Robe da chiodi

Archive for the ‘architettura’ Category

Rossi d'azzurro

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Lorenzo, Fiorella e Tommaso mi segnalano la mostra dei disegni di Aldo Rossi alla facoltà di Architettura di Bovisa, via Durando (sino al 6 febbraio, ore 8-20, giorni feriali). Mi colpisce il titolo, così apparentemente fuori luogo per un architetto: L’azzurro del cielo. Ma è un titolo che richiama più che i progetti, i desideri. E la grandezza di Rossi consiste molto più di desideri che di progetti. Questo di lui commuove. È un inquieto che non s’accontenta di meno che dell’azzurro del cielo. La vedremo senz’altro.

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 30th, 2009 at 1:06 pm

Le Corbusier, Matisse e la testimonianza del vero

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le-corbu2Nico, Riccardo, Cristina e Luca hanno portato da Vence un piccolo gioiello: è la lettera che Le Corbusier scrisse a Matisse nel 1953 dopo aver visitato la cappella di Vence. È una lettera piena di stupore e di gratitudine. Eccone una trascrizione (con qualche parola d’incerta interpretazione):

«Caro Matisse, sono andato a vedere la cappella di Vence. Tutto è gioia e limpidezza e giovinezza. I visitatori, per uno slancio sponetaneo, sono rapiti e affascinati. La vostra opera mi ha dato uno slancio di coraggio – non che me ne manchi – ma ho riempito le mie otri. Questa piccola cappella è una grande testimonianza: quella del vero.
Grazie a voi, una volta di più, la vita è bella. Grazie. A voi il mio ricordo più amichevole.
Le Corbusier».

Colpisce come le biografie di due giganti del 900 s’incrocino in questo luogo piccolo, nato quasi per una coincidenza fortuita («Questa cappella non sono io  che l’ho voluta, è venuta da altrove, de plus haut que moi»). Un luogo che non ha nessuna pretenziosità né culturale, né spirituale. Come dice sempre Matisse di questa cappella, è «un fiore»: «Un giorno sono entrato a Nôtre Dame e sono rimasto impressionato dalla folla, dai canti, dalla solennità. E mi sono detto: in confronto cos’è la mia cappella di Vence? È un fiore.Non è che un fiore. Ma è un fiore» (8 marzo 1952). Come un fiore, è nata da sola: «È curioso: ero guidato non guidavo io. Io non sono che un servitore». Sono meravigliose le riflessioni di Matisse sulla cappella (contenute in Ecrits et propos sur l’art, Hermann). Quando Picasso gli contesta la decisione di fare arte religiosa («Picasso era furioso che io facessi una chiesa»), non si scompone: «Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapete bene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostra prima comunione».
Ha ragione Le Corbusier: la grandezza di Vence è nella sua piccolezza, nella sua semplicità e leggerezza. E fa pensare il fatto che un’intelligenza dall’ambizione colossale come quella di Le Corbusier, si chini sulla bellezza umile e architettonicamente anonima (uno stanzone con i muri squadrati) della cappella di Vence. È una spia del cuore, della tensione vera che lo muoveva.
Ultima riflessione: nel rapporto con l’arte, la chiesa di oggi si barcamena tra ripiegamento sugli stereotipi del passato, sudditanza verso le mode spiritualiste del presente e qualche tentativo di quadratura teologica. Invece deve far pensare come a Vence si sia messa in movimento un’altra dinamica: una grazia che ultimamamente apre soluzioni e esiti imprevisiti. Un fiore. Matisse: «C’è bisogno di un coraggio per l’artista, che deve vedere le cose come le vedesse per la prima volta: bisogna vedere ogni cosa per tutta la vita come quando si era bambini».

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 18th, 2009 at 2:32 pm

Macugnaga in gloria

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Ogni volta che mi capita di metter piede nella Parrocchiale di Macugnaga, paese alle pendici del Rosa, con qualche centinaio di abitanti, mi viene lo stesso pensiero: perché mai la gente di qui trecento anni fa ha sentito il bisogno di fare una chiesa così maestosa? E dove ha scovato le risorse per tirarla in piedi? Facendo un mero discorso economico, si può pensare che il budget di questa Parrocchiale fosse più o meno pari al pil prodotto dal villaggio. Perché mettere tutte le proprie ricchezze in un bene collettivo ma non destinato a scopo utilitaristico? E che fatica avranno fatto a protar su da fondovalle quelle colonne torrili di marmo nero per gli altari di fondo? E come avranno retto le impalcature alzate ai 20 e passa metri della volta nell’inverno non certo tenero di Macugnaga? E non c’era neppure l’ambizione di apparire, di far girare per le valli e le contrade il nome del paese capace di una simile impresa. C’era un qualcos’altro che oggi sfugge, o quanto meno che ci è radicalmente estraneo. Un qualcosa che ha a che vedere con l’idea che si ha del nostro destino, io penso. Ma ogni cvolta che il 31 dicembre, dopo la messa della sera, sotto quelle volte ascolto il Te Deum di ringraziamento in latino, mi sembra di percepire il senso ultimo di tutto questo. Un qualcosa che ha che fare con la gratitudine e con la gloria.

Comunque la Parrocchiale di Santa Maria Assunta venne iniziata a Macugnaga nel 1709, conclusa una decina di anni dopo. Ha una grande abside e una navata unica con sei cappelle laterali. Venne costruita pur in presenza di un’altra bellissima chiesa, bassa e montana, di origini trecentesche, tutt’ora esistente. Tra le cose belle, c’è l’aquila-basilisco dell’Apocalisse, che regge il pulpito e che accese la fantasia e il cuore di Giovanni Testori.
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Written by giuseppefrangi

Gennaio 10th, 2009 at 3:09 pm

C'è Fontana dietro l'angolo

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Via Senato angolo via Sant’Andrea a Milano. Il palazzo è un edificio noto progettato da Roberto Menghi e Marco Zanuso nel 1947. Ed è noto per i fregi astratti in gres, disegnati da Fontana: li si vedono sotto la serie di finestre, purtroppo schermati da vetri che ne frammentano il ritmo. Ma c’è dell’altro sulla facciata di quel palazzo. E sono quegli elementi sempre in gres che Fontana ha concepito come sottofinestre: camminando li si possono anche toccare o fotografare. Sono lastre molto semplici, di un marrone denso e scuro, pettinate in orizzontale come dei campi arati visti dall’alto sulla loro verticale.

C’è un che di luminoso in questa idea di Fontana. Di molto umano (lui stesso diceva: «… gli architetti, solo occupati nei problemi funzionali e urbanistici e non umani»). Fontana ha sempre questa grazia, che lo porta alle intuizioni più ardite senza mai tagliare i ponti con la concretezza della vita. La sua è un’arte ultimamente inclusiva, per quanto radicale nelle sue opzioni. A questa data lo spazialismo e i buchi stanno per “sbocciare”, ma già qui si vede una propensione di Fontana a uscire fuori dal seminato. Quelle righe così regolari lasciano presentire un percorso che si proietta oltre il confine assegnato. C’è un qualcosa che le fa brillare che che non è in loro ma in ciò che evocano. E poi è bello che siano a portata di mano (come le maniglione delle porte del palazzo, disegnate sempre da Fonatna, nella sua verve più barocca).

Altra perla, al cimitero Monumentale, sempre a Milano. A poche decine di metri dalla tomba di don Giussani, c’è una tomba semplice, davanti alla quale passi via senza quasi accorgerti, la Tomba Rescali (1956), che Fontana ha concepito come un Prato verde (questo è il titolo) in ceramica. Distesa dentro una cornice di granito rosso, c’è questa increspatura di foglie, di fili d’erba e di fiori pallidi. È un piccolo capolavoro di land art, che commuove, perché Fontana ha sempre questa grazia che gli fa intercettare la bellezza in modo facile e mai pretenzioso. E poco importa che il Prato di ceramica sia sempre “sporcato” dagli aghi del pino che lo sovrasta…

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Written by giuseppefrangi

Gennaio 6th, 2009 at 7:53 pm

La Sagrada Família, con punto interrogativo

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sagrada-familia-barcelona3Finire o non finire la Sagrada Família di Gaudì? La Spagna, dopo un  appello lanciato da 400 personalità, torna a dividersi. Proviamo a ragionare.

Le ragioni del sì: il popolo la vuole finita; le cattedrali sono sempre state dei cantieri interminabili, portati avanti per generazioni; mai nessun progetto è stato fedele alla lettera ai disegni originali; l’unità formale della Sagrada è comunque garantita dall’intuizione fantasmagorica del suo creatore; non terminarla comporta che la Sagrada non diventi un luogo pienamente di culto e quindi sia ridotta a mero santuario della curiosità; la Sagrada è uno di quei misteriosi “giganti” spuntati senza ragioni apparenti a rendere ultimamente visibile la fede in stagioni di oscurità.

Le ragioni del no: inutile erigere cattedrali per poi trovarsele vuote causa devastante secolarizzazione; il cantiere così come viene condotto è una caricatura di quella che era l’idea originaria di Gaudì; la parte nuova della Sagrada ha sempre più l’aria di un prefabbricato; ciò che nella mente creativa di Gaudì era intrico di mistero, rischia di ridursi a esoterismo spicciolo; la grandezza della Sagrada consiste nella sua drammatica incompiutezza; la cattedrale di Gaudì è un’opera moderna e quindi frutto di un genio tutto individuale: inutile inventarsi la retorica neo medioevale del cantiere corale. (C’è chi dice: anche la cupola di San Pietro venne progettata da Michelangelo ma finita da Giacomo Della Porta, con relativo ritocco dell’idea del genio. Ma il paragone non tiene: là Michelangelo aveva dettato un “verbo” implacabile, capace di plasmare il cervello e la visione di chiunque veniva dopo di lui. Qui Gaudì è un grande isolato. Un genio assolutamente eccentrico rispetto al corso della storia. Nel 1929, appena tre anni dopo la sua morte, a Barcellona, Mies Van der Rohe costruiva il Padiglione tedesco, l’architettura più radicalmente antitetica a Gaudì che si potesse immaginare).

Timidamente: io oso stare dalla parte del no.

Written by giuseppefrangi

Dicembre 17th, 2008 at 12:52 am

La losanga di villa Necchi

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2541149336_75600a0028Visita alla Villa Necchi-Campiglio, passata alla gestione Fai, nel cuore di Milano. Ecco qualche (malizioso) pensiero. Siamo di fronte alla “reggia” di una delle dinastie industriali lombarde: Campiglio era titolare con il suocero di una grande fonderia di ghisa nel pavese. “Reggia” è una definizione pertinente, non tanto per le dimensioni, ma per la cultura e la stile che contraddistingue la villa. Non si sente il senso lombardo del “lavoro” in questa casa. Non c’è mai un riferimento all’attività che sta generando tanta ricchezza. Solo spazio ai passatempi, fuciliere, tavolini da gioco, sale da conversazione colta, tennis, piscina (la prima privata in città). Prevale una vocazione aristocratica, che permette di travasare la vita di una villa di campagna nel cuore della città. Lo stile – sinché Portaluppi tiene la regia – è uno stile elegante, sobrio, impeccabile. Ma è uno stile conservativo, programmaticamente sigillato ad ogni vento esterno. Che si fa alibi della propria indubbia qualità, per chiudere la villa come fosse un guscio, perfetto e impermeabile. La magnifica losanga che decora i soffitti di molte sale, ne è un po’ l’emblema: un quadrato eccentrico, ma chiuso. Emblema di un benessere ben recintato.
La “reggia” Necchi-Campiglio è una dimora di borghesi che non hanno smaltito il dna della vecchia nobiltà. Un microcosmo in cui si poteva stare senza mettere fuori la testa. Senza confrontarsi con il nuovo.
Fuori quante cose accadevano! Pensate che in quegli stessi anni (metà anni 30) a Seveso Giuseppe Terragni costruiva la Villa Bianca, quel specie di gabbiano bianco planato nel cuore della Brianza.

Written by giuseppefrangi

Dicembre 2nd, 2008 at 2:31 pm

Hello Chicago

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lobbyHa iniziato così il suo discorso l’altra notte ( la sua notte) Obama. «Hello Chicago». Bello slancio, dedicato a una città magnifica e dura, spazzata dal vento (windy city) e abbarbicata al suo loop, il treno che sferraglia ad altezza camera da letto nel cuore della città. Chicago ha qualcosa di impresentabile, di irrimediabilmente banditesco. Poi è capace di sorprendere con perle di purezza inarrivabile. Due su tutte, per me: i Lake shore drive apartments di Mies Van der Rohe, architettura di trasparenza perfetta affacciata sul “mar” Michigan (nella foto). E la Dimanche à la Grande Jatte di Seurat, nel museo che a me è sempre sembrato uno dei più bei e sintetici musei del mondo. Chicago mi piace perché ha qualcosa di Milano. Una città in cui nessuno vorrebbe stare, ma in cui finiscono per arrivare tutti. Non città da vetrina, ma città di sostanza. Città piatte, più forti dei miasmi con cui sono costrette a coesitere. A quando qualcuno che lanci un “hello Milano”? (Nel senso di un qualcuno che s’inchini alla città mostrando un attaccamento così sobrio e così commosso)

Written by giuseppefrangi

Novembre 7th, 2008 at 2:39 pm

Il vetro di Ivrea

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Ancora un appunto dal sabato eporediense. Un appunto ardito. Eppure c’è un’affinità tra la facciata dell’Ico di Figini-Pollini e la parete di Spanzotti. C’è una stessa dimestichezza con quell’aria semi alpina. Una stessa trasparenza poetica. Una stessa capacità di intercettare la luce senza mai esasperarla. Uno stesso amore per la regolarità, espressa nella geometria molto domestica dei quadrati. C’è quasi un’omogeneità tonale, perché tutt’e due stemperano la luce, Figini nella delicatezza tremolante del vetro, Spanzotti nei suoi interni tersi e rosati. Il filo conduttore, la lingua comune è quella di una poesia con un senso civico innato.

(Tommaso suggerisce un parallelo con la Van Nelle Factory di Rotterdam di Johannes Brinkman, 1925-31, quindi di dieci anni precedenti. Un’affinità nell’uso del vetro, che non taglia fuori ma crea rapporti tra il dentro e il fuori)

Written by giuseppefrangi

Settembre 24th, 2008 at 11:42 pm

L'infrazione di Palladio

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Vicenza, Palladio compie 500 anni. La finestra del piano nobile di palazzo Thiene dice tutto di lui, della sua libertà, e della sua olimpica spregiudicatezza. Le mensole che incorniciano la finestra, inghiottono la colonna sottostante. Solo i capitelli ionici spuntano in alto. Sono come fermagli che bloccano la struttura. Il classico messo ai ceppi.

Written by giuseppefrangi

Settembre 9th, 2008 at 9:43 pm

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Il colossale Le Corbu

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Marsiglia, 20 agosto. L’unité d’habitation di Le Corbusier entra in scena con il passo delle cose colossali. colpiscono le zampe da gigante su cui poggia, i pilotis obliqui e trapezoidali che hanno la solidità dei contrafforti delle cattedrali. Aprono spazi ampi, areati e protetti, sotto l’enorme parallelipedo. Il loro messaggio è univoco e diretto. Il quotidiano merita la loro solennità. Nell’articolazione pratica e sorprendentemente funzionale della sua architettura, Le Corbu riesce sempre a trovare il respiro della grandezza. Una grandezza che non sovrasta le vite semplici destinate a quegli appartamenti. Semmai le celebra. L’unité è la cattedrale dell’uomo quotidiano. Ma una cattedrale spogliata di ogni retorica, perché c’è una sovrapposizione perfetta, nell’intuizione di LC, tra il banale e l’infinito, tra il bisogno e il desiderio.

« Dans cette véritable bataille technique, le véritable enjeu était de ne pas perdre de vue les deux objectifs initiaux : Le premier : fournir dans le silence, la solitude et face au soleil, à l’espace, à la verdure, un logis qui soit le réceptacle parfait d’une famille. Le second : dresser face à la nature du Bon Dieu, sous le ciel et face au soleil, une oeuvre architecturale magistrale, faite de rigueur, de grandeur, de noblesse, de sourire et d’élégance»

Qualche numero: 1600 abitanti, 337 appartamenti di 23 tipi diversi.
137 metri di lunghezza, 24 metri di larghezza, 56 metri di altezza su 18 livelli.

Written by giuseppefrangi

Agosto 28th, 2008 at 8:25 pm

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