Robe da chiodi

Archive for the ‘antichi’ Category

Qualche pensiero indiscreto intorno a Pompeo Batoni

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pompeobatori_gHo visto (dal catalogo) la mostra di Pompeo Batoni in corso in queste settimane a Lucca. (Me) ne hanno parlato tutti molto bene. Anche il catalogo è bello e accessibile nel prezzo (Silvana, 35 euro). Non è evidentemente un “mio” pittore, ma mi ha suscitato qualche pensiero, spero, non banale. Impressiona in Batoni, un pittore che ha attraversato tutto il 700, la persistenza di una grande, a volte straordinaria, qualità pittorica. Impressiona la padronanza sulle tele di grandi dimensioni, la facilità nel transitare da soggetti sacri a quelli mitologici, dall’enfasi dei ritratti dell’aristocrazia e nobiltà europea all’umiltà dimessa di certi quadri devozionali (guardate che bello il San Giuseppe pensoso e “innamorato” del suo quasi figlio nel’immagine della tela dei Musei Capitolini). Insomma Batoni sembra sempre a suo agio, in qualsiasi casella lo si mettesse. Ma proprio questa flessibilità estrema è spia di un arretramento della condizione del pittore nel 700. È come se gli artisti avessero rinunciato ad avere un loro mondo e accettassero di plasmarsi sull’immaginario proprio di quel mondo circostante che li faceva lavorare (in questo sono emblematiche le lettere tra Batoni e il marchese Andrea Gerini, pubblicate in calce al catalogo: “Posso vantarmi d’avere un grande Protettore”). Ma questa suona un po’ come una resa intellettuale, un cedere le armi (o meglio il pensiero) ad altri. Non c’è più la capacità di essere nuovi, se non nelle modalità di apparire. Per questo il 700 è stato il secolo di Diderot e non di quelli come Batoni.

Il quale in realtà ha un merito, ben ricostruito nel catalogo da Jon Seidl: ha fissato l’iconografia del Sacro Cuore di Gesù, una devozione che sino a quel momento circolava in modo informale e non senza controversie nella chiesa. Batoni rompe gli indugi e fissa l’immagine nella sua accezione più fisica: nel 1767, su incarico dei Gesuiti, dipinge per la chiesa del Gesù un ovale su rame con Cristo che tiene in mano un cuore fiammeggiante. Lo dipinge su rame perché fosse facilmente trasportabile nel caso che polemiche o ostilità salissero di livello… Di immagini del Sacro Cuore ne sono poi circolate a milioni, sino all’altare in ceramica di Lucio Fontana a San Fedele a Milano. Forse era questo del Sacro Cuore il punto in cui avrebbe potuto innestarsi anche un pensiero nuovo, capace di sviluppare anche una soluzione formale nuova. Così, onestamente, non è stato. È rifluito in una commovente devozione popolare. Eppure… Eppure il cuore che Gesù porge non è il suo ma il nostro, rimesso a nuovo e reso fiammeggiante. Pensate che intuizione: c’è dentro l’idea della centralità dell’io, della preminenza della coscienza individuale, c’è l’incosncio come nesso con il destino, c’è l’idea di un impeto umano per rendere più buono il mondo…

Written by giuseppefrangi

Aprile 4th, 2009 at 9:33 am

Morandi, «avventuriero dentro» (i pro e qualche contro per la mostra di Bologna)

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Bella recensione di Barbara Cinelli alla mostra bolognese di Morandi su Alias, “Lo sparigliamento del monaco pittore” (sabato 28 marzo). La Cinelli sottolinea, catalogo alla mano, come la mostra bolognese sia stata sacrificata rispetto alla versione  newyorkese dal venir meno di molti prestiti, soprattutto nelle sale iniziali (la cosa curiosa è che si tratta tutti di prestiti italiani). La lettura della mostra avviene sulle tre direttrici dei rapporti di Morandi con altrettanti critici. Longhi, ovviamente, innanzitutto (sua la metafora del monaco, o dell’«austero viandante», «capace di attingere, in forza di virtù proprie alla perennità delle forme»). Il secondo è Ludovico Ragghianti, che raccomandava di guardare alle serie di Morandi come opere allineate in «costellazione», e non come variazioni, termine che allude all’esistenza di un prototipo e di una gerarchia a scendere (la forza della mostra è quella di aver seguito questo criterio espositivo). Infine Francesco Arcangeli, dalla cui collezione viene una cupissima, stupenda Natura morta con conchiglia non presente, chissà perché, in catalogo: Arcangeli cerca di piegare Morandi verso l’informale, facendo del male a se stesso come dimostrò la sfortunatissima vicenda del suo libro. Ma ci colse nel sorprendere l’“emilianità” di Morandi, come succede nel ricordo delle ripetute visite con il pittore alla mostra di Guido Reni del 1955. Morandi restava incantato, riferisce la Cinelli, «a guardare i grigi argentei, i banchi, le luci diafane, la capacità si orchestrare i toni in atmosfere di raffinatezza estrema, come nella veste dell’angelo che regge il bacile della Circoncisione della Pinacoteca di Bologna». Scrive dal canto suo Arcangeli: «Morandi gioca sui chiari, in questa fase, con un’altezza e una concentrazione, una distaccata ma profonda poesia, da richiamare per analogia, non per discendenza, quel raro, grande pittori di toni argentati che fu Guido Reni».

È senz’altro una chiave per capire le ultime due sale della mostra, le più belle e anche spiazzanti. Per le quali la Cinelli rimanda a una bellissima frase del Tonio Kröger. detta alla sua amica Lisaweta: «Come artisti si è fin troppo avventurieri dentro».

Nell’immagine Natura morta con drappo giallo, 1924, Collezione Longhi, presente alla mostra.

Written by giuseppefrangi

Marzo 29th, 2009 at 10:05 am

Novara meritava bene un Elogio

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Non perdetevi questa mostra nello scenario stupendo della navata di San Gaudenzio a Novara. Un omaggio a Testori che testorianamente lievitato in quanclosa che è molto più che un omaggio. Si entra sotto la cupola a siringa dell’Antonelli, in quel transetto anche lui un po’ acuminato. Una parete nera con tenda al centro “copre“ lo spettacolo della navata barocca dove ai Tanzio, Gaudenzio e Morazzone (tutti qui di stanza), si sono aggiunte su delle quinte nere altri 14 quadri appena restaurati, con alcune assolute soprese (primo tra tutti il Matrimonio mistico di santa Caterina di Gaudenzio). Aggiungo solo un pensiero: è bellissima la coralità dell’insieme. Si sente che sono pittori in famiglia tra di loro, che parlano una stessa lingua, che stanno bene insieme. Nel senso che insieme diventano più belli, prendono più corpo, aumentano di peso specifico. La Lombardia è cultura plurale, e qui lo si tocca con mano. Uno rimanda all’altro e nessuno esce dimunito dalla presenza di qaudri oggettivamente più belli. Il 18 maggio appuntamento da non perdere con Giovanni Agosti e Giovanni Romano in mostra a presentare il libro – catalogo.

Testori nel 1962 aveva pubblicato un meraviglioso (meraviglioso anche come oggetto) libro Elogio dell’arte novarese. Dopo aver visto la mostra si constata che mai titolo fu più pertinente (e non è un discorso di qualità, ma di tenuta umana, di omogeneità cultural sentimentale)

Written by giuseppefrangi

Marzo 24th, 2009 at 11:55 pm

Lotto e gli angeli trapezisti del Pignolo

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02berga1Domenica mattina a Bergamo. Con Matteo entro a San Bernardino, via del Pignolo. Appena si varca la soglia vieni risucchiato da quel vorticante capolavoro di Lotto che giganteggia dietro l’altare. È un quadro che ha qualcosa di inaudito, con quelle trovate luministiche e di disegno che s’intrecciano e si rimandano segnali l’una all’altra. È un capolavoro-flipper, perché appena ti fermi su un particolare c’e n’è un altro che ti rapisce. Guardi il volto dell’angelo occhieggiante verso lo spettatore (quanto altdorferiano, qui soffiano venti del nord… o forse è già prerembrandt…) e lo sguardo ti cade subito sul suo piede nudo e impertinente, e sull’ombra che getta sullo zoccolo di marmo bianco patinato. E poi lo sguardo rimbalza sull’incredibile manto rosso arancio elettrico della Madonna (di sicuro piacerebbe a Pipilotti Rist…). Poi l’occhio si appoggia sulla mano languida di Maria che sembra allungarsi per fare un bagno di luce. E poi viene risucchiato da quel gioco degli angeli trapezisti che tengono teso il telo del baldacchino, di un verde che sembra essere il condensato di tutti i boschi del mondo. È un quadro geniale anche nelle dimensioni, così largo e così profondo. Il formato quasi quadrato (300 x 275) gli dà un’ampiezza, pari solo allo sfondamento visivo che il paesaggio suggerisce. Per questo è un quadro che respira e che vola con quel baldacchino a fare da vela…

Ma è anche un quadro formicolante, senza pace, inquieto di un’inquietudine un po’ adolescenziale. Come se fosse popolato da un’infinità di microrganismi in continuo movimento e mutamento. Forse sono proprio loro a generare quella luce che viene da dentro e da dietro, quasi fosse una tela retroilluminata. Se vi capita, fatevi spegnere e poi riaccendere il riflettore messo dietro l’altare. È a incandescenza e fa uscire il quadro poco alla volta, come una meravigliosa bolla di colore che non smette mai di crescere e dilatarsi…

Lotto è questo: un eclettico che non si smarrisce, che si tiene alle spalle sempre una porta aperta per tornare a casa. Si lascia prendere dall’ebrezza dell’ambiguità, ma all’ultimo evita sempre la deriva con un colpo d’ala. E l’ambiguità all’attimo finale si trasfigura in un’esagerazione di dolcezza.

Per curiosa coincidenza, domenica nelle edicole di Bergamo era in vendita il quinto volumetto dei Pittori Bergamaschi, una bella inziativa curata da Simone Facchinetti per l’Eco di Bergamo: ed era proprio quello dedicato a Lotto. In copertina, gli angeli trapezisti del Pignolo, con quel perizoma ciclamino che vola felice e con un non so che di adolescenziale nel cielo terso.

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Written by giuseppefrangi

Marzo 17th, 2009 at 12:07 am

Gaudenzio, la pittura come una carezza

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gaudenziookGaudenzio, Gaudenzio: questo volto è davvero difficile da dimenticare. È un particolare della pala di Guadenzio Ferrari, conservata nel Duomo di Novara ma che è rinata sorprendemente con il restauro realizzato per la mostra che si apre il 19 marzo prossimo alla Basilica di San Gaudenzio, sempre a Novara (qui i particolari). La Pala è un Matrimonio mistico di Santa Caterina, e secondo Rossana Sacchi che ha scritto la scheda in catalogo, è da datare intorno al 1527. Due riflessioni attorno a questa volto Madonna: difficile parlare del suo autore come di un minore. Qui siamo ad un’intensità espressiva che può essere solo nelle corde di un grande. È un Gaudenzio correggesco, ma rispetto a Correggio il sublime di Gaudenzio non è mai autoreferenziale. Questa Madonna ha lo sguardo puntato verso un qualcosa (il Bambino) ed è la tensione sentimentale che questo rapporto determina a strutturarne l’espressione. È un sublime che si genera dentro un rapporto, che nasce da uno scambio. Questo volto vibra di commozione in ogni cellula e dissemina una dolcezza che invade anche il cuore piuttosto disilluso di un uomo d’oggi. Non credo di esagerare, ma la carne di questa Madonna è una carne “bambina”.

Ci aveva visto Testori, citato nella scheda del catalogo: «la qualità umana della materia di Gaudenzio […], quel suo incarnar le figure piano, piano, come al tepore d’una continua carezza».

Written by giuseppefrangi

Marzo 12th, 2009 at 8:09 pm

Piero, Burri e le gite scolastiche

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Reduce da una due giorni tra Arezzo e Città di Castello, tiro queste conclusioni: c’è una continuità ben visibile tra Piero e Burri. La tenda della Madonna del Parto torna tale e quale come movimento nelle lamiere che Burri ha messo in testata al capannone 3 dei Seccatoi del Tabacco. E il senso della terra sereno e inglobante anche il più alto dei cieli è di Piero come di Burri. Questo per dire che sulla rotta Arezzo – Città di Castello si capisce cosa sia l’Italia: la vastità profonda e tersa dei cieli di Piero, il senso di pacificazione profonda tra l’uomo, il luogo e l’eterno che trapassa da Piero a Burri. È una dimensione poetico-umana-intellettuale che non ha paragoni. Longhi ci aveva visto giusto, assegnando a Piero lo snodo decisivo di tutta la cultura figurativa italiana.

Da qui una conclusione molto pragmatica. Mio figlio andrà in viaggio scolastico a Budapest. Frotte di altri studenti stanno partendo per Barcellona, Parigi o Praga. Fosse per me metterei come obbligo che le gite scolastiche liceali abbiano solo mete italiane, e in partiicolare che una volta nei cinque anni facciano rotta su Arezzo e Città di Castello. Una volta che quelle immagini sono entrate nella testa e nella memoria dei ragazzi qualcosa di buono certamente sviluppano (è da secoli che funziona così…)

Infine: non andate ad Arezzo per la mostra di Della Robbia: c’è pochissimo di Luca e tanto, troppo della bottega di mestieranti che ne discendono. Occasione buttata.

Written by giuseppefrangi

Marzo 9th, 2009 at 12:21 pm

I quadri per me più belli del mondo (il gioco continua)

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Se la Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio è (per me) il più bel quadro del mondo, chi segue a ruota? Ecco una mia personalssima classifica, suscettibile di essere modificata già domattina (metto qualche paletto e sto alla lettera: solo quadri e non affreschi né sculture; un quadro solo per ogni artista)

1. La Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio

2. Tiziano, Paolo III con i nipoti

3. Velàzquez, L’Innocenzo X

4. Antonello da Messina, L’Annunciata (quella di Palermo)

5. Ven Eyck, Madonna del Canonico Van der Paele (o l’Adamo ed Eva della pala di Gand)

6. Rembrandt, Il Figliol prodigo

7. Raffaello, Madonna con il Bambino (la Madonna tempi di Monaco)

8. Bellini, La Pietà (quella di Brera)

9. Bacon, Tre figure ai piedi della Croce

10. Moretto, Cristo sulla scala del pretorio

Mi accorgo che le assenze sono troppe, che il gioco non tiene, che nei primi dieci ce ne dovrebbero stare almeno, almeno altri 20 (la Flagellazione di Piero, Grünewald di Colmar, l’utlima Sainte-Victoire di Cézanne, l’uomo alla finestra di Matisse, La Crocifissione di Masaccio, Giotto di santa Mari Novella, l’Altdorfer di Monaco, la Gallerani di Leonardo, il Cristo di Mantegna, la Veduta di Delft…). Eppure c’è un filo conduttore in questa decina attorno al quale montare altri pensieri. Che la classifica aiuta a precisare le idee. Per esempio io tiro per una pittura come senso del corpo. Per una pittura che cerca la carne, che s’attacca alla carne, o si fonde con la carne (vedi Rembrandt). Vista così la classifica mi può convincere. E Moretto, messo lì a sorpresa ci sta tutto, con il suo Cristo sconfinatamente triste dalla carne grigia. Andiamo avanti. E chi vuole dica la sua.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 26th, 2009 at 8:45 pm

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Il Lazzaro di Caravaggio, il più bel quadro del mondo

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scan-090211-0008Ultimamente mi sono sorpreso a ripetere un giudizio un po’ apodittico: la Resurrezione di Lazzaro, dipinta da Caravaggio a Messina nel 1609 è il più bel quadro del mondo. Provo ad andare oltre l’istintività del giudizio e a supportarlo con qualche ragione. Innanzitutto due dati, non inutili: Caravaggio dipinge questa grande tela per Giovan Battista De Lazzari, mercate genovese di stanza a Messina. Lo dipinge per la chiesa dei Crociferi (l’ordine di Camillo de’ Lellis). Nella commissione in realtà si parla di un soggetto diverso, con la Madonna e San Giovanni Battista, omaggio del committente al “suo” santo. Alla consegna Caravaggio si presenta con un soggetto del tutto diverso, evidentemente concordato in privato con il committente, ma verosimilmente frutto della sua libertà creativa. Anziché appigliarsi al nome si appiglia al cognome del mercante: di qui la scelta di raccontare la Resurrezione di Lazzaro. Il cardinal Paleotti, con un po’ di sprezzo, chiamò questa di Caravaggio il peccato di «novità». Scrive Ferdinando Bologna, che Caravaggio si concedeva «una personalizzazione di scelte in cui il peccato di “novità” è non meno flagrante che deliberato».

Il quadro viene accettato il 10 giugno 1609, «nonobstante» il cambio in corsa del soggetto. Alto 3,80 cm, metà occupata dalla scena, metà dal muro terroso che sembra di una grotta. I personaggi sono tutti allineati in orizzontale, in una ripresa fotografica e frontale. C’è la frenesia concitata e brutale di un fatto di cronaca, ma il clik blocca un istante di ordine compositivo assoluto. Un fiotto di luce di forza atomica entra da sinistra, prende di spalle un Gesù che resta in ombra e piomba sul corpo di Lazzaro, che si sveglia dal sonno della morte con il gesto, vitale e stupefatto, del dormiente che si stira: ma le linee del suo corpo (su cui ha scritto cose inarrivabili Roberto Longhi: «il corpo madido», «un tragico negativo della morte di Adone, quasi provasse a tinger di nero anch l’antica Grecia…») compongono un’architettura suprema – architettura di carne rediviva – su cui si regge tutto il quadro. Tra gli astanti in tre guardano curiosamente verso la parte esterna del quadro, distogliendo lo sguardo dall’epicentro del pur clamoroso fatto. Che cosa guardano? L’origine dela luce? In realtà si coglie dell’ansia sui loro volti. Come se non ci fosse tempo da perdere, come se ci fosse da fare in fretta. Tra i tre c’è lo stesso Caravaggio, il più platealmente distratto: autobiografia di un uomo braccato? L’occhio è sgranato e inquieto…

A destra invece tutti sono decisamente sul pezzo. In particolare Maria, sino a pochi attimi prima persin risentita con Cristo («Se tu fossi stato qui, Lazzaro non sarebbe morto») e ora proiettata, con un gesto mai visto prima, sul volto del fratello, per baciarlo ma anche per sentirne, sul proprio volto, il primo fiato. Particolare di abissale verità e tenerezza, là dove l’immaginazione di Caravaggio va talmente dentro quel fatto da coglierne dinamismi  assolutamente veri, mai prima raccontati. Un bacio trattenuto (le labbra sfiorano soltanto) che vale milioni di baci. Guardate poi la mano di Maria, accarezzata dalla luce, che quasi non osa accostarsi al volto del fratello: come avesse pudore e tremore a toccare un simile miracolo. Quasi non potesse contenere il sussulto per quel di cui è testimone. Più sobria, più osservatrice, come da “copione”, alle sue spalle c’è Marta.

Il tutto dipinto con la fretta che è propria della vita. Con la terra che brucia sotto i piedi. E con quel grande vuoto che incombe e cha ha la funzione di sgonfiare ogni enfasi, di far piombare il quadro dentro la essenzialità drammatica dei fatti. Ecco perché siamo davanti (secondo me) al più grande quadro del mondo.

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Written by giuseppefrangi

Febbraio 21st, 2009 at 5:05 pm

Moretto da sotto in su (preparando Caravaggio)

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morrettoAnche se non ci avesse gettato sopra lo sguardo Caravaggio da ragazzo, questo sarebbe un quadro strepitoso. Moretto lo dipinse nel 1542. Ed è ancora lì al suo posto, a Milano, nel deambulatorio di Santa Maria presso san Celso, sulla sinistra dell’altare. Un’invenzione spericolata, portata avanti senza darlo a vedere. Moretto ha sempre quell’aria intrigante dell’artista disilluso che vorrebbe aver fatto altro. Un artista esplicitamente complessato, che non riesce mai a distendere pienamente le ali. Sempre in conflitto con se stesso. Ma in questo suo andamento un filo macchinoso, in questo suo andar con il piombo nelle gambe (vedi qui quelle di Paolo) avendo però l’ambizione di volare, c’è il suo fascino, la sua malinconia. Qui inventa il punto di vista ribassato, che avrebbe stregato Caravaggio. Siamo tutti per terra con San Paolo, sovrastati da quell’enorme cavallo volante chesta a metà starda tra il cavallone di una giostra di paese e quello della Cacciata di Eliodoro di Raffaello. E siamo sovrastati soprattutto da quel cielo che è un cielo molto di casa, quindi sgomberato da tutte le astrazioni intellettuali. È un cielo molto metereologico, con quelle nuvole cupe, che filano come astronavi. Ma è un cielo anche che scatta e sfonda con quell’azzurro da brividi. E che dire dell’idea di far sbattere la luce sulla parte superiore delle nuvole? Una trovata naturalisticamente perfetta. Ma quel che più conta è che Moretto ci dice: “io vorrei tanto essere la sopra e invece la pittura mi zavorra e mi lega sempre alla terra”.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 2nd, 2009 at 10:47 pm

Cincischiare su Caravaggio

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05042008012Delusione per il documentario su Caravaggio di Massimo Magrì trasmesso dalla 7. Un progetto sconclusionato, con tanti ospiti che cincischiano, senza riuscire mai ad accostarsi ai perché di tanta grandezza. L’unico è Vittorio Storaro (nella foto), che riconosce a Caravaggio quel che intuì Longhi nel ’51: anticipa il cinema. I suoi quadri sono come un film, di cui lui controlla tutto, dalle luci, ovviamente, alla messa in scena, agli attori, ai costumi, alla scenografia. One man movie…

Molto più efficaci i grandi cartelloni che sono comparsi sulla metropolitana milanese, con la Cena in Emmaus di Brera, per lanciare la mostra. Caravaggio quasi si spiega da solo. È come un sasso che ti colpisce, sorprende, commuove. Incuriosisce e intenerisce. Ed essendo un pittore cinematografico, arriva diretto diretto agli occhi delle persone di oggi.

Written by giuseppefrangi

Gennaio 27th, 2009 at 10:16 am