Robe da chiodi

Flash di fine domenica. Rothko, Pontormo e Matisse

5 comments

Ieri il Workshop Rothko a Casa Testori è funzionato benissimo. Una quarantina di partecipanti, oltre tre ore di lavoro seguito da tutti con grande attenzione. Alla fine tutti chiedevano di ripetere l’esperienza. Ci penseremo. Intanto devo annotare che l’approccio a personaggi di queste dimensioni deve essere non frontale. A Rothko si è arrivati per strade diverse (il filosofo, lo storico dell’arte, l’attore, il pittore). E alla fine con questo accerchiamento sono emerse schegge di ragionamento che portano più dentro la sua grande pittura. È come un laboratorio aperto, da proseguire poi ciascuno con i propri sguardi. Annoto tra le tante schegge, quella di Massimo Kaufmann, che si è preso cura di studiare le dimensioni delle tele di Rothko, per scoprire che le sue proporzioni non sono mai standard, ma sempre potentemente esatte. Lui stesso le ha prese a prestito per suoi quadri, verificandone energia e precisione.

Oggi, di ritorno da un bell’incontro con gli amici dell’Economia di Comunione a Incisa, mi sono fermato a Poggio a Caiano per rivedere una delle immagini più folgorante della mia gioventù: la lunetta di Pontormo. Arrivo con Filippo alla Villa (di una monumentale leggerezza: quintessenza di ciò che è l’Italia). Scopro che le visite sono ad ogni ora. Aspettiamo quindi una quarantina di minuti; attorno il paesaggio è un po’ depresso, con il portico in restauro e le aiuole tutte spelacchiate. Alle 15,30 la porta si apre, entriamo e una gentile guardiana con Mibac stampigliato sulla camicia azzurra ci avverte che è una visita “accompagnata ma non guidata”. Una formula che non avevo mai sentito prima d’ora. Dalla guardiola intanto sbucano altri quattro guardiani che si distribuiscono nelle varie sale. Mi chiedo: perché ho dovuto aspettare 40 minuti fuori? E non sono un po’ troppi cinque guardiani, anche gentili, che per di più non sono stati neppure formati a guidare chi entra?

Oggi Repubblica dedica un’anteprima all’uscita della ristampa anastatica di Jazz di Matisse. La ritengo una delle creazioni più grandi di tutto il 900: grande perché assolutamente felice. Spiace che una cosa così bella, che dovrebbe stare sotto gli occhi di tutti specie in tempi complicati come questi, finisca con l’essere oggetto raffinato per pochissimi dato il prezzo che l’edizione avrà. Oltretutto anche i testi di Matisse sono tutti da leggere (come dimostra quello straordinario che Repubblica pubblica nelle due pagine di anteprima). Suggerisco una scappatoia un po’ corsara: su Amazon.de potete trovare a meno di 30 euro l’edizione Prestel Verlag. È vero che i commenti sono in tedesco, ma le immagini non hanno lingua e i testi di Matisse sono in francese… Ve lo suggerisco.

Written by gfrangi

Settembre 23rd, 2012 at 9:17 pm

Un libro che raccomando: il Barocco di Montanari

leave a comment

Scorcio del Baldacchino del Bernini a San Pietro, 1631


«Il vero barocco di Roma è invece tutto in quella soluta felicità di una forma civile ed antica che, evocata dal canone classico, ora però si vede vibrare come attraverso un velo d’aria infiammata; come se il travertino scottasse gonfiando sotto lo scirocco romanesco». È facile riconoscere in queste righe la grande prosa di Roberto Longhi capace di aderire come un guanto all’oggetto di cui sta parlando (in questo caso è la Fontana dei Fiumi di Bernini in Piazza Navona). Ho trovato la citazione nel libro bello e utile di Tomaso Montanari sul Barocco, uscito nella Piccola storia dell’arte Einaudi. È un libro che consiglio perché capace di uno sguardo complessivo, sintetico e chiaro. Uno sguardo che giustamente non nasconde la propria meraviglia di fronte a quella stupefacente stagione della nostra storia culturale. In particolare il libro di Montanari risuona alla fine come un inno ragionato e insieme innamorato della Roma che va dagli affreschi della Galleria Farnese dei Carracci (1599/1600, in contemporanea Caravaggio era alla Cappella Contarelli…) sino alla volta del Gesù del Baciccio (1576/79). In mezzo, sotto la regia dei papi (è un libro giustamente molto “papalino”), ci sta l’eccezionale cavalcata di Bernini e di Borromini; e c’è la geniale e decisiva interferenza di Rubens. Montanari individua una data come momento di innesco di quel processo che portò ad una vera trasfigurazione di Roma: il 6 agosto 1623, quando il cardinale Maffeo Barberini venne eletto Papa, e diventa Urbano VIII. È lui ad avere una di quelle idee semplici che comportano però un salto di qualità nella storia di una città: si “inventa” il Bernini architetto e urbanista. In sostanza è lui a consegnare le chiavi del rinnovamento urbanistico di Roma a colui che sino ad allora era stato solo un grandissimo scultore. Ma più che di un rinnovamento urbanistico si trattò di un vero rinnovamento dell’immaginario della città, trasformata in uno scenario fantasmagorico, completamente immerso nelle dimensioni del mondo (quini nei sensi) ma insieme lievitante verso una dimensione superiore.
Montanari riconosce la genialità della strategia papalina innescata da Urbano VIII e perseguita con modalità diverse dai suoi successori. Ed è sinteticamente significativa la contrapposizione finale con quanto invece accadde con il “cambio della guardia” tra Roma e Parigi. Luigi XIV com’è noto pretese di avere il grande Bernini al proprio servizio. Un fatto che tutta l’Europa aveva seguito quasi aspettando qualcosa di epocale e inaudito. Invece il rapporto fallì clamorosamente. E la ragione la si capisce nel rapporto che uno scrittore inviò a Cosimo III di Toscana descrivendo la reggia che Luigi XIV si era fatto costruire, saltando Bernini. Versailles, scrive Lorenzo Magalotti, non lascerà particolari vestigia di sé. La cosa nuova è che «di dentro ogni cosa ride». In sostanza quello che a Roma era grande scena pubblica, era creazione aperta allo sguardo di tutti, a Parigi diventa scena di corte, chiusa, che taglia fuori dal mondo. Un cambio sostanziale, che ancora una volta ci fa capire quant’è stato grande il paese in cui viviamo. Non solo dal punto di vista artistico, ma anche da quello civile. Come appunto Longhi scriveva (da parte sua Francis Haskell individuò nella “grande cultura e tolleranza dei mecenati italiani” la causa originante di quella straordinaria stagione).

Written by gfrangi

Settembre 16th, 2012 at 9:17 pm

Gabriele Basilico e la Biennale “dormiente”

leave a comment


Parlano da sole queste fotografie (cliccate sulle immagini per ingrandirle) della stupenda installazione Common Pavilions di Gabriele Basilico con lo studio di architetti di Roger Diener, alla Biennale Architettura in corso. Le foto di Basilico sono state scattate a Biennale dormiente, cioè in quei lunghi mesi di silenzio in cui i padiglioni restano soli, tra un evento e l’altro. Sono strutture silenziose, che finalmente possono svelare se stesse invece di essere inghiottite dalle installazioni che ospitano. Sono stranamente solitarie, quando invece siamo abituati a conoscerle sotto l’assedio del pubblico. A volte (vedi il padiglione tedesco con i tre archi sul fondo) neanche ci eravamo mai accorti di quali fosse il loro disegno architettonico. Le foto di Basilico sono poste sul grande mensolone, in un continuum che le fa essere un amalgama, un flusso continuo. Come creature dal dna diverso ma di una stessa grande famiglia architettonica (è bellissima questa soluzione che rompe con l’idolatria della fotografia e ne fa momento di una rappresentazione di un’idea). L’occhio di Basilico documenta con sorpresa ma con la consueta oggettività la vita segreta di questi padiglioni. Si crea un’intesa tra lui e le architetture che va aldilà del consueto (lui parla di «architetture solitarie abbandonate nell’attesa, con una corporeità fisica silenziosa»). Ma soprattutto colpisce quest’armonia delle diversità. Ogni padiglione è nato come espressione di una cultura e di un’identità, ma qui sviluppano solo dialogo. C’è da chiedersi perché. Penso banalmente che sia grazie alla loro natura di architetture profondamente neutrali, marcate dalla loro funzione: che prevede massima flessibilità e disponibilità a farsi usare. Quei grandi spazi fotografati per una volta vuoti, sono come un eccitante per la fantasia di artisti e curatori. Sono spazi straordinariamente seduttivi nel loro silenzio. Vuoti, ma già densi di sguardi che li desiderano. E qui Basilico gioca tutta la sua maestria: quante volte abbiamo visto sue grandi foto vuote di figure, ma tanto piene di “presenze”. Anzi, come lui dice, piene di corporeità.

Common Pavilions ha anche un sito molto interessante, in cui sono registrate le voci di artisti/architetti/storici dell’arte dei singoli paesi chiamati a dire la loro su questa convivcenza di diversità, ciascuno partendo dal proprio padiglione nazionale.

Written by gfrangi

Settembre 12th, 2012 at 7:14 am

Posted in photo

Tagged with , ,

Una grande, umile foto per ricordare Martini

2 comments

Milano, febbraio 1980. Ingresso di Martini a Milano. Foto Dino Fracchia (clicca sulla foto per ingrandire)


La foto (straordinaria) che vedete è quella che apre oggi le pagine milanesi del Corriere della Sera per ricordare Martini. Una scelta molto azzeccata, assai più della retorica foto di un Martini inghiottito dal mantello cardinalizio sparata in prima pagina dallo stesso quotidiano. Vi ripropongo questa immagine con tanto di firma del fotografo in filigrana come la potete ritrovare sul suo sito, per un atto di giustizia: sul Corriere non compare, e non si capisce perché qualsiasi sputacchio di un giornalista debba apparire firmato mentre sui fotografi grava ancora il marchio dell’”arte minore”. Dino Fracchia, l’autore di questo scatto, è un fotografo che fa il suo mestiere con grande semplicità, tenendo gli occhi aperti sulla realtà. E questo ci può bastare. Facendo il suo mestiere, cioè inseguendo la vita vera di Milano con il suo obiettivo ormai da 40 anni, accade che la vita gli offra dei punti di vista straordinari come questi. Ma bisogna essere lì, bisogna aver saputo aspettare, bisogna avere anche molta umiltà: la realtà è più creativa della nostra fantasia. Bisogna credere che anche un’immagine in cui non sta accadendo niente può comunicare qualcosa di profondo e di significativo.
Per raccontare quello che questa foto racconta ci vorrebbero intere pagine. In sintesi: siamo nella Milano del febbraio 1980 giorno dell’ingresso di Martini (cioè alla fine di quegli anni 70 a cui Palazzo Reale ha dedicato una bellissima mostra che chiude domani: se potete non perdetela). Una città grigia. Il vescovo, statuario, di spalle, ha davanti a sé un grande spazio vuoto; sotto il palco si dà da fare un manipolo di fotografi e operatori tutti intabarrati; capelli lunghi e barbe sono come l’identikit di quegli anni. Non c’è molta gioia nell’aria; la gente al di là della transenna guarda con occhi piccolini e un po’ persi quest’uomo nuovo arrivato a sedersi dove s’erano seduto Ambrogio, Carlo e Montini. Ma c’è tanta gente, come si deduce dal particolare di tutte quelle persone arrampicate sul monumento. Sembra una fotografia senza sonoro: quasi stessero lì, tutti zitti a guardare, senza parole. Di fronte domina la facciata dei palazzi, gremiti di neon pubblicitari, ultime schegge luminose della galoppante Milano del boom. Presto sarebbero state spente, per mettere ordine (sic!) nella piazza. In realtà sarebbero state spente perché la festa era finita…
Martini ha cominciato in questa Milano. Che ora guardiamo con un po’ di supponenza, ma che in realtà mi mette una grande tenerezza. Una città grigia, perché Milano ha il grigio nel suo Dna (Foppa, do you remember?). Una città grigia perché ferita da tante difficoltà e quotidiane fatiche. Ma una città vera, che sentiamo sulla nostra pelle e non sopra la nostre teste.
Perciò questa è una grande foto.

Written by gfrangi

Settembre 1st, 2012 at 11:03 am

Pensieri fluidi a proposito del Guggenheim di Ghery

5 comments


«Quando il Guggenheim aprì i battenti, ciò che rimaneva della prosperità di Bilbao era un lungofiume dickensiano disseminato di arruginite piattaforme per i cargo e di spettrali magazzini». Così scriveva Danny Lee, inviato del New York Times. Faccio questa citazione perché alla base del fenomeno Guggenheim c’è un fattore che nell’incontro tenuto al Museo Diocesano ieri sera non ho esitato a definire miracolistico. L’architettura di un non architetto (mai laureato) come Frank Ghery che plana su una città uscita malconcia dal fordismo riuscendo a trascinarla ad un’imprevedibile riscossa, ha qualcosa di miracolistico. È tale addirittura nel suo Dna: con quella capacità di conciliare gli opposti. È artificiosità pura, ma poi insegue forme organiche (dall’alto si leggono i petali di un fiore; di lato la sagoma di un grande pesce); è arbitrarietà, ma controllatissima; è colossale rispetto alle misure di una città come Bilbao, ma poi la scopri integratissima, addirittura osmotica rispetto al fiume e connessa senza forzature con gli assi di scorrimento della città. Notavo che l’escamotage di far passare l’edificio sotto il ponte che attraversa il Nervion e farlo rispuntare al di là con la torre che si apre a doppia punta, sembra una mimesi del fiume: come l’acqua anche l’architettura di Ghery scorre, fluisce sotto il ponte. Bello quello che dice un architetto antitetico a Ghery come Gregotti: «Ghery sembra aver guardato con grande cura l’ambiente circostante ed aver scelto la metafora della grande nave, e quella della memoria della tradizione siderurgica della città, per costruire l’eccezionale argentea immagine del suo museo».
Notavo soprattutto che per quanto “miracolistica” l’architettura di Ghery si nutra di rapporti, non espliciti ma profondi. Notavo ad esempio che lo sconfinamento morfologico dell’architettura nel vegetale o nell’animale è esperienza che Gaudì aveva portato a livelli ancor più estremi. Notavo che ci sono quadri cubisti di Picasso (anche in collezione Guggnheim) possono anche essere visti come sovrapporsi di squame con tutte le sfumature del grigio (vista da vicino la copertura di titanio sembra cercare effetti simili). Infine notavo con grande sorpresa che sempre il Guggenheim (a Venezia) ha in collezione una scultura di Boccioni che sembra il prototipo della forma del museo di Bilbao. Non è un pesce ma un cavallo (1915); però siamo sempre in un orizzonte di fluidità, dove una specie finisce nell’altra. Certo è sin ovvio sottolineare che il Guggenheim geneticamente nasce dall’idea dinamica della scultura di Boccioni. È architettura instabile, magmatica, mobile. È una forma che non “acchiappi” perché ti sguscia dallo sguardo, cambiando connotati ad ogni istante. Ma insieme ha la pigrizia solenne propria degli edifici fuori scala: come un gigantesco animale messo a riposo, che di tanto in tanto ci si aspetti dia uno scossone.
PS: Che ci sia qualcosa di miracolistico in questo edificio lo ha ammesso lo stesso Ghery. «Costruire questo museo è stato un po’ come costruire Notre Dame. Ma qui la città ci era già cresciuta attorno».
PS/2: Notavo che le gigantesche sculture di Richard Serra, con i loro passaggi angusti, sinuosi sono il contraltare dell’edificio che li ospita. Come passare da uno spazio cosmico, a quello delle stradine assediate di una cittadina medievale.
PS/3: L’idea di far colorare di rosso da Daniel Buren l’arco del ponte sul Nervion mi sembra sia stata una pessima idea, fuori luogo e di disturbo. Come l’avrà presa Ghery?

Umberto Boccioni, Cavallo, 1915

Written by gfrangi

Agosto 30th, 2012 at 9:46 pm

Giacometti non si vende né si compra

leave a comment

Alberto Giacometti alla finestra del suo atelier, Parigi, 1961. Foto di Christer Strömholm.

Al Forte di Bard, in Valle d’Aosta, è in corso una mostra su Giacometti, con più di un centinaio di opere provenienti dalla fondazione Maeght. Per questo in catalogo c’è una lunga intervista con Albert Maeght che racconta il rapporto tra l’artista e suo padre, Aimé Maeght. Tra le cose che mi sono saltate all’occhio c’è questo straordinario episodio davvero emblematico della libertà di Giacometti. Protagonista uno dei suoi maggiori collezionisti, l’industriale americano David Thompson.

Thompson era cliente della Galleria. Possedeva una trentina di sculture di Giacometti e altrettante di Miró. Non collezionava nessun altro artista. Durante uno dei viaggi a Parigi, chiese a mio padre di presentargli Alberto, che non conosceva ancora personalmente. Accompagnai quindi Thompson da Alberto. L’avevamo avvisato della nostra visita. Nel cortiletto davanti all’atelier Alberto aveva posto un gesso della grande donna in piedi, alta due metri e mezzo. Thompson, appena vide la scultura, disse immediatamente «La voglio, quanto vuole?». Giacometti rispose «Non è in vendita, non è finita, e comunque deve rivolgersi al mio mercante d’arte». Thompson insistette e propose una somma molto elevata, convinto che Giacometti non avrebbe resistito e avrebbe accettato la sua proposta. Giacometti, piuttosto scocciato, mise fine alla visita e riaccompagnai Thompson in albergo. L’indomani Thompson mi chiamò e mi chiese di organizzare un altro appuntamento perché il giorno prima non aveva visitato l’atelier. Chiamai Giacometti, accettò di rivedere Thompson e lo accompagnai quel giorno stesso. Thompson era rimasto molto sorpreso di vedere, attraverso le finestre del cortiletto, in quale tugurio abitava Giacometti. Aveva ordinato a Fauchon di fargli consegnare dei dolci, cosa che divertì Giacometti. Arrivati nel cortile dell’atelier di Giacometti, la scultura non c’era più. Della grande scultura rimaneva soltanto un mucchietto di gesso, Alberto l’aveva distrutta durante la notte. Thompson gli chiese dov’era la grande donna in piedi che aveva visto, Alberto gli insegnò il mucchio di gesso. Non so se Thompson capì la lezione che gli aveva dato Alberto, dandogli a intendere che il suo denaro non lo impressionava. Dal canto mio, penso proprio che fu il valore che gli diede Thompson a spingere Alberto a distruggerla. Alberto era innanzitutto un uomo libero, non voleva essere l’ostaggio di nessuna costrizione. Più tardi, Thompson vendette tutta la sua collezione al Museo di Zurigo.

Written by gfrangi

Agosto 24th, 2012 at 12:39 pm

Posted in pensieri

Il Beaubourg, quel geniale scherzo di gioventù

6 comments

Una stupenda immagine del Beaubourg visto dall'alto e dal retro. (Clicca sull'immagine per ingrandirla)

Non me sarei occupato così a fondo se non avessi dovuto farlo per una conferenza (ieri al Museo Diocesano di Milano). Ma a volte le cose che fai per “dovere” portano molte sorprese. E la sorpresa è stata di capire bene le ragioni che hanno fondato un museo che non amo tanto come museo ma come luogo: il Beaubourg. Ho capito che nel 1969 quando Pompidou prese l’iniziativa, in modo molto autorevole e deciso, di dare a Parigi un luogo che Parigi non aveva per l’arte contemporanea, aveva degli obiettivi molto precisi. Uno, ridare il primato che Parigi aveva perso come centro di riferimento per la produzuone artistica (nel 1969 a New York c’era stata la mega mostra-sfregio sull’arte americana 1940-1970: ovvero la consacrazione dell’egemonia). Due, riassorbire in modo veloce le spinte innovative e disgregatrici del 1968, con un luogo che Pompidou stesso non chiama museo ma centro di produzione delle arti. Non è un caso che tre anni dopo, il gigantesco concorso a cui avevano partecipato oltre 600 studi di tutto il mondo, venisse vinto da due semisconosciuti architetti trentenni, dal look molto sessantottino. Renzo Piano e Richard Rogers vincono con un progetto che in teoria avrebbe dovuto esser scartato a priori, perché contravveniva una delle regole di ferro dell’urbanistica parigina imposte dal prefetto Hausmann: niente edifici oltre i 25 metri (il “plafond de Paris”, lo avevano ribattezzato). Piano-Rogers invece sviluppano la cubatura dell’edificio in altezza, arrivando a 42 metri, per liberare la grande piazza, come spazio aperto, luogo di raccolta, espansione esterna dello spazio interno del Beaaubourg. La piazza, un’idea sessantottina: ma è l’idea vincente che folgora tutta la giuria (del massimo livello: Laclotte, Niemeyer, Philips Johnson, il direttore delle Stedelijk di Amsterdam tra gli altri). La “chenille” (il bruco), cioè l’elemento della scala mobile esterna che s’affaccia sulla piazza, altro elemento che conquista la giuria, in fondo è un’espansione concettuale di quella stessa idea della piazza. Poi Piano&Rogers vanno avanti con una radicalità molto sessantottina: struttura libera da muri perimetrali e non, spazi interni tutti liberi da gestire. Nulla di preordinato. Il meglio viene dalla genialità semplice della concezione costruttiva: tutto acciaio. Pilastri alti 48 metri (85 cm di diametro), travi di 45 che andavano a poggiare su qugli stupendi elementi concepiti come raccordo e che fanno da bilanciere (le “gerberette”) da 10 tonnellate l’una, tenute a terra da agilissimi tiranti sempre d’acciaio. Poi sopra, tutto questo, l’impiantito. (se volete divertirvi, qui il sito del Pompidou propone il gioco del montaggio di questi elementi: un meccano virtuale). L’epopea della costruzione con l’arrivo nel vecchio Marais dei pezzi interi sfornati dalla Krup di Essen, è qualcosa rimasto nella memoria dei parigini.
Il tutto dipinto di bianco, mentre i colori che danno il tono (misuratamente pop) al Beaubourg sono quelli che distinguono le le infrastutture: blu i tubi dell’aria (ma bianche le grandi prese d’aria sul tetto e sulla piazza, le famose “orecchie d’elefante”), gialli quelli dell’elettricità, verdi le condutture dell’acqua per condizionamento e sanitari. E naturalmente il rosso per ciò che fa salire le cose e gli uomini: la “chenille” e gli ascensori.
È un’operazione di spavalda eversione architettonica il Beaubourg. Basta vederlo dall’alto inserito come un’astronave piombata da chissà dove (come nella stupenda foto qui sopra). Un grande giocattolo, concepito con una sana incoscienza giovanile. Non si può non amarlo… Mai più Piano e Rogers avrebbero osato tanto.
Delle due ragioni fondanti che avevano mosso Pompidou una è vinta e l’altra no. Vinta la scommessa di assorbimento del 1968 (lo “stato culturale” non sbaglia un colpo…): con il Beaubourg le istanze “alternative” di libertà, di abbattimento dei muri, di creatività diffusa, sono fatte proprie da chi doveva essere il soggetto da combattere. Persa quella di rimettere Parigi al centro. Il museo, che ha la più straordinaria raccolta del 900 (una gioia infinita e indicibile le decine di Matisse), è un luogo che non è mai decollato: su 5 persone che entrano al Beaubourg una sola va in quelle sale. Nulla a che vedere con l’energia che il Moma riserva a chi ne varca la porta.
La cosa più bella del Beaubourg resta il Beaubourg.

Written by gfrangi

Agosto 23rd, 2012 at 2:15 pm

1914, Matisse spalanca Notre Dame sul 900

one comment

Henri Matisse. Vista su Notre Dame, 1914, New York Moma

C’è una categoria che non avevo mai pensato di trovarmi ad associare a Matisse: ed è quella della sistematicità. Come dice la sua bellissima frase messa in esergo alla mostra vista a Copenhagen (proveniente dal Beaubourg, prossima tappa New York), “la conclusione di un quadro è solo il prossimo quadro”. Nella mostra si scopre come quello che sembrava solo esito di una grazia di cui era fortunato destinatario, in realtà in Matisse fosse anche un percorso di chiarimenti successivi, di messa a fuoco, di correzione, di semplificazione. Non è mai un percorso faticoso quello di Matisse, ma esattamente il contrario: è un percorso di progressivo alleggerimento, delle immagini, delle forme, della materia stessa dei quadri. Ci sono alcune pareti in mostra che danno felicità solo a vedere come sia possibile ad un uomo fare cose sempre più grandi e decisive, facendole più semplici. Un caso è quello delle tre vedute di Notre Dame prese dal suo studio di Quai Saint Michel nel 1914. Matisse parte da un vedutismo non naturalistico che risente del rapporto con Signac, e arriva a velocità sorprendente a una soluzione radicale, dove restano delle geometrie e delle elementarità cromatiche che sanno di Paradiso. Il tutto nell’arco di pochi mesi.
Siamo nel 1914, e Matisse sembra aver già risolto tutto se stesso e il suo rapporto con il 900. Il tumultuoso e a volte un po’ infantilistico affermarsi delle avanguardie, non viene combattuto ma sopravanzato senza necessità di nessun conflitto. E a quelle esperienze cronologicamente strette nel loro tempo, Matisse contrappone un orizzonte larghissimo per sé e per tutti. C’è come una distensione intellettuale che libera spazi, che disinnesca tutti gli aut aut. La Notre Dame di Matisse, tutta d’un azzurro in cui precipita la memoria della luce filtrata dalle vetrate e che risucchia la metropoli presuntuosa nella vastità calma del Mediterraneo, diventa un punto d’avvio, una porta aperta; addirittura di più, una catapulta.
Questo quadro (in particolare visto nel processo che lo genera, incredibilmente rapido, chiaro, univoco), fa capire quale sia la grandezza di Matisse. C’è un’energia intuitiva in lui, che si fa largo con facilità, senza farsi condizionare dai problemi e dalle parole d’ordine che pur gremivano quegli anni. C’è una capacità a trovare un ordine alle cose, lasciandole però sempre aperte. C’è una comprensione istintiva del fattore monumentale proprio della realtà, una simbiosi della tela con la intima grandezza delle cose. Notre Dame naviga nel blu, ma insieme conserva tutta la forza e il peso delle sue squadrature di pietra, con l’incisività decisa di quel colore graffiato; è incardinata nella storia, ma spalancata senza riserve su quel che deve arrivare. È un grande capolavoro aperto, a noi e a chi dopo si è messo a fa arte. È dire un’eresia pensare che qui ci sia già Morandi, ci sia già la pop art e ci siano anche Barnett Newman e Rotkho?

Written by gfrangi

Agosto 19th, 2012 at 1:51 pm

Posted in mostre

Tagged with , , ,

Germania, ragionamento sulle città azzerate

2 comments

Tra le tappe della galoppata agostana c’è stata anche Hildesheim. Una città a metà strada tra Kassel e Amburgo, che nei ricordi di studente è legata alle immagini del magnifico portale di bronzo dell’anno mille, della chiesa di San Michele, già abbazia benedettina, un edificio importante per la storia tedesca. L’arrivo ad Hildesheim ha qualcosa di traumatico. Si entra in una città azzerata, fatta di piccoli edifici, dall’aspetto modesto e un po’ depresso. Una città con 1300 anni di storia ridotta all’aspetto di una new town. È la costante delle città tedesche

, passate al terribile setaccio dei bombardamenti alleati tra 1943 e 1945. Ad Hildesheim toccò il 22 febbraio del 1945. L’87% del centro storico andò distrutto, si perse il patrimonio delle 1500 case a graticcio che costituivano un patrimonio storico oltre a dare l’aspetto fisico alla città. Ne resta una oggi, la Knochenhaueramtshaus, alta 26 metri, con la facciata a sbalzo, che in alto sporge di oltre due metri rispetto alla base. Non è ovviamente l’originale costruito all’inizio 1500 dalla Gilda dei macellai, ma è la copia che la cittadinanza volle rimettere insieme, con una raccolta pubblica di finanziamenti, a metà degli anni 80. Anche San Michele andò giù al 90% ed è stata ricostruita fedele nei particolari, ma ovviamente con il sapore di falso nell’insieme. Per fortuna il portale, nella mia memoria leggendario, si è salvato ed è oggi ricoverato nel museo locale, in attesa di tornare al suo posto a sistemazione completata. Su un’anta scorre la storia della creazione e del peccato originale, con le figure che sbalzano spesso a pieno rilievo sul piano lasciato libero: lo stile è di un’energia sintetica che, con elementi radi, riesce a raccontare tutto. Sull’altra anta c’è la sequenza della natività, cioé la storia del riscatto. E l’artista propone un legante commovente tra i due momenti: Eva nella prima anta, viene rappresentata mentre allatta il primo figlio Abele, con una prefigurazione chiara alla Madonna con il Bambino.. Oggi il portale è custodito nel locale museo, in attesa di tornare al suo posto a dicembre 2013.

Tornando al tema delle città, ogni volta che si entra in una città tedesca si sente il peso di questo annientamento subito e di questa riduzione drastica del passato: mi piacerebbe studiare quale dibattito si fosse innescato sul tema immane delle ricostruzione, negli anni del dopoguerra. Ma penso, a vederne gli esiti, che si sia andati avanti in ordine sparso, nella Germania per altro divisa in due. Certo mi vengono alcune riflessioni “a pelle”, confontando Amburgo e Francoforte.
Amburgo, la città divorata dalle tempeste di fuoco raccontate nel libro impressionante di Sebald, Storia naturale della distruzione (luglio 1943, 74% della città distrutta, 40mila morti tra i civili), è oggi una città magnifica, rimessa in piedi dando fiato anche a quell’enfasi che ne aveva fatto nella storia città ricca e potente. Quando si arriva in auto, si passano i grandi ponti sull’Elba e ci si immette in strade tagliate tra sequenze di palazzi forti, alti, mai casuali. Sono costruzioni che tramettono energia e anche solennità. Spesso ho notato come siano palazzi che allungano le loro facciate anche per oltre cento metri. Poi, la città prende fiato nella zona del lago per trasformarsi in dedali quasi napoletani appena ci si inoltra all’interno.
Francoforte è tutta l’opposto. Le carte se le gioca con lo skyline dei suoi grattacieli visibili a 20 km di distanza arrivando con l’autostrada da nord. Quando si entra in città l’effetto è brutalmente sciatto. I grattacieli sono delle fortezze (bancarie) costruite quasi tutte male, solo per dare uno sfoggio egemonico. Sono sovraccarichi di elementi, di una ridondanza un po’ lasvegasiana. Ma qui è tutto cemento e pietra, niente cartapesta. Anche Foster che ha progettato il grattacielo della Commerzbank, finisce macinato. Il resto della città (distrutta al 70% nel 1943; centro storico azzerato) è di un’architettura minimale e depressa, tutta obbediente alle funzoni e svuotata da ogni tentativo di conferire una chiave simbolica a ciò che si stava per costruire. Si vede un po’ di cultura rimediata dal Bauhaus. Ma a ciascuno il suo: e io al Bauhaus non affiderei mai la ricostruzione del centro (cioé del cuore) di una città.

Amburgo

Francoforte

Written by gfrangi

Agosto 15th, 2012 at 6:46 am

Posted in pensieri

Tagged with , , ,

Appunti di viaggio, Norimberga – Copenhagen. Da Dürer a Matisse

4 comments

Viaggio Germania- Copenhagen, primi appunti.
Martedì, Norimberga. Mostra sul Giovane Dürer. Molto bella, completa: si vede che è una mostra preparata con un percorso di avvicinamento importante, testimoniato dal catalogo. Peccato l’allestimento, a tratti imbarazzante di bruttezza. Del resto la sede del museo è davvero orribile dal punto di vista architettonico. Emerge l’immagine di un grande preso da una creatività febbrile e organizzato secondo un modello imprenditoriale che va ben oltre il suo tempo. Meravigliosi i paesaggi del primo viaggio italiano. Meravigliosi i disegni. Assrbe Venezia, ma resta sempre dentro un orizzonte di sperimentalismo e di irrequietezza (e nei quadri sacri anche di franosità) che ha il sapore di eterno gotico.

Mercoledì- giovedì, Kassel Documenta e Gemäldegalerie.
Documenta è una Biennale più ordinata e più ragionata. Ogni artista ha spazi ben definiti, senza terreni comuni come avviene a Venezia. Del resto capita ogni 5 anni e c’è tempo per metterla a punto… Impressionante la quantità di persone in ogni sede (sono una decina per tutta la città). Non c’è titolo ma c’è come una domanda sottostante: che ci sta a fare l’arista oggi nel mondo? Che responsabilità ha rispetto alla storia? Domina ovviamente un certo ben pensare in chiave ecologista, ma ci sono tante sorprese, con ripescaggi anche di tanti “geni degli anonimi”. In generale un’esperienza affascinante. Da metabolizzare con calma, anche con l’aiuto della Guida, molto ben fatta, graficamente di una razionalità tutta tedesca.
Quasi deserto invece alla Gemäldegalerie, nello spettrale Schloss che domina la città. Eppure la sala di Rembrandt è degna dei più grandi musei del mondo (con il capolavoro di vecchiaia di Giacobbe che benedice i figli di Giuseppe). Ma anche un Rubens stupendo, con il Figliol prodigo convocato tra i grandi santi ad adorare la Madonna con il Bambino. E poi la sorpresa della Crocifissione di Altdorfer.

Venerdì. Amburgo. Città stupenda, poco tedesca nel suo caos (terrificante il traffico). Una Rotterdam in grande scala. Il museo invece è un po’ depresso, grande e ordinato, ma con poche punte. Bella la sala di Beckman, un grande Kirchner nel salone degli espressionisti, un Max Ernst giallo e rosso che sembra anticipare Rotkho. Poi bellissimi Courbet, e il solito folgorante Rembrandt: questo è un quadro giovanile, Gesù presentato al tempio, com un Simeone che lo tiene disinvoltamente tra le braccia mentre dialoga fitto con Maria.

Sabato, Copenhagen. Città giovane, tutta sottosopra per grandi lavori in corso, in certe zone mangiata dai turisti. Non allo Staten Museum, uno dei più bei musei che mi sia capitato di vedere. Allestimenti eleganti, pausati; una disposizione che cerca di calamitare un pubblico non specialista. Ma soprattutto un gigantesco Mantegna (Cristo sul sepolcro con due Angeli): una capolavoro da vertigini. Sue grandi ritratti di Tiziano, uno non fa meno di El Greco (ritratto di Palladio, 1570). E un abate premostratense di Rubens, in preghiera su uno sfolgorante sfondo rosso. Meravigliosa la sala Matisse, con i due capolavori del 1906 che si fronteggiano: il ritratto della moglie (con il “raggio” verde sul naso, un gioiello di sapore post bizantino) e l’autoritratto in t-shirt: immagine di un uomo che si appresta a scaraventarsi con tutta la sua energia positiva sul secolo che si apre. Un’immagine chiave per capire in modo non scontato il 900.
Al piano terra, la mostra su Matisse seriale proveniente dal Pompidou. Una delle più emozionanti viste negli ultimi anni. Ne riparlerò.

Written by gfrangi

Agosto 12th, 2012 at 5:01 am