Robe da chiodi

Archive for the ‘Massimo Minini’ tag

Massimo Minini e la vecchia zia della pittura

leave a comment

«A me piace scrivere, quasi più che fare mostre». Paradossale che lo dica uno dei più importanti galleristi italiani, con oltre quaranta anni di successi alle spalle, presenza fissa al gotha di Art Basel, stimatissimo da tanti artisti star e inarrivabili. Massimo Minini è fatto così, è autorevole e corsaro nello stesso tempo. Per tutta la vita non si è certo negato la passione per la scrittura, che ha coltivato come esercizio complementare e necessario all’attività di gallerista.

Lo testimoniano le dimensioni del libro in cui ha voluto raccogliere, con un andamento creativo e imprevedibile, il meglio di quello che negli anni ha messo su carta. Il volume, edito da Silvana, non solo sfonda le 400 pagine, ma si presenta in formato atlante. Eppure dà un’impressione immediata di leggerezza, grazie anche all’impianto grafico firmato da Nicola Chemotti. Grande merito anche delle sovraccopertine che Minini ha chiesto a un artista amico della prima ora, presenza storica nella sua galleria, Daniel Buren. Si può scegliere il colore delle bande verticali, tra verde, rosa, arancio e azzurro, tutti di una tonalità affabile. La sovraccopertina è un’opera, con tanto di titolo, “Inchiostri per Massimo in 4 colori” e aprendosi a manifesto svela una delle verità di Minini: «Dire che siamo in un momento di grandi cambiamenti è un’ovvietà. Probabilmente anche una banalità. Siamo sempre stati, anzi siamo sempre in un momento di cambiamento. Quando mai la storia è stata ferma!».

Il libro è immune da banalità e ovvietà. Basta scorrere l’indice per rendersene conto. I materiali infatti sono raccolti in blocchi molto logici, ma i titoli e i sottotitoli dei singoli capitoli fanno schizzare l’attenzione e la curiosità del lettore, a iniziare dal primo, Autointervista. Dove l’autore finge domande cattive per darsi modo di rispondere. Tra le domande c’è quella rituale che riguarda la scelta di non lasciare mai Brescia, di restare come lui dice, «gallerista di provincia».  La risposta è ragionevole e non priva d’orgoglio: «Primo, perché Brescia è una città importante (è la terza potenza economica d’Italia, dopo Milano e Torino), e poi perché qui ho avuto buoni maestri (Cavellini, Politi)». Achille Cavellini è un mitico collezionista. Giancarlo Politi è invece il fondatore di Flash Art, la rivista presso cui Minini, avvocato mancato, ha fatto un attivissimo apprendistato al mondo dell’arte. La rottura con Politi è uno dei tormentoni che torna tante volte nel libro, con accento divertito ed epico nello stesso tempo: infatti, una volta licenziato, Minini aveva aperto subito una galleria, Banco. Era il 1973: Cavellini, pur perplesso, gli era stato di sostegno a fare quel passo. Sulla scena locale sono subito scintille e anche qualche goliardata. Quando Ennio Morlotti era arrivato a Brescia per una mostra in Pinacoteca, lui con Sarenco, «persona di grande e pericolosa intelligenza», si presentarono buttando volantini polemici: «Ricordo che Morlotti scosse la testa senza dire niente».

Chi pensa a un Minini oltranzista sulla sponda dell’antipittura si sbaglia di grosso. «La Pittura (proprio così, con la P maiuscola, ndr), una vecchia zia…è un’esigenza insopprimibile, un vizio assurdo: salta fuori quando meno te l’aspetti», scrive. Nel capitolo, a tratti quasi esilarante, che raccoglie i contenziosi e anche imprevisti sussulti di simpatia con Vittorio Sgarbi, però mette in chiaro alcune cose. Secondo lui troppe volte la pittura si costringe a una figurazione dolente, sangue e budella. In questo modo si preclude «la libertà di ricerca…». E conclude con una fiondata: «La figura vissuta come rivincita è un vecchio modo di porsi… è lingua morta».

Lingua viva, supremamente viva, per lui è quella di Giulio Paolini e di Salvo, i due artisti che hanno cambiato il suo modo di guardare. Al primo dedica tutto un capitolo, apodittico fin dal titolo Giulio Paolini. Lui. Spiega che “lui” gli ha insegnato «la bellezza, la pratica dell’understatement, il bisogno di rarefare, che ahimè, ho disatteso». Di “lui” stima tutto, a partire da quella sua attitudine a «sottrarsi non tanto all’arte, quanto alla nostra curiosità». Con “lui” in quaranta anni di amicizia si è stabilito un rapporto di “CON SONANZE”, scritto proprio a caratteri maiuscoli. Salvo invece è la proiezione dell’autodidatta colto, «dell’artista che torna all’ordine dopo il disordine». Aveva visto una sua opera, Benedizione, in una galleria di Brescia e altre da Sperone, tutte opere dal linguaggio fortemente alternativo. «Ma un giorno», racconta Minini, «vediamo apparire dei dipinti enormi: che fosse impazzito? Allora (siamo nel 1973), dipingere era proibito». Risultato: nel 1975 allestisce la prima mostra di Salvo in galleria.

C’è solo un artista che nelle pagine del libro ricorre con maggior frequenza rispetto a questi due prediletti ed è inaspettatamente un artista di un’epoca lontana: il Romanino. La ragione è elementare: Minini è nato a Pisogne, dove il padre aveva un’aziendina, e quindi ha sempre considerato Romanino alla stregua di un vicino di casa per via del meraviglioso ciclo di affreschi della Madonna della Neve, che così spesso si trovava a frequentare. Lo sguardo di Minini verso le creature sgraziate, vernacolari, trasgressive dell’artista bresciano è uno sguardo innamorato. È frutto di una dichiarata e smaccatissima simpatia, che però non gli impedisce di tracciare parallelismi con il contemporaneo: ecco allora che Romanino diventa il profeta della bad painting, lo sperimentatore eretico che spezza i ponti con il linguaggio dominante, che dipinge quasi in una sorta di «trance visiva», l’artista che come tanti grandi del Novecento, da Bacon a Fontana, «fa uno scarto laterale che spiazza il pubblico, offre qualcosa di inatteso che apre su altre direzioni».

È su Romanino inoltre che matura un’imprevista convergenza con Giovanni Testori, un critico che per quanto concerneva il contemporaneo stava radicalmente su un’altra sponda. Testorie e altre storie è il titolo, creativo come sempre, che ripropone gli atti di questa strana relazione. Se la brescianità e Romanino sono un punto saldissimo di contatto, gli articoli sul “Corriere della Sera” a ponte tra anni Settanta e Ottanta, rappresentano invece l’oggetto di un conflitto senza possibilità di composizione. Testori è da una parte «il Polifemo accecato d’ira contro le avanguardie», ma allo stesso tempo lo studioso che ha sdoganato il grande Romanino, rivendicando davanti alla grande critica, la modernità della sua bad painting, una pittura che opponeva alla lingua ufficiale la forza deflagrante di un dialetto figurativo. Minini per rendergli un omaggio si inventa l’idea di un “processo a Testori”, idea lanciata pubblicamente dalle colonne delle pagine bresciane del Corriere della Sera. La sfida viene raccolta nel luglio 2013: il processo si consuma a Novate, proprio in quella che era stata la casa dell’imputato. La lunga requisitoria è tutta all’insegna di «un’ammirata avversione» e di una non celata simpatia.

Per Minini scrivere è scopertamente un piacere. La carta bianca è il territorio sul quale può dar fuoco alle polveri della sua natura estroversa e fuori dagli schemi, come nel caso celebre dei suoi “pizzini”, testi brevi e ficcanti, ora approdati in una rubrica nelle pagine che mensilmente Il Foglio dedica all’arte. La scrittura non è però un punto di fuga dalla sua attività di gallerista, perché in tante occasioni avviene una convergenza. È il caso dei comunicati stampa, che scrive di suo pugno e ai quali ha dedicato un capitolo in ogni senso esemplare. Il presupposto è che i comunicati così come sono impostati quando piovono sui tavoli delle redazioni sono materia inerte, vengono saltato a piè pari. Minini elargisce alcune raccomandazioni, ma quando le mette in atto supera le sue stesse intenzioni. I comunicati stampa sono dei piccoli gioielli inattesi, tutti da leggere in particolare per i loro incipit. «Le opere d’arte non si possono spiegare a parole», scrive nella prima riga del comunicato per una mostra di Landon Metz. «Come dire? A Vanessa voglio un gran bene. Potrei anche terminare qui il comunicato», è il lancio di una mostra di Vanessa Beecroft nel 2017. Seguono belle parole e non scontate, che ribadiscono l’affetto per l’artista e il suo lavoro. Il finale non è da meno, quanto a schiettezza: «Scritto a Brescia, città dalle mille sorprese, come la Galleria Massimo Minini». Letto questo libro, c’è davvero da credergli.

Pubblicato su Domani, 27 marzo 2022

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:22 am

Posted in libri

Tagged with

Paladino a Brescia, scultura diffusa

leave a comment

Mimmo Paladino, scultura in brnzo dipinto, nella Cappella di Sant’Obizio affrescata da Romanino. FOTO di Ferdinando Scianna

Questo articolo dedicato a Ouverture”, la mostra diffusa di Paladino a Brescia, è stato pubblicato su Alias domenica 4 giugno.

A Mimmo Paladino va riconosciuta una qualità che è di pochi artisti: quando arriva in un luogo è come se fosse stato lì da sempre. Ogni volta trova il suo spazio senza necessità di farsi largo o di “imporsi”. Una qualità che è giusto sottolineare, visto che spesso assistiamo a interventi di artisti contemporanei che consumano i contesti storici forzandone valori ed equilibri, con obiettivi mediatici e quindi mercantili. Non è una strategia quella di Paladino. È una predisposizione: la sua opera osserva più che voler essere osservata. È arte in ascolto; intrinsecamente dialogante, che lascia sempre la prima parola a chi viene incontro.

Si ha conferma di questa natura dell’opera di Paladino nella grande “invasione” che l’artista a realizzato nel cuore di Brescia. Un’operazione inedita, per caratteristiche e per dimensioni. Un’operazione partecipata che ha visto coinvolti e alleati in modo non formale tanti soggetti della città e che merita di essere riassunta nella sua dinamica. L’idea parte da Massimo Minini, che giustamente la giunta guidata da Emilio Del Bono ha voluto come presidente della Fondazione Brescia Musei. Gallerista di levatura internazionale, ha sempre mantenuto un legame forte con la sua città senza cedere alle sirene globaliste che avrebbero potuto indurlo a trasferirsi ad esempio nella vicina Milano. È stato lui proporre un progetto, ribattezzato Brixia Contemporary, che prevede, come lui spiega, «che ogni anno un artista internazionale sia chiamato a svelare un nuovo punto di vista sullo spazio urbano del centro storico bresciano, grazie al dialogo tra le opere selezionate e create per l’occasione e i luoghi che le accoglieranno». Ruolo chiave nella scelta dell’artista per questo esordio e nella concretizzazione delle scelte lo ha poi avuto Luigi Di Corato, direttore di Brescia Musei. «Paladino», spiega, «ci è sembrato perfetto per la sua capacità di alimentare la storia trasformando i simboli della cultura figurativa del Mediterraneo, dagli archetipi al Novecento».

Per rendere possibile e sostenibile un’operazione comunque molto ambiziosa, è stata cruciale l’adesione della Brescia produttiva, che non solo ha sponsorizzato il progetto, ma che ha messo a volte il suo know how a disposizione per realizzare alcune delle opere, di notevole complessità, come i cinque grandi “Specchi ustori” che Paladino ha immaginato appositamente per lo spazio del Teatro Romano: sculture in ottone serigrafato e dipinto, di cinque metri di diametro. La città insomma ha fatto rete attorno a questa che in ogni senso ha il sapore di un’“Ouverture”, come dice il titolo scelto da Paladino: un’operazione modello di arte a destinazione larga, di arte “per tutti”, che non grava sui conti dell’amministrazione pubblica (sino all’8 gennaio; catalogo con campagna fotografica di Ferdinando Scianna e testo narrativo di Aldo Nove in corso di pubblicazione)

Paladino con Brescia ha un legame biografico particolare: qui nel febbraio 1976 aveva tenuto la sua prima personale alla galleria Nuovi Strumenti di Pietro Cavellini, una galleria molto attiva che in quegli anni esponeva, tra gli altri, artisti come Zorio, Parmiggiani, Anselmo. “Spirale, arco, ottagono, ruota”, era il titolo della mostra, ed è un titolo che evocando forme di geometrie archetipe, rivela un filo rosso di continuità con l’ambizioso ritorno di oggi. Altro legame è poi quello della comune matrice longobarda che unisce, pur nella grande distanza geografica, Brescia con Benevento, la città di origine dell’artista (che ancora ha il suo studio a Paduli, suo paese natale). È un’affinità storica che Paladino ha voluto sottolineare nel percorso, esponendo un’opera del 1998, la “Cattedra di San Barbato” in dialogo con la celebre “Croce di Desiderio”, uno dei gioielli del Museo di Santa Giulia. San Barbato fu il vescovo beneventano che nel VII secolo aveva portato i longobardi al cristianesimo; Desiderio a sua volta fu re degli stessi longobardi un secolo dopo. La Cattedra è un trono spartano, scevro da ogni retorica, quasi una reliquia che se ne sta appartata, più a far da spettatrice che in attesa di adoratori.
Paladino non è un artista calcolatore. È naturaliter prolifico e generoso.

A Brescia è arrivato portando oltre una settantina di opere, in gran parte sculture. Non ha però cercato palcoscenici; piuttosto, nel dialogo con Di Corato, è andato a insediarsi in gangli emblematici della città, facendone riemergere potenzialità e fascino. Emblematico, da questo punto di vista, l’intervento in Piazza Vittoria. Poteva essere un innesto rischioso, perché la piazza realizzata da Marcello Piacentini nel 1932, si prestava a scivolate declamatorie. Invece la riflessione con Di Corato ha portato a immaginare un insieme di innesti che funzionano da cuciture e da aperture di prospettive. Le sculture sono in molti casi posizionate su assi che propongono inediti canali prospettici in direzione della piazza: il “Cerchio” sull’asse verso Piazza Duomo; il grande Cavallo su quello verso la Stazione. Il “Sant’Elmo”, opera-feticcio tante volte proposta da Paladino, qui in versione in alluminio, dialoga con il pulpito mussolinano in pietra rosa e i relativi bassorilievi di Antonio Maraini: quasi un’operazione di disseppellimento critico di una memoria storica della città. L’intervento più delicato e mediaticamente più caldo è stato quello della grande “Stele” in marmo nero, sul plinto destinato al famigerato Bigio di Antonio Dazzi, rimosso nel 1946. L’opera è stata realizzata da Paladino ad hoc, quasi forzando la propria mano: ha rinunciato infatti alle forme arrotondate, misteriose ma cordiali, della sua scultura, per una scelta aggressiva, di tagli violenti, di volumi che si disputano lo spazio. È un’immagine che ha qualcosa di allarmante, quasi un richiamo, o un avvertimento, rispetto al rischio di un totalitarismo che non è stato affatto estirpato dalla storia.

Per scoprire come Paladino sappia emergere restando dietro le quinte bisogna spostarsi al Parco Archeologico. Qui tra le colonne del Capitolium ha portato i 20 “Testimoni” (opera del 2009) scolpiti nel tufo. Si presentano come delle sentinelle silenziose, custodi chiamati a tessere un colloquio tra il grande passato testimoniato da quei resti e il presente. Sono figure riservate, che stanno rispettosamente dentro lo spazio a uovo per loro concepito. Ma spiccano perché sanno instaurare una relazione immediata con ciò che li circonda e soprattutto con chi si affaccia all’area. Verrebbe da dire che con quella pietra porosa e“tiepida” di cui sono fatti reimmettano un calore di vita tra quei resti di un lontano passato.

Come spiega Di Corato, il criterio di “Ouverture” – criterio condiviso pienamente con Paladino – è stato quello di un investimento sul patrimonio: le sculture funzionano come leve per restituire una centralità strategica ai reperti con i quali sono messe in dialogo. Così il risultato è duplice: si rispetta ed esalta la natura dell’opera paladiniana e si restituisce attrattività culturale ed emotiva al patrimonio. Per questo si è scelto come epicentro del percorso il Museo di Santa Giulia, il museo della città, straordinario scrigno a strati che affonda nella storia di Brescia: qui Paladino è presente con una trentina di opere, ciascuna chiamata a cucire un dialogo, libero e aperto, con gli spazi o i singoli reperti del Museo. Dialoghi che a volte risentono delle cesure del tempo, come accade nella cappella di Sant’Obizio. Qui, davanti al gigante tenero dipinto dal magnifico Romanino, spunta invece una creatura un po’ algida e lunare di Paladino, che sembra essersi però voluta sporcare con i colori dell’affresco (è di bronzo dipinto). Un inatteso teatrino, cordiale e surreale che accende di imprevisti anche questo angolo della chiesa di San Salvatore.

Written by gfrangi

Giugno 5th, 2017 at 12:08 pm