Data la serenità e la felicità dell’esito è difficile immaginare la convulsione e anche la confusione dell’inizio, quel 15 aprile di 150 anni fa. Quel giorno inaugurava a Parigi la mostra di una “banda” di artisti, 28 per la precisione, uniti dal desiderio (e necessità) elementare di esporre al pubblico i propri lavori, visto che le porte dell’annuale grande Salon per loro erano sistematicamente tenute sbarrate da una giuria molto conservatrice. Si erano messi insieme costituendo un’associazione per ragioni pratiche, senza preoccuparsi di darsi un programma comune. Gran parte di quei pittori si sono eclissati nella storia, ma in otto hanno invece fatto la storia. Ecco i loro nomi: Edgar Degas, Paul Cézanne, Claude Monet, Camille Pissarro, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Jean-Baptiste Guillaumin e Berthe Morisot. Ne mancava uno all’elenco, Edouard Manet, che aveva preferito esporre ancora una volta al Salon des Refusés, l’esposizione parallela al Salon, proposto come spazio di riparazione “ufficiale” per gli artisti respinti dalla giuria.
La “banda” di quei transfughi aveva trovato uno spazio negli ex studi del grande fotografo Nadar, in Boulevard de Capucines. Il catalogo era stato affidato al fratello di Renoir, Edmond: niente immagini ma un semplice elenco delle 165 opere esposte. Oltre a lamentarsi per il ritardo da parte di tanti artisti, Edmond se l’era presa con Claude Monet per l’estrema monotonia dei titoli scelti per i suoi quadri. «E lei metta “Impressione”», aveva risposto l’artista. Nello specifico il riferimento era ad una veduta dipinta due anni prima all’alba al porto di Le Havre, “Impression. Soleil levant”. Un titolo destinato a segnare la storia, anche se in quella circostanza era diventato più che altro pretesto per ogni tipo di sarcasmo, da parte del pubblico e soprattutto della critica. Quella mostra che oggi è su tutti libri di storia ebbe numeri abbastanza modesti: 175 visitatori all’inaugurazione, 54 all’ultimo giorno. Il Salon intanto staccava tra gli otto e i diecimila biglietti al giorno… Uno smacco che aveva lasciato sul lastrico alcuni artisti del gruppo, Monet in particolare.
Tutto questo fa parte di una ben risaputa aneddotica sulla nascita dell’Impressionismo. Ma qual era il fattore che allora non venne capito e che invece ha determinato lo straordinario successo postumo di quella mostra e di quella “banda” di artisti? C’è una parola che meglio di ogni altra aiuta a dare una risposta: “istante”. Era stato Edmond Duranty, romanziere e critico d’arte, a indicarla in un libro significativamente intitolato “La nouvelle peinture”, pubblicato a Parigi nel 1876. Duranty aveva scritto che ciò che univa questi artisti così diversi tra di loro, eccentrici e istintivi, era il desiderio di «catturare l’istante». È questo il “nuovo” che gli impressionisti immettevano a sorpresa sulla scena dell’arte, in modo allo stesso tempo ingenuo e dirompente. A cascata crollavano in serie tanti dogmi che tenevano bloccati gli artisti nelle tenaglie di un accademismo, sempre più retorico e bolso, che pretendeva di imporre la sua egemonia attraverso la grande kermesse annuale del Salon.
Era stato come un improvviso giro di volta dalla notte al mattino, dal buio alla luce, dal chiuso all’aria libera. I pittori, attirati dal fascino e dal fremito della vita moderna, avevano abbandonato il recinto chiuso dell’atelier e scoperto per controcanto la meraviglia del “plein air”. Questo grazie ad una piccola ma preziosissima innovazione: l’arrivo sul mercato dei colori ad olio confezionati i tubetti, che permettevano loro di dipingere ovunque, senza essere condizionati dal tradizionale armamentario custodito in atelier. La natura, con la sua libertà, diventa maestra, prendendo il posto dei pedanti custodi di regole ormai fuori dalla storia. E dato che in natura tutto si muove e ogni attimo è diverso da quello che lo ha preceduto, ecco che l’occhio detta i tempi e la mano deve andar veloce per star dietro alla percezione visiva registrata sulla retina. La mano impara così a muoversi con una molteplicità di tocchi sulla tela, senza preoccuparsi dello stato di apparente indefinitezza e di frammentarietà dell’immagine. “Non è un occhio, ma che occhio!”, diceva infatti Cézanne di Monet, l’impressionista per antonomasia, che più di ogni altro negli anni a seguire si sarebbe inoltrato in questa perdita delle coordinate oggettive della visione. La natura facendosi “maestra” insegnava che la luce è tutto, che accende i colori, li fonde, riempie di fulgore ogni cosa, rende sempre nuova la realtà. Presi da questa febbre che era insieme di pittura e di vita, quell’estate stessa del 1874 un gruppetto di reduci della mostra-terremoto si era ritrovato ad Argenteuil, sulle rive della Senna poco a nord di Parigi, alcuni anche per sfuggire ai creditori parigini. Vedersi l’un l’altro dipingere all’aperto e in libertà era stata un’esperienza che aveva consolidato la loro autocoscienza, vincendo anche le ritrosie di Edouard Manet. È lui a firmare in quelle settimane un quadro che può essere considerato emblema del nuovo: si vede Claude Monet con una modella mentre dipinge su una barca trasformata in atelier galleggiante sulla Senna. Anche Manet, il più autorevole della compagnia, così osservante delle regole della vecchia pittura, ad Argenteuil si era convertito al richiamo irresistibile del “plein air”. «Saranno questi artisti i primitivi di un grande moto di rinnovamento artistico?» si chiedeva Duranty, scrivendo a ridosso di quei fatti. E si dava la risposta sottolineando meravigliato «l’audacia che balza da quei pennelli». “Balza”, perché solo così si poteva cogliere la meraviglia dell’istante e documentarlo sulla tela.
Per quegli artisti dipingere significava restituire non un’impressione generica e soggettiva su ciò che avevano davanti agli occhi, ma restituire qualcosa che era molto simile, ogni volta, ad un primo sguardo dato al mondo, con lo stupore e anche la freschezza che ne derivava. Sono pittori nuovi perché «non sanno», aveva sottolineato Charles Péguy parlando delle Ninfee di Monet nelle pagine di “Veronique”. Uno come Monet dava il meglio di sé al primo sguardo, spiegava Péguy. E coincludeva: «È la prima che conta. È lo stupore che conta, principio indiscusso di scienza».