Articolo scritto per Tracce, numero dicembre 2019.
Una diagonale. Una semplice diagonale. Il senso dell’Adorazione dei Pastori, capolavoro dei tempi estremi di Caravaggio, si riassume in quella linea che fa da architrave compositiva e poetica del quadro. La linea parte in alto dal pastore appoggiato al bastone e scende con mola chiarezza passando per la testa del pastore calvo sino ad arrivare alla Madonna che stringe tra le braccia il Bambino in fasce. Nel triangolo inferiore tracciato dalla diagonale Caravaggio ammassa tutti i protagonisti, in quello superiore invece non ha problemi a dipingere, qualcosa di complementare, un grande spazio fatto di niente, tale è la povertà che lo contraddistingue («La capanna rotta e disfatta d’assi e di travi», descrisse l’opera Giovan Pietro Bellori nel 1672). La forza della linea tracciata nell’artista sta soprattutto nell’evidenza della sua direzione: punta decisamente verso il basso. E proprio qui sta il dato decisivo del capolavoro di Caravaggio. I pastori arrivati per vedere il Bambino sembrano precipitarsi con il loro sguardo verso quel punto che sta ai loro piedi. O, per dirla con più aderenza alle cose, verso quel punto posato sulla nuda terra. In genere si adora qualcosa che sta in alto, e che è accarezzato dalla luce del cielo. Qui invece il parametro è capovolto, perché il quadro di Caravaggio è un quadro che affettivamente e compositivamente punta in direzione della terra, scabra e nuda. Naturalmente la geometria immaginata dal grande artista si popola di una straordinaria densità umana. È quella dei pastori, sospinti da un impeto appena trattenuto a piegarsi verso il Bambino; a loro si unisce anche il vecchio Giuseppe, sulla destra, identificabile dall’aureola, tracciata in modo molto leggero. Hanno sguardi semplici; sguardi conquistati da ciò che hanno davanti a loro: pieno di stupore il primo a sinistra, commosso il secondo, semplice e devoto quello di Giuseppe. A terra c’è Maria, sdraiata, con il gomito appoggiato sulla mangiatoia, il volto in penombra tutto dedito al figlioletto che protende le sue braccia vero di lei. È una Madonna dell’umiltà, dato che la radice della parola umiltà ha a che vedere con “humus”, terra; ha un mantello di un rosso vermiglio acceso, che sembra metafora o espansione di un cuore acceso da un infinito amore.
È un’iconografia che a Caravaggio potrebbe essere stata suggerita dai committenti di area francescana; infatti il quadro, oggi custodito nel bellissimo Museo regionale di Messina rimesso a nuovo, era destinato all’altare maggiore di Santa Maria della Concezione, chiesa dei Cappuccini, distrutta dal terremoto del 1908. Tra l’altro, in quegli anni nella città dello Stretto, come rilevato da Antonio Spadaro, gesuita messinese, oggi direttore della Civiltà cattolica, era arcivescovo un personaggio di grande prestigio, fra’ Bonaventura Secusio, dei minori osservanti. Insomma il cupo Caravaggio, «uomo di cervello inquietissimo, contenzioso e torbido», come lo aveva descritto il messinese Francesco Susinno, aveva disciplinatamente accettato le indicazioni che gli erano arrivate dalla committenza francescana ma le aveva poi decisamente sopravanzate, con quella geniale semplicità che lo portava sempre a toccare il cuore della realtà e a mettere a nudo le attese degli uomini. Come aveva scritto un grande studioso dell’artista lombardo, Ferdinando Bologna Caravaggio in quadri come questo «operava un adeguamento del sacro all’esistente, per mettere il sacro all’effettiva portata degli uomini… Dimostrarlo accessibile per via di “somiglianza” significa per lui liberarlo dalle contemplatività astratte e discriminanti e rivelarlo agli uomini nell’aspetto profondamente costruttivo di forza vicina». Proprio così: il Natale secondo Caravaggio è davvero “forza vicina”.