lavora e tiene da trenta persone il giorno a lavorare li suoi marmi». Insomma una vera factory nel cuore di Roma. Nello suo studio di Palazzo Tomati si mettevano in fila in particolare i viaggiatori inglesi, che stipavano le navi sulla via del ritorno di oggetti da collezionismo, come l’incredibile Rython, esposto per la prima volta in questa occasione, con becco a testa di cinghiale, un vaso dalla simbologia fallica della virilità maschile che Piranesi aveva costruito attorno ad un reperto archeologico che costituisce la parte più alta del manufatto.
Giovanni Paolo Panini è un altro mattatore del Grand Tour, ricercatissimo dai viaggiatori che volevano riportarsi a casa quelle sue grandi vedute capaci di tenere insieme il fascino della Roma antica e delle sue rovine con la Roma grandiosa reinventata da Bernini. Panini era piacentino ed era arrivato nella città pontificia nel 1711. Scrive Mazzocca nell’introduzione che il suo segreto consisteva nel saper «ambientare in questi luoghi, come se fossero il palcoscenico di un teatro all’aperto». Un palcoscenico sul quale vediamo affacciarsi a volte anche gli stessi protagonisti del Grand Tour, come nel caso delle due grandi tele in mostra, che documentano le giornate romane di Carlo di Borbone, nel 1744: prima la visita alla Basilica di San Pietro con arrivo a cavallo e grande assembramento di gentiluomini e di curiosi, poi il ricevimento da papa Benedetto XIV Lambertini nella coffee house del Palazzo del Quirinale. Sul mercato del Grand Tour Panini aveva sbancato in particolare con l’invenzione dei suoi capricci, vedute non reali ma ideate delle quali era diventato maestro indiscusso. Come spiega Ilaria Sgarbozza nella scheda in catalogo della grande “Veduta” in mostra, «pescando da un repertorio pressoché inesauribile, con straordinaria facilità di rimodulazione, Panini inventa ogni volta una nuova immagine dell’Urbe». In questo caso l’artista aggiunge eccezionalmente ai monumenti aggregati nel paesaggio, delle didascalie, trasformando il quadro in una sorta di baedecker, ad uso di chi avrebbe ammirato il quadro nella country house di quel facoltoso viaggiatore, di cui si è perso il nome, che l’aveva commissionato.
Se uno dei grand tourists voleva portarsi a casa una istantanea molto speciale a sigillo del viaggio, poteva rivolgersi a Pompeo Batoni. Entrare nella sala centrale della mostra è come sfogliare un principesco album di questi signori in gran parte inglesi, immersi nelle meraviglie da cui erano stati conquistati. Sono ritratti e sono insieme degli status symbol, dall’impianto necessariamente classicistico che però, grazie all’abilità di Batoni, si sposa con la freschezza di un inedito naturalismo. Almeno 200 viaggiatori si avvalsero del servizio garantito da Batoni, abile nel venire incontro a tutte le possibilità economiche dei suoi committenti: dal ritratto a mezza figura si passava a quello a figura intera e a grandezza naturale, all’aperto oppure all’ombra di architetture sontuose. Per agganciare i suoi committenti Batoni si era fatto anche promotore di serate musicali in casa sua, con il coro delle otto figlie, tutte nubili…
Si può davvero dire che nell’Italia del Grand Tour, e non solo a Roma, si affermi la figura dell’artista imprenditore di se stesso, senza nessuna chiusura a chi arrivava da fuori. Ci si concepiva a 360 gradi, intercettando il gusto e i desiderata del mercato, superando quindi anche il meccanismo della committenza. Il caso del pittore francese Pierre-Jacques Volaire è emblematico. Arrivato in Italia nel 1764, si era trasferito definitivamente a Napoli nel 1769, sull’onda dei tanti viaggiatori attratti dalla città e in particolare dal Vesuvio. In quegli anni il vulcano era in attività, con una media di un’eruzione di ogni due anni, ed esercitava quindi un’attrazione fatale per chiunque arrivasse in Italia. Volaire si era specializzato in quadri che rappresentavano il Vesuvio in attività, in particolare con il valore aggiunto degli effetti suggestivi del chiaro di luna. Il suo studio era diventato meta obbligata: si poteva scegliere tra le tele già dipinte, o anche commissionarne una ex novo. Oppure l’artista offriva l’opzione di inserire le figurine in una tela già dipinta, in modo che il viaggiatore potesse riconoscersi. I quadri erano concepiti insomma come delle macchine pittoriche, pronte a venire incontro a tutte le esigenze dei clienti. In mostra è esposta la tela più grande che Volaire avesse dipinto, con l’eruzione vista dall’Atrio del Cavallo, la zona in cui si recavano i viaggiatori che intendevano salire a piedi sul vulcano per osservare un’eruzione da vicino. Un luogo che Volaire conosceva bene in quanto si prestava anche a far da cicerone ai suoi clienti, guidandoli sul vulcano. Le informazioni in materia non gli mancavano grazie alla presenza a Napoli di un padre della moderna vulcanologia, sir William Hamilton, ambasciatore inglese pere la corte di Napoli, altra figura chiave del Grand Tour, animatore di un affollatissimo salotto culturale e grande collezionista di vasi antichi.
Qualche viaggiatore lamentava il parassitismo in cui venivano abbandonate le rovine di Roma, perché nel Colosseo c’erano i letamai e le Terme di Caracalla erano state adattate a fienili. Eppure l’Italia si presentava come un paese con aspetti di modernità, grazie ad esempio ai primi musei aperti al pubblico, con le loro straordinarie collezioni di antichità: la fondazione dei Musei Capitolini risale al 1734, nel 1771 in Vaticano era stata la volta del Museo Pio Clementino. L’Italia conquistava i grand tourists anche grazie alla sua gente. Una delle sale più sorprendenti della mostra è proprio quella dedicata alla rappresentazione del popolo romano. Bartolomeo Pinelli è l’artista che era riuscito a diffondere presso l’intero pubblico europeo e poi americano questo nuovo mito con le sue incisioni. Ma furono in particolare alcuni pittori francesi (tra i quali anche il grande Théodore Géricault) a restare conquistati dal fascino di un’identità antropologica, che univa bellezza ideale e spontaneità umana. «Si assiste a una rivoluzione nella pittura di genere», scrive Mazzocca nell’introduzione, «dove gli umili sono ora rappresentati con la dignità e la fierezza che colpivano i viaggiatori». Sono le caratteristiche grazie alle quali una semplice ragazza, figlia di un vignaiuolo di Albano, Vittoria Caldoni conquistò l’attenzione di ben 50 artisti di ogni nazionalità e corrente artistica, che si cimentarono nel farne un ritratto: in mostra è esposto un busto della ragazza realizzato da Pietro Tenerani. La freddezza del marmo e lo schema un po’ ieratico si piegano ad accogliere alla pienezza fisica delle guance, del mento e in particolare delle bellissime labbra di Vittoria.
Il caso di Vittoria Caldoni con tutti i suoi risvolti è la sintesi di una stagione felice nella quale l’Itala era stata attrattiva per la bellezza del suo passato ma anche per la vitalità del suo presente. Alla fine del percorso viene da chiedersi se lo spirito del Grand Tour si sia davvero estinto o non sia rimasto nell’aria, al di là dei tanti hotel Bristol disseminati nelle nostre città. E se, ad esempio, quello spirito non sia da rintracciare nelle parabole di protagonisti del 900 come Balthus, Cy Twombly o lo stesso Picasso, con quel decisivo e liberatorio viaggio del 1917. In quegli stessi anni Henri Matisse usava in modo esclusivo una modella ciociara, Loreta Aprutino, da lui ribattezzata Laurette, i cui tratti sono ben riconoscibili in una cinquantina di opere del maestro francese. Loreta come Vittoria: se una mostra riesce ad innescare ipotesi che vanno al di là del suo perimetro, vuole dire che davvero funziona.
Una nota finale: un elogio a curatori e editori (Galleria d’Italia-Skira) per il catalogo dotato di schede delle opere molto complete, come purtroppo oggi raramente accade. Sono strumenti preziosi per ricostruire la storia delle opere e seguire il Grand Tour nella concretezza di mille dettagli.
«Giacometti iniziò a disegnare il mio volto con la matita su un foglio di giornale. Mi guardava in maniera talmente profonda che sembrava mi penetrasse, ma era una sensazione diversa da quella che si prova quando si viene fissati, era come se mi accarezzasse con gli occhi». In realtà più che di una carezza si era trattato di un vero colpo d’artigli. «Voglio fare il tuo ritratto», disse subito dopo Giacometti a Isaku Yanaihara, filosofo e poeta giapponese in missione a Parigi con una borsa di studio per approfondire la conoscenza dell’esistenzialismo. Erano seduti al tavolino di uno di bar di Montparnasse.
Giacometti e Isaku Yanaihara
Yanaihara era agli sgoccioli della sua permanenza in Europa: aveva un biglietto aereo per il ritorno di lì a pochi giorni, il 10 ottobre 1956. Non poteva immaginare quello che invece lo aspettava: oltre due mesi di sedute, con la conseguenza di continui rinvii della partenza per accondiscendere a Giacometti e a quella sua ansia estenuante. Perché proprio Isaku Yanaihara? Perché far da modelli all’artista svizzero bisognava avere doti speciali di ascetismo zen e di pazienza. Per anni aveva “macinato” con pose infinite prima la madre Annetta, poi il fratello Diego e la moglie Annette. Ora gli era capitato a tiro questo giapponese dai lineamenti assiri, che sembrava non avere un muscolo nel volto; così aveva messo in atto tutte le armi per non farselo scappare. «Per me il tuo naso è già una piramide. Il tuo volto è già una sfinge», gli aveva confidato durante una delle tante lunghissime pose. Yanaihara riuscì a partire solo due mesi e mezzo dopo, ma con la promessa di ritornare appena possibile. Tornò infatti nelle estati successive, fino al 1961: alla fine sono state conteggiate circa 200 giornate di posa, che hanno fruttato 21 quadri e due sculture. Yanaihara finite le sedute, aveva preso l’abitudine di stendere un diario su cui annotare in particolare le cose che Giacometti diceva: frasi che sono il sismografo di un autore sommamente inquieto, sempre inappagato dal proprio lavoro, che tante volte veniva distrutto a fine giornata per la disperazione del povero modello. Questo diario, sistemato in una narrazione che a volte procede sin troppo libera, è diventato un libro uscito in Giappone nel 1969 e oggi opportunamente pubblicato in Italia da Giometti & Antonelli, con la traduzione di Isabella Dionisio (220 pagine, 26 euro).
Nei suoi aspetti più collaterali il libro è uno spaccato concreto della quotidianità di un artista che lavorava e viveva con la moglie Annette nello spazio angusto del leggendario studio di Rue Hippolyte-Maindron, una via così secondaria, da esser spesso fuori dai radar dei taxisti parigini. Non c’era acqua corrente e non c’era cucina, per cui la coppia non mangiava mai a casa. La lampadina che pendeva dal soffitto faceva una luce flebile così quando le pose si prolungavano nella notte, il ricordo di Yanaihara è quello di Giacometti che lavorava nel semibuio, mentre dalla stanza affianco arrivano le note dei dischi che Annette amava ascoltare aspettando che la seduta finisse. A volte capitava che fosse Annette a fargli notare che stava lavorando quasi completamente al buio. E in quei casi poteva ricevere risposte sibilline come queste: «Yanaihara lo vedo benissimo, quello che non vedo è il modo in cui riuscire a rappresentarlo. Eppure lo vedo così bene».
Non era semplice posare per Giacometti anche per un personaggio di calma glaciale come il filosofo giapponese. Il senso del fallimento incombeva su ogni istante. A volte erano vere esplosioni di rabbia contro se stesso, perché troppo lontano dal risultato atteso. «Dipingere un quadro è un po’ come partecipare a una guerra. Esattamente la stessa cosa, io stesso ne ho paura», diceva. Non c’è guerra se non c’è il nemico, e il nemico era il volto di Yanaihara. Sosteneva che quel volto lo terrorizzava, tanto da provare paura ad avvicinarlo: «La punta del naso è come una lama di un rasoio, fa paura. Non ho il coraggio di toccarla». «Oh, Yanaihara, profeta della mia disperazione e della mia miseria», si legge sulla pagina di diario del 15 ottobre.
Tante volte il discorso di Giacometti cade su Cézanne, con il precedente delle 120 sedute per il ritratto di Vollard. Sull’inserto letterario del “Figaro” era stato pubblicato un brano del diario inedito di Maurice Denis, dove era riportato anche un dialogo con il vecchio maestro post impressionista. «Le sensazioni sono importanti quanto le teorie. Ho tentato in tutti i modi di rappresentare la natura, ma alla fine no ci sono riuscito», erano le parole di Cézanne, che come un punteruolo producevano pensieri ossessivi nella testa di Giacometti. «Bisogna trovare un sistema di regole da seguire per rappresentare la realtà in maniera corretta. Qualcosa del genere deve per forza esistere. Gli egizi, per esempio, ci erano arrivati. Cézanne lo ha cercato per tutta la via. I pittori contemporanei ormai non lo cercano neanche più».
Nelle pause delle lunghe sedute di posa Giacometti si infilava in qualche bar o ristorante. Un giorno sedendosi al tavolino di “Aux Tamaris”. «un locale senza pretese», si era trovato davanti uno specchio ancora segnato dai fori degli scontri a fuoco tra nazisti e rappresentanti della Resistenza. È un’immagine che gli fa ricordare Francis Gruber un pittore, a cui era molto legato e di cui aveva grande stima, che aveva preso parte a quei combattimenti. «Guardando le spaccature dello specchio Giacometti parlò con grande commozione del lavoro e della vita di Gruber», scrive Yanaihara. Non riferisce cosa disse, ma basta questa semplice notazione di passaggio per evocare la sensazione di concordanze profonde.
Ogni tanto nello studio arrivava Jean Genet, l’unico che poteva permettersi di interrompere il lavoro di Giacometti. «Un vero mostro di seduzione», annota Yanaihara. «Si metteva di fianco a me, che non gli davo neanche la mano per evitare di muovermi e mi fissava dicendo: “Quanto zelo!”». Nel suo meraviglioso libro “L’atelier di Giacometti”, Genet riporta le sue impressioni su quelle visite: «Durante tutto il tempo in cui lottò con il viso di quel giapponese davanti a me vedevo lo spettacolo di un uomo che non commetteva nessun errore, ma che stava perdendo se stesso».
All’ansia di non riuscire ad agguantare il ritratto si aggiungeva anche quella di non poter disporre del modello a tempo indeterminato: Giacometti aveva sempre davanti la scadenza del nuovo biglietto aereo di Yanaihara che si avvicinava. Pur di trattenere l’amico giapponese e di convincerlo a nuovi rinvii, non esitò a favorire una sua relazione con la stessa Annette. Era stata la stessa Annette a prendere spavaldamente l’iniziativa facendosi invitare da Yanaihara nel suo albergo. «In breve si tolse di dosso tutti i vestiti che aveva e venne sul mio letto», racconta. Il giorno dopo, tornando a posare, il giapponese era preoccupato delle reazioni che l’artista avrebbe potuto avere. Ma Giacometti, che evidentemente sapeva tutto, sgombrò subito il campo: «La gelosia è ciò che odio di più e in me non ce n’è neanche un briciolo. Amare Annette significa rispettare la sua libertà, non sei d’accordo? Annette è sempre stata una donna molto libera ed è per questo che la amo». In sostanza l’artista aveva architettato un gioco a tre, con lui in posizione del tutto platonica ma certo di poter contare su quel modello, che sentiva lo avrebbe portato vicino ai volti agognati della ritrattistica di El Fayum. «Quello che c’è tra noi tre trascende la comprensione del mondo», concludeva Giacometti con un’enfasi un po’ sospetta… Con più sincerità in un’altra occasione aveva confessato il suo vero sentimento: «Come sarebbe bello poter dipingere il tuo volto come sto facendo ora, ma per tutta la vita, senza mai smettere». Il sogno di “un portrait sans fin”…
C’è un supplemento di magia in questa ritorno del Realismo magico a Milano, dopo il precedente del 1989 curato da Maurizio Fagiolo dell’Arco. La mostra ha infatti una doppia dedica ad Elena Marco e a Emilio Bertonati. Elena Marco è la moglie, scomparsa prematuramente nel 2020, di Mario Bellini, architetto ed eccezionale collezionista degli artisti di questa stagione contrassegnata da quel plausibilissimo ossimoro. Bellini, oltre ad essere il più importante prestatore, ha firmato anche l’allestimento delle sale di Palazzo Reale; un allestimento calmo, ritmato, con un marrone elegante ed uniforme che cala il visitatore in quel presente sospeso. Emilio Bertonati invece è il gallerista, collezionista, e critico che negli anni 70, con grande fiuto e determinazione, aveva riscoperto la Nuova Oggettività tedesca e il suo addolcito contraltare italiano (“Realismo magico”, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, fino al 27 febbraio, catalogo Sole24Ore cultura).
Il Realismo magico non è stato istanza organizzata alla stregua di un movimento, ma una posizione tacitamente condivisa sull’onda di quel “Rappel à l’ordre” raccomandato da Jean Cocteau con i suoi saggi scritti all’indomani della grande carneficina della Guerra Mondiale e profeticamente anticipato da maestri disallineati come André Derain e Giorgio De Chirico. È un momento breve, circoscrivibile alla prima metà degli anni ’20, anche se, per tanti protagonisti, quella stagione era destinata a prolungarsi e a consolidarsi come una grammatica visiva alla quale restare agganciati.
Era stato un critico tedesco, Franz Roh, a coniare nel 1925 l’ossimoro per descrivere un fenomeno che coinvolgeva tutta l’Europa. La declinazione italiana era marcatamente segnata da un ritorno alla tradizione e in particolare ad una visione neo quattrocentesca che Carlo Carrà per primo aveva indicato come riferimento per una pittura che voleva lasciarsi alle spalle il disordine delle avanguardie e il furore dell’espressionismo. «Faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi», scriveva Carrà in una lettera a Giovanni Papini. Nell’introduzione al catalogo Valerio Terraroli parla di «un generale richiamo, arrivato dalle pagine di “Valori Plastici”, a una sobrietà atemporale, in cui la forma trionfa sull’indistinto e la plasticità si fa severa e architettonica».
A fondare “Valori plastici” era stato, insieme alla moglie Edita, Mario Broglio, che oltre a mettere in atto in quanto artista quella nuova visione, si era rivelato un formidabile propagandista, esportando già nel 1921, le opere dei colleghi del Realismo magico in Germania. Broglio con Edita sono due figure centrali nel percorso a Palazzo Reale. La loro è una declinazione morbida del ritorno all’ordine, tenue nei toni, e del tutto antitetica alla retorica del Novecento, teorizzato da Margherita Sarfatti. È una situazione che può far pensare ad un ripiegamento in una dimensione di intimismo, ad una chiusura dell’arte su se stessa, come in un microcosmo parallelo in cui valgono riferimenti formali fuori dal tempo (Casorati e i due Broglio tornano anche a dipingere su tavola, quasi per obbligarsi ad una disciplina neo quattrocentesca). In realtà dentro il guscio protettivo di questo ritorno all’ordine c’era spazio per una complessità e per avventure innovative e illuminate come quella che vide protagonista a Torino Felice Casorati, in dialogo serrato con il collezionista Riccardo Gualino. In una delle sale più belle della mostra milanese, i Gualino, rispettivamente padre, madre e giovane figlio, con i loro ritratti frontali e cristallizzati, sembrano farsi spettatori delle due ballerine Cynthia Maugham e Raja Markman, ugualmente immortalate da Casorati, in due quadri davvero magici, ed esposti sulla parete di fronte. Creature dai lineamenti fatati e sottilmente malinconici, Cynthia e Raja erano state chiamate da Cesarina Gualino per dar vita ad un laboratorio di danza moderna nel teatrino privato costruito in via Galliari, inaugurato nel 1925. Casorati si era occupato della decorazione interna del teatrino. Nel 1930 avrebbe sposato Daphne, la sorella pittrice di Cynthia.
L’aver pensato la mostra anche come un omaggio ad Emilio Bertonati ha suggerito ai curatori Gabriella Belli e Valerio Terraroli, di inserire nel percorso alcune testimonianze della Nuova Oggettività tedesca. Sono inserimenti sempre precisi e tematicamente pertinenti, che rendono evidente la differenza di temperatura tra le due esperienze. “L’imprenditore” di Heinrich Davringhausen è un ritratto spietato, emblema di un capitalismo che si preparava a consegnare la Germania al nazismo. I due paesaggi di Franz Radzwill prefigurano scenari tempestosi, con cieli di tenebra solcati da luci bellicose: la storia preme drammaticamente e finisce con lo scuotere l’ordine ritrovato della pittura.
Il coté italiano, per quanto si misuri con il fascismo già in atto, invece si muove su registri molto più pacati e antipolitici: del resto, come sottolinea Gabriella Belli nel testo in catalogo, questo era un modo per sottrarsi «dall’asservimento al movimento di Novecento di Margherita Sarfatti, con il quale il Realismo magico è sempre stato ambiguamente confuso, ma dal quale si distingue profondamente per contenuti e modi». La differenza radicale con Novecento è testimoniata dal caso di Cagnaccio di San Pietro, la presenza «più dura e inclemente» e forse per questo più intrigante del Realismo magico. Il suo “Dopo l’orgia” (1928) era stato rifiutato dalla Biennale presieduta proprio da Margherita Sarfatti. Dal polsino abbandonato sul pavimento spuntava infatti un gemello decorato con l’insegna del fascio, denuncia sottile ma feroce al “machismo” di regime. Paradossalmente Cagnaccio era invece piaciuto ad Hitler: in visita alla Biennale del 1934, aveva puntato gli occhi sul suo ritratto di “Randagio”, un ragazzo derelitto che allunga la mano per chiedere l’elemosina. L’artista non voleva saperne di cederlo al dittatore, ma alla fine, messo sotto pressione, dovette arrendersi. Ne fece subito una replica, che oggi è custodita al Mart.
Cagnaccio, al secolo Natalino Bentivoglio Scarpa, era stata una scoperta di Emilio Bertonati. Nel 1971 gli aveva dedicato una personale alla Galleria del Levante di Milano che nel sottotitolo veniva definita “Prima retrospettiva”, come a sottolineare la dimenticanza in cui l’artista era stato colpevolmente relegato dopo la sua morte avvenuta nel 1946. Il testo del catalogo era firmato da Giovanni Testori, che in quegli anni collaborava in modo sistematico con il gallerista, curando tra le altre cose, in quello stesso anno, la prima grande mostra pubblica sulla Nuova oggettività alla Rotonda della Besana di Milano, in anticipo sulla stessa Germania. Testori era anche collezionista e tre dei Cagnaccio presenti in mostra conservano ancora le cornici che avevano quando erano appesi ai muri della casa novatese dello scrittore.
Con Cagnaccio inevitabilmente sale la tensione drammatica della mostra e cambia anche il campionario umano dei soggetti, presi dal popolo e non più da quell’élite colta e illuminata. Il ritorno all’ordine diventa così per lui una formula per rappresentare, con precisione icastica, gli squilibri sociali di quel tempo. Non solo sociali, ma anche di genere, come nel caso di “Primo denaro”, un capolavoro del 1924, dove vediamo lo scorcio violento di una figura femminile nuda, addormentata al fianco del piattino con il compenso per la sua prestazione: dettaglio drammatico e crudele. La conclusione è quindi, inevitabilmente, nel segno della pittura di Cagnaccio, chirurgica e accorata nello stesso tempo. La magia lascia il campo ad un’amarezza, inevitabile riflesso della storia.
Pubblicato su Alias, 8 gennaio 2022
Bentivoglio Scarpa Natalino detto Cagnaccio di San Pietro, Dopo l’orgia, 1928,
Racconta Pietro Consagra nella sua autobiografia che in una delle periodiche visite a New York dove vivevano la moglie Sofia con i quattro figli, venne indotto a fare un’esperienza psichedelica. «Disegnavo su dei fogli che mi avevano dato e guardavo i fiori emettendo luci colorate. Vagavo nell’infinito vuoto… Poi una sensazione cominciava a vivere, una voglia di capire e di tornare. Era un ritornare giù a rimbalzi… Il rientro è stata una grande gioia di sentire tutto di me».
Era il 1966. Nel dicembre di quell’anno Consagra avrebbe presentato alla Galleria Marlborough di Roma dei lavori nuovi, inaspettati: ferri girevoli colorati, accompagnati da una serie di pannelli dipinti. L’anno dopo la stessa galleria portò quei lavori a New York. «Una mostra delicata come un velo», commentò l’artista, che aveva parlato anche di una ritrovata tenerezza nei confronti della propria scultura. Per lui erano anni di grandi sconquassi, sul piano artistico e su quello privato. Nel 1964 il trionfo della Pop Art alla Biennale era stato vissuto da lui come «sopravvento che non lascia aria da respirare… dentro il mio cuore entrava un mattone». L’arte americana risucchiava quella europea, come aveva amaramente constatato Roberto Longhi nel suo ricordo di Giorgio Morandi trasmesso dal Telegiornale Rai nel giugno 1964: “Exit Morandi”, arrivano i barbari. Per Consagra il problema si poneva in termini personali ancora più drammatici. Militante del Pci, aveva combattuto i paladini del realismo, da Guttuso a Trombadori, che avevano monopolizzato la linea culturale del partito. Per questo, con tutti gli amici del gruppo Forma 1, era stato accusato di accondiscendere, con la scelta per l’astrattismo, ad un’arte individualista e borghese. «La mia barca era travolta dall’oceano. Il nostro modernismo era stato solamente provocatorio?», si domandava Consagra. A tutta questa inquietudine e senso di fallimento si aggiungeva anche la dolorosa crisi del suo matrimonio e l’inizio della relazione con Carla Lonzi. «Mi ero aggrappato a Carla», racconta l’artista. Una presenza preziosa per la sua intelligenza ma soprattutto per quel suo porsi oltre i conflitti e i travagli che avevano contrassegnato il Dopoguerra. Lei aveva un approccio completamente diverso: «Faceva la critica d’arte e si occupava delle proposte dei giovani artisti».
È in questa situazione di passaggio e di precarietà che in modo inatteso Consagra apre al colore: un colore delicato, estraneo a quello plateale della Pop art. Lo scultore siciliano si aggancia piuttosto alle esperienze di Calder e di Ellsworth Kelly per approdare ad una situazione che Maurizio Calvesi, nell’introduzione alla mostra della Galleria Marlborough aveva sintetizzato in modo perfetto: «Questa scultura non celebra più un incontro, un colloquio, una libertà dai chiari connotati politici e democratici, ma celebra una nascita, una libertà senza programmi e senza aggettivi». “Colloqui” era il titolo assegnato ad una serie opere che avevano segnato il decennio tra 1952 e 1962: opere che cercavano una relazione diretta e frontale con l’osservatore, in una prospettiva sempre orizzontale. L’astrattismo per Consagra era tutt’altro che un linguaggio fine a se stesso, ma in costante dialogo con la società, con la sua energia di libertà capace di proporre una spiritualità come provocazione e di destabilizzare i processi di massificazione.
Quando questa visione entrò in crisi, fu il colore a offrirsi come via di uscita. È la “nascita” di cui parlava Calvesi nella presentazione del 1966 e che ora è al cuore della mostra proposta a Lugano negli spazi del Masi e ideata da Giancarlo e Donna Olgiati, collezionisti, amici e sostenitori del lavoro dell’artista (“Pietro Consagra. La materia poteva non esserci”, a cura di Alberto Salvadori, fino al 9 gennaio; catalogo Mousse). Come sottolinea Lara Conte in uno dei saggi in catalogo, Consagra aveva individuato nel colore «una possibilità trasformativa della scultura e una libertà espressiva del fatto scultoreo, tuttavia lontana dall’attrazione Pop». In mostra lo spazio che accoglie questa serie di lavori del biennio 1965/66 è isolato strategicamente dai “Lenzuoli”, grandi teli dipinti con colori lavabili e realizzati dall’artista a partire dal 1967 e posizionati come veri sipari. Sulla superficie delicata e bianca Consagra annota in modo ritmico e ordinato dei flussi di immagini, che sembrano tracce, impronte di sculture immaginate. «Un terreno fertile di sperimentazione, analisi, verifica e inventario delle idee», li definisce Paola Nicolin nel saggio in catalogo. La leggerezza ariosa del supporto e la natura vagante di queste forme preparano l’occhio all’apparizione delle sculture colorate che sbucano in questo spazio così brutalmente contemporaneo come un imprevisto prato fiorito.
I lenzuoli hanno una doppia funzione strategica: da una parte separano lo spazio, dall’altra introducono a quella dimensione di leggerezza che contrassegna questi lavori di Consagra. Non è un caso che nei titoli, oltre ai colori relativi di ciascuna opera, troviamo spesso la formula “Ferro trasparente”. Le sculture infatti non sono solo sottili, ma lasciano passare l’aria nel gioco delicato di vuoti che si crea con il giustapporsi delle lamine metalliche. Sono leggere e si reggono spesso su supporti esili come dei veri steli. Sembrano un aggregarsi di petali che generano forme docili e insieme molto contemporanee. Quanto ai colori, rivelatori di una pulsione dichiarata verso la pittura, sono concettualmente i più lontani dalla tavolozza Pop: turchese, rosa, violetto, bianco, arancio, “blu Cimabue”, carminio. Colori dialoganti, discorsivi che riaffermano la natura “non autoritaria” della scultura di Consagra. Colori pastello, come di un artista che riassapora gioie infantili e si avventura negli spazi di una inedita libertà.
C’è evidentemente un cambio di passo con la stagione precedente, documentata in mostra da lavori celebri e anche potenti come “Impronta solare” (1961) e “Colloquio fermo” (1959). Permane la frontalità della scultura, ma le opere colorate si lasciano alle spalle quel «piglio forte e diciamo pure macho» come lo definisce Andrea Cortellessa nel suo saggio in catalogo, mettendolo in relazione con una componente opposta del suo temperamento: la fragilità emotiva e una dimensione di paura spesso dichiarata: «La sofferenza mi atterrisce», confessa in “Vita mia” (l’autobiografia è stata ripubblicata da Skira). E ancora: «Sostengo la necessità dell’arte perché ho paura».
Completa il percorso di questa mostra uno spazio dedicato alle “Città frontali”, esperienza della fine degli anni ’60, che fa sintesi delle stagioni precedenti. Riemerge la necessità di un discorso pubblico che Alberto Salvadori definisce come un tentativo di «delineare un umanesimo contemporaneo». La città è spazio amato, è «un argomento di emozioni umane». Per questo Consagra non può accettare che la scultura sia un semplice riempitivo alla progettualità degli architetti e vuole giocarsi a livello di concezione delle forme della città. Che forse proprio in virtù dell’esperienza con la scultura a colori, appaiono futuribili ma addolcite dal fluire di linee che le fanno essere molto umane.
La scelta di ricorrere alle impronte digitali degli artisti per il manifesto e la copertina del catalogo di Corpus Domini, la mostra aperta a Palazzo Reale a Milano, suona come una chiara dichiarazione programmatica: il primo corpo con il quale si deve fare i conti è proprio il corpo dell’artista. Le impronte degli artisti viventi ci sono quasi tutte (Roberto Gober ha mandato un certificato di nascita). Per quelli che invece non ci sono più, hanno messo i loro pollici i componenti del team curatoriale. La sequenza di impronte manda un doppio messaggio. Da una parte ci dice che i corpi non sono astrazione, ma ingombrano e sporcano sempre la storia con la loro scia di fisicità. Dall’altra parte ci avverte che sui corpi oggi incombe l’invasività di un controllo sempre più pianificato.
Nelle sale di Palazzo Reale, dove la mostra concepita da Francesca Alfano Miglietti è stata allestita, i corpi, o ciò che potentemente li evoca, hanno potuto mettere in scena una loro rivincita. Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima è un progetto di lungo corso, cullato dalla curatrice con la complicità di un personaggio unico come Lea Vergine, cioè di colei che già nel 1974 aveva esplorato l’esperienza della Body art. A Lea Vergine è dedicata infatti la prima sala del percorso, con una vetrina dove sono raccolte le sue pubblicazioni che testimoniano un’attenzione quasi militante sul tema del corpo nell’arte. Lea Vergine a Palazzo Reale aveva curato nel 1980 una mostra storica, quella dedicata all’Altra metà dell’avanguardia. È proprio grazie alla progressiva, crescente spinta impressa dalle artiste con la loro sensibilità che nel corso del Novecento il mondo culturale è tornato a fare i conti con l’irruzione dei corpi sulla scena dell’espressione figurativa: l’esperienza di Louise Bourgeois, purtroppo assente in questa mostra, ha rappresentato da questo punto di vista un passaggio capitale a partire dalla fine degli anni Quaranta, con la scelta di mettere al centro del proprio lavoro la sfera delle relazioni intime, dando loro forme poetiche, disinibite e potenti.
«Quella pensata insieme a Lea», scrive Alfano Miglietti nell’introduzione al catalogo pubblicato da Marsilio, «era “La mostra sul corpo nell’arte”, una mostra sul corpo nell’arte del Novecento, un’esposizione che avrebbe somigliato alle ricerche di entrambe, vicine e diverse. Corpus Domini nasce come progetto altro, come necessità di spostamento». Lo spostamento ha portato a orientare il progetto dall’orizzonte della Body Art a quello dell’Iperrealismo e soprattutto a dare spazio alle istanze dettate dal presente, a cominciare dall’emergenza dei corpi migranti. Si tratta di un’emergenza che ha anche delle ricadute concettuali, perché in tanti casi ci troviamo di fronte a corpi cancellati, che si palesano quindi sotto altre specie.
Nel percorso della mostra si può ad esempio intercettare un filone di opere che parlano dei corpi attraverso gli involucri che li hanno ospitati, gli abiti in primis. In una delle prime sale ci si imbatte nella montagna nera di Le Terril Grand-Hornu, una delle ultime opere di Christian Boltanski. Le Grand-Hornu è una regione mineraria del Belgio; troviamo ammucchiati, fino a sfiorare il soffitto della sala, sotto una luce fioca, migliaia di vestiti da lavoro scuri che richiamano quelli indossati per tanti anni, ogni giorno, dai minatori. Abiti densi di corpi che hanno assorbito l’oscurità della terra.
C’è molta densità anche nell’opera di Kimsooja. L’artista coreana è presente con quattro dei suo Bottari, fagotti fatti con lenzuoli colorati che contengono tutto il necessario per esistenze nomadi: sono i lenzuoli in cui si viene avvolti alla nascita e con i quali si viene sepolti nel momento della morte. Curiosamente anche Dayanita Singh espone dei fagotti, questa volta in fotografia: si tratta di tessuti sfumati di rosso che custodiscono plichi di documenti presi da archivi indiani. Time Measures è il titolo dato a queste opere, chiamate ciascuna a nascondere e proteggere i dati di una vita. Il muro di valigie di Fabio Mauri evoca invece abiti che sono stati drasticamente separati dai rispettivi corpi; Il Muro Occidentale o del Pianto è come un deposito bagagli ab aeternum, perché nessuno passerà mai a ritirarli. Sul muro una piccola edera rampicante stende pietosamente i suoi rami. Lo fronteggia un altro muro, costruito con bauli metallici made in Cina, dall’aspetto molto aggressivo e carcerario: al centro uno schermo mostra l’esecuzione capitale di un giovane attivista arrestato nei giorni della rivolta di Piazza Tienanmen.
Nella sala contigua centinaia di scarpe legate da una raggiera di fili di cotone rosso “camminano” in assenza di corpi: Chiharu Shiota, un’artista giapponese che si era fatta notare con un’installazione ugualmente corale all’ultima Biennale, le ha volute tutte spaiate. Sembra un’opera nata da un tacito patto di condivisione a distanza e i fili, con quell’andamento così ordinato e lirico potrebbero simboleggiare l’aspirazione, spesso repressa, a sperimentare percorsi comuni.
L’Iperrealismo è l’altra nota dominante della mostra e introduce il tema dell’assedio che consumismo e tecnologia hanno portato alla realtà fisica dei corpi. L’Iperrealismo taglierà a breve il traguardo di cinquant’anni di storia, essendo uscito allo scoperto a documenta 5 di Kassel nel 1972, ma la sua parabola è tutt’altro che esaurita: in mostra si va dall’opera di John Deandrea del 1971, passando per il classico Douane Hanson e approdare a Marc Sijan e Gavin Turk, tutt’e due con lavori del 2015. Un’energia manipolatoria fa irruzione invece nella scultura di Marc Quinn, interprete di inquietanti scenari del post umano con il suo uomo gravido o con la Venere metropolitana plasmata in cemento e incisa di cicatrici.
Se un appunto si può fare a questo progetto espositivo, è quello di non avere fatto pienamente i conti con il titolo, così potente ed evocativo. Corpus Domini contiene quel genitivo che, oltre a essere fattore cardine per chi crede, è anche un fattore che innesca una quantità di ipotesi di lavoro e di suggestioni, come si può evincere dal bel testo in catalogo del cardinal Gianfranco Ravasi, come pure da quello di Chiara Spangaro. Del resto ci sono opere in mostra che possono anche essere lette in raccordo con quel titolo: lo struggente busto d’uomo di Zharko Basheski, artista macedone, è in fondo un contemporaneo Cristo agonizzante; gli organi umani ricostruiti nella fragilità del vetro e disposti sul tavolo da Chen Zen sono come commoventi reliquie di un corpo sociale che chiede un senso per le proprie sofferenze. E il continuo ritorno dei vestiti come materiali sui quali tanti artisti lavorano, richiama la veste di cui Cristo è spogliato e che viene giocata ai dadi dai suoi aguzzini.
Quel titolo ha infatti un tale contenuto di storia e di memoria che non si può pensare risuoni neutro e non chieda di stabilire dei raccordi. Del resto il “corpo glorioso” evocato nel sottotitolo per indicare una situazione relativa al passato, nella gran parte dei casi era anche un corpo ferito, segnato da altre “rovine”. Basta entrare in Duomo per rendersene conto: come ogni anno in questo periodo, tra le navate sono esposti gli straordinari quadroni con storie e miracoli di San Carlo, iperbolica rappresentazione di una fisicità assediata da un’altra dolorosissima pandemia di oltre quattro secoli fa. Attraversare la piazza e andare a vederli è un utile completamento all’esperienza di questa mostra.
Pubblicato su Domani, 14 novembre 2021
Antony Gormley Creta / Clay, (14 elementi / elements) Courtesy l’artista / the artist e / and Galleria Continua Foto: Stephen White & Co.
L’opera da cui prende avvio la bella mostra di A. R. Penck allestita al Museo Comunale di Mendrisio è un’opera che sgombera subito il campo. “Standart”, 1969, rappresenta la sagoma sintetica di un uomo in posa simil vitruviana. È dipinta in stile graffiti con un segno nero, drastico e semplice, su una tela trattata come un muro. Penck aveva ammesso che l’ispirazione gli era venuta dai disegni visti sulle pareti dei bagni pubblici; in quei prototipi aveva poi immesso l’energia di una primitività contemporanea. Non ci sono riferimenti alla cultura figurativa occidentale, dato che la cortina di ferro, come lui ha testimoniato, era impermeabile al passaggio delle immagini. È un’opera che immediatamente richiama la grammatica visiva di Keith Haring e di Basquiat: ma in quel 1969 loro avevano rispettivamente 11 e 9 anni…
“Standart” non è semplicemente un titolo, è molto di più. “Stand”, che sta per “presa di posizione”; la parola risuona anche come “stendardo”, quindi bandiera, vessillo di un’arte appunto tutta nuova. “Standart” è un progetto radicale, «una ricerca sulla natura dell’immagine che ne metta in luce le potenzialità di espressione simbolica», scrive Ulf Jensen in uno dei saggi del catalogo. Penck lo definisce così: «Un sistema di segni fatto in modo tale da non essere solo percepito e imitato, ma anche prodotto, moltiplicato e operativamente modificato». Per l’artista quella sua stagione nell’Est finito sotto il comunismo sovietico, era stata la stagione dell’innocenza. C’è in effetti un che di potentemente innocente nell’idea di innescare la produzione libera di un linguaggio visivo più ampio e più comprensibile di qualsiasi espressione linguistica.
A.R. Penck era nato invece nel 1939 a Dresda. Il suo nome reale era Ralf Winkler. Nel 1968 aveva scelto lo pseudonimo ispirandosi ad uno studioso di geologia dell’era glaciale, Albrecht Penck, che aveva esplorato la stratigrafia dell’era del Pleistocene. La sua biografia corre in parallelo con quelle di George Baselitz e Gerhard Richter, ma a differenza loro aveva scelto di restare molto più a lungo nella Germania dell’Est, coltivando appunto quel suo sogno di innocenza. Un sogno che consisteva anche nel dar corpo a un linguaggio artistico alternativo al dogma del realismo socialista, capace di uscire «da una dimensione personale per abbracciare la realtà nella maniera più ampia possibile», come scrive Simone Soldini curatore della mostra, insieme allo stesso Ulf Jensen e a Barbara Paltenghi Malacrida (“A. R. Penck”, fino al 13 febbraio 2022). “Weltbilder”, “quadri-mondo”, è non a caso il titolo di una serie di opere dei primi anni Sessanta, ben rappresentati in mostra, in cui Penck comincia a elaborare un linguaggio visivo chiaro e diretto. Il suo orizzonte fin da subito è il mondo che lo circonda, che vorrebbe dotare di un modello espressivo in grado di dare informazioni attraverso la semplicità delle immagini. Con l’energia del neofita, si fa notare per opere clandestine, dal messaggio molto chiaro: “Wandbild. Das Geteilte Deutschland” (“Murale. La Germania divisa”) è un intervento realizzato nel 1962 nel seminterrato di una Casa dello studente ed è la prima rappresentazione del paese tagliato dal Muro di Berlino. Era un’esplicita sfida al potere, dove il leader del partito Walter Ulbricht veniva rappresentato come uno schiavista.
Penck approfondisce il suo progetto “Standart” studiando la cibernetica; lo concepisce come contributo alla costruzione del socialismo, attraverso il modello di una nuova pratica artistica. Ma la crisi del 1968, con i carri armati russi a Praga, segna un punto di non ritorno. Penck viene dichiarato «artista asociale» e nonostante la grande popolarità che si era conquistato è costretto a sparire dalla scena pubblica.
In realtà sul suo percorso paradossalmente pesò di più un riconoscimento che non questa censura. Nel 1972 infatti Harald Szeemann, che aveva avuto modo di conoscere direttamente il suo lavoro, lo aveva invitato in documenta 5 a Kassel includendolo tra le “mitologie individuali” messe in atto dagli artisti nel dopoguerra. Evidentemente si era creato un corto circuito nella ricezione del suo progetto: “Standart” non intendeva assolutamente essere la creazione di una mitologia personale ma aveva l’ambizione di proporsi come modalità linguistica libera, creativa e replicabile; una modalità al passo con i tempi, dato il progressivo prevalere della comunicazione per immagini rispetto a quella per parole.
Per Penck si apre una nuova stagione, che passa anche dalla fatica di una crisi personale. Nel 1977 scopre la scultura, anche grazie alla vicinanza con un altro protagonista di questa stagione dell’arte tedesca, Markus Lüpertz. Come scrive Soldini in catalogo, Penck «trova una via di uscita grazie ad un pezzo di legno che tiene da tempo sotto il letto e che ora prende a colpi d’accetta». La scultura per lui è un altro modo per abbracciare la realtà: «Ho bisogno di realtà. Qui dove tutto succede davvero», dice. Le sculture sono una delle sorprese della mostra e s’impongono per questo senso di immediatezza e di rapidità gestuale trasferita però nella stabilità del bronzo. Il legno spesso fa da matrice, ma a differenza di Baselitz, Penck sceglie di solidificarlo nel metallo, per accentuarne il peso di realtà.
Nel frattempo Penck continua ad elaborare pensieri pittorici riempiendo centinaia di quaderni di appunti visivi: in mostra ne sono esposti una ventina; altri, con un intelligente sistema di proiezione, vengono anche sfogliati, in modo che ci si possa rendere conto della coerenza che li caratterizza. L’arrivo a Ovest nel 1980 significa «la perdita della mia innocenza», come lui stesso confessò. «Dovevo trovare una mia nuova collocazione». Infatti vediamo come in “Standard West”, del 1981, la carica icastica delle sue figure sia subito chiamata a fare i conti con un caos che ne mina le radici. Per questo Penck cerca uno “Sguardo in avanti”, come sottolinea nel titolo di un bellissimo acquerello in mostra, ma resta fondamentalmente fedele a se stesso e a quella sua propensione a raccontare il mondo più che se stesso. Anche nella serie degli Autoritratti, è l’occhio sgranato, puntato sulla realtà a fare da perno. Intanto Penck elabora una sua cosmogonia nella quale continua a inglobare la storia e la politica. Esemplare il caso del grande quadro “How it Works”, dipinto in America nel 1988 in occasione della mostra alla Galleria Hofmann di Los Angeles, che suona come una potente metafora dell’aggressività del liberalismo. Invece in “The Battlefield”, tela di oltre 10 metri di lunghezza, riprende il modello dei “Weltbilder” per una visionaria e selvaggia rappresentazione del mondo nell’anno della caduta del Muro: una sorta di big bang pittorico. Nel 2013, poco prima dell’ictus che lo avrebbe costretto, all’inattività, dipinge “Aquila e serpente – pianeta nero”, quasi metafora della globalizzazione, che nell’immediatezza comunicativa dell’immagine richiama ancora l’efficacia della “Standart”.
Una parola infine per la mostra che si collega idealmente a quella dedicata nelle stesse sale a Per Kirkeby nel 2017. Si tratta di due artisti che vengono dalla scuderia del grande gallerista Michael Werner (prestatore di quasi tutte le opere esposte) e che sono stati pochissimo visti in area italiana. Anche in questo caso l’allestimento è inappuntabile e restituisce intatta l’energia e la freschezza di un artista «dalla straordinaria energia sobillatrice» come lo definisce Enzo Cucchi, intervistato da Ester Cohen per il saggio in catalogo (dedicato al rapporto tra Penck e il nostro paese e in particolare alla partecipazione a Terrae Motus su invito di Lucio Amelio). In copertina al catalogo c’è solo il suo volto in close up, senza neanche necessità del titolo. Quasi un omaggio alla sua “Standart”, pittura che non ha bisogno di parole.
Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama.
Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».
Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».
La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».
L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».
La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore.
Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».
O meglio perché faccio questo blog: perché penso che la storia dell'arte liberi la testa, perché è stupido vedere 150 mostre all'anno senza lasciare una traccia di pensiero.