Robe da chiodi

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Flash di fine domenica. Rothko, Pontormo e Matisse

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Ieri il Workshop Rothko a Casa Testori è funzionato benissimo. Una quarantina di partecipanti, oltre tre ore di lavoro seguito da tutti con grande attenzione. Alla fine tutti chiedevano di ripetere l’esperienza. Ci penseremo. Intanto devo annotare che l’approccio a personaggi di queste dimensioni deve essere non frontale. A Rothko si è arrivati per strade diverse (il filosofo, lo storico dell’arte, l’attore, il pittore). E alla fine con questo accerchiamento sono emerse schegge di ragionamento che portano più dentro la sua grande pittura. È come un laboratorio aperto, da proseguire poi ciascuno con i propri sguardi. Annoto tra le tante schegge, quella di Massimo Kaufmann, che si è preso cura di studiare le dimensioni delle tele di Rothko, per scoprire che le sue proporzioni non sono mai standard, ma sempre potentemente esatte. Lui stesso le ha prese a prestito per suoi quadri, verificandone energia e precisione.

Oggi, di ritorno da un bell’incontro con gli amici dell’Economia di Comunione a Incisa, mi sono fermato a Poggio a Caiano per rivedere una delle immagini più folgorante della mia gioventù: la lunetta di Pontormo. Arrivo con Filippo alla Villa (di una monumentale leggerezza: quintessenza di ciò che è l’Italia). Scopro che le visite sono ad ogni ora. Aspettiamo quindi una quarantina di minuti; attorno il paesaggio è un po’ depresso, con il portico in restauro e le aiuole tutte spelacchiate. Alle 15,30 la porta si apre, entriamo e una gentile guardiana con Mibac stampigliato sulla camicia azzurra ci avverte che è una visita “accompagnata ma non guidata”. Una formula che non avevo mai sentito prima d’ora. Dalla guardiola intanto sbucano altri quattro guardiani che si distribuiscono nelle varie sale. Mi chiedo: perché ho dovuto aspettare 40 minuti fuori? E non sono un po’ troppi cinque guardiani, anche gentili, che per di più non sono stati neppure formati a guidare chi entra?

Oggi Repubblica dedica un’anteprima all’uscita della ristampa anastatica di Jazz di Matisse. La ritengo una delle creazioni più grandi di tutto il 900: grande perché assolutamente felice. Spiace che una cosa così bella, che dovrebbe stare sotto gli occhi di tutti specie in tempi complicati come questi, finisca con l’essere oggetto raffinato per pochissimi dato il prezzo che l’edizione avrà. Oltretutto anche i testi di Matisse sono tutti da leggere (come dimostra quello straordinario che Repubblica pubblica nelle due pagine di anteprima). Suggerisco una scappatoia un po’ corsara: su Amazon.de potete trovare a meno di 30 euro l’edizione Prestel Verlag. È vero che i commenti sono in tedesco, ma le immagini non hanno lingua e i testi di Matisse sono in francese… Ve lo suggerisco.

Written by gfrangi

Settembre 23rd, 2012 at 9:17 pm

Aurelio Picca, quando la vita entrava e usciva dai dipinti

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Pino Pascali, Primo piano Labbra, 1964

Ho letto il libro di Aurelio Picca che giovedì presenteremo con Luca Doninelli a Casa Testori (giovedì 14, ore 21, tutti invitati). Inutile sottolineare che mi è sembrato un libro bellissimo, una galoppata struggente attraverso quella stagione della nostra storia in cui «il mondo accastava uno sull’altro Marylin Monroe, Jaguar E. Type, Black Panters, Woostock». A questo accatastamento si potrebbero aggiungere anche i nomi degli artisti che Picca, soprattutto nella prima parte del libro, convoca a raffica o per fissare in icona quei momenti di psicologia collettiva, o per rendere l’idea che in quella stagione i piani della vita reale e dell’arte rifluivano uno nell’altro in una continuità quasi ovvia. Questo ricorso alle immagini dell’arte come espansione della cronaca funziona in modo a tratti sorprendenti: il devastante incidente di moto che toglie di mezzo il personaggio chiave del romanzo, il Tenebroso, viene sottolineato con il ricorso ad Arman e Pollock: «Il volto del Tenebro era un cartone nero e sfasciato come i violini di Arman e il suo stesso sangue gli piovve addosso che sembrava lo sgocciolamento dei quadri di Jackson Pollock». Il pop domina come immaginario e anima di un’epoca. Bellissimo questo passaggio: «In quei giorni a girare in Giulia con Tutta la mia città a palla, pareva di entrare e uscire da un dipinto superlucido di James Rosenquist; o continuare a baciare, con la testa spezzata dai sogni, labbra rosse alla Pino Pascali». E ancora: «Nel buio si videro i lampi degli spari. Non galleggiare, ma tagliare la notte dall’ombelico in giù. Fu una serigrafia pop. La prima in assoluto. Magari di Richard Hamilton». E ancora: «Nulla offuscava la luminosità dei giorni, dunque scorrevano come tanti dipinti di Richard Estes, Ed Kienholz, Tom Wesselmann, David Hockney, mentre le ragazze che si incontravano erano identiche alla trasparenza di Perfect Match di Allen Jones, o argentate come quelle di Giosetta Fioroni».
Tra i tanti artisti evocati e convocati c’è anche Mark Rothko. La prima volta le bandiere nere con la grande A cerchiata di bianco di una manifestazione di anarchici, rimandavano «alle Pale di Rothko» (trovo che l’uso del termine “pala” per le opere di Rothko sia un’intuizione sintetica e geniale). La seconda volta invece il grande artista viene evocato per inadeguatezza: «Il cielo era altissimo più di Mario del Monaco. Arrivava oltre ogni canto di tenore. Quel cielo, come un quadro mai dipinto da Rothko, ma da Andrea Del Sarto sì…». Il parallelo è ardito, ma ci sta tutto.

Written by gfrangi

Giugno 9th, 2012 at 10:18 am

L’Urlo di Munch, sovrastimato non solo nel prezzo

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La versone dell'Urlo, 1895, venduta a New York.

I 120 milioni di dollari per una delle quattro versioni dell’Urlo di Munch sono uno sproposito. E questo indipendentemente dal fatto che io giudichi questa “icona” di Munch un po’ troppa sovraccaricata di importanza, con il risultato di essere stata trasformata in una sorta di chiave di accesso interpretativa all’arte del 900 (Munch le realizzò infatti tra 1893 e 1895): il 900 come secolo dell’ansia, della ricerca dell’identità, dello spaesamento dell’individuo. Non sono affatto convinto che questa sia una chiave buona per capire il 900, che al contrario di questa visione depressiva mi è sempre sembrato un secolo ricco come pochi altri di energia e di vitalità, capace di cambiamenti continui e accelerazioni da far girar la testa. Il 900 è il secolo dei fuochi d’artificio assai più che dei fuochi fatui che invasero la testa di Munch nel corso di quella famosa passeggiata a Nizza. Se c’è un’ansia nel 900 è un’ansia molto diversa: quella di non apparire vecchi, di non farsi trovare indietro rispetto al nuovo che avanza. A volte per capire una stagione artistica serve più una cronologia ben fatta di tante, pur acute e intelligenti analisi interpretative (ttanto più se le interpretazioni sono in realtà elucubrazioni). Se si mettono in fila le date dei fatti salienti dell’arte del 900 ci si troverebbe davanti ad una raffica di fatti impressionante, difficilmente conciliabile con l’idea del secolo “depresso” o in cerca di se stesso. Il 900 è piuttosto un secolo vorace, mai sazio, in continua quasi ossessiva fuga da ogni forma di conservazione.
PS: a proposito dell’Urlo, ieri nel corso di una conversazione pubblica a Como che aveva al centro l’opera di Rothko, mi è apparsa chiara l’evidenza che le tele di Rothko, in particolare quelle del Seagram Palace, trattengano un grido assai più clamoroso, potente ed epocale di quello di Munch. La differenza è nella radice del grido. Che per Munch è tutta psicologica e quindi individuale, mentre per Rothko si genera da una sorta di capacità di calamitare e di “contenere” formidabili tensioni della storia. Il risultato è che l’urlo di Munch si esaurisce là dove inizia, mentre quello di Rothko è come un “rombo incatenato” che continua a far tremare i muri e a tenere sotto pressione chiunque lo affronti con lo sguardo.

Written by gfrangi

Maggio 4th, 2012 at 11:54 am

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Leggere Rothko per capire Rothko

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Mark Rothko, Seagram commission paintings, Tate Modern, London

Devo a Silvano Petrosino e a un suo prezioso libretto (Abitare l’arte, Interlinea editore) una prospettiva davvero convincente per entrare nella pittura di Mark Rothko. Questo il senso della riflessione da filosofo, di Petrosino: l’uomo è creatura che “abita” in senso completo il mondo, in quanto se ne prende cura e non si limita a usarlo per vivere. Ma a sua volta l’uomo è anche un essere “abitato”: abitato da un’alterità, da un qualcosa che non è mai l’esito del nostro costruire, «nemmeno di quell’inevitabile costruzione che accompagna ogni immaginazione, perfino quella più inventiva e più creativa». Si può chiamarlo Dio, si può chiamarlo caso, ma è comunque un’alterità irriducibile.
È una presenza che eccede e inquieta l’uomo: e che se viene taciuta può alla fine esplodere in forme drammatiche. L’arte invece svolge questa straordinaria funzione, che ultimamente può esser definita sociale, nel senso più alto del termine: apre all’alterità. Dà un luogo a ciò che eccede. Ed è qui che Petrosino fa entrare in gioco Mark Rothko. Rothko dice di fare, attraverso la propria arte, un’opera di “contenimento”. I suoi grandi quadri sono luoghi in cui la spinta dell’essere trova un modo di “abitare” con gli uomini, senza trasformarsi in forza fuori controllo. Ma per arrivare qui l’artista rischia «la distruzione, il prezzo da pagare per aver violato una terra proibita» (Rothko).
Dice giustamente Petrosino che Rothko può rivestire questo ruolo (e quindi realizzare i capolavori che realizzò) perché chiuse ad ogni tentazione narcisistica (il narcisismo è l’arte abitata da sé e non a un “altro”), così dominante nell’arte di tanto 900. Il brano in cui Rothko spiega questo credo siano delle pagine più lucide e moralmente più belle tra quelle scritte dagli artisti nel secolo scorso. Eccola.
«Non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l’espressione di sé. È una comunicazione sul mondo a qualcun altro… Ogni insegnamento incentrato sull’espressione di sé in arte è sbagliato e ha a che vedere piuttosto con la terapia. Conoscere se stessi è prezioso affinché il sé possa essere rimosso dal processo. Insisto su questo punto perché è ancora diffusa l’idea secondo cui il processo stesso dell’espressione di sé comporti molti pregi. Ma produrre un’opera d’arte è un’altra questione… Io preferisco trasmettere una visione del mondo che non appartiene totalmente a me stesso. L’espressione di sé è noiosa… L’espressione di sé veicola spesso valori inumani» (da Scritti sull’arte)

Written by gfrangi

Marzo 28th, 2012 at 10:08 pm

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Cosa avrebbe fatto Rothko in Vaticano

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Bella sorpresa quella che ci ha fatto l’amico Luca Fiore nel suo blog No Name: in una pagina dei Ricordi di un collezionista di Giuseppe Panza, ha scovato questa notizia inedita sull’ultimo Mark Rothko. Scrive Panza: «L’ultima volta che ci vedemmo, non molto prima della sua malattia, chiese a mia moglie di contattare il Vaticano per fare una Cappella a Roma. Non prendemmo iniziative, avendo molti dubbi sull’accoglienza della proposta, conoscendo le difficoltà del Vaticano di capire l’Arte Astratta».  Quindi non se ne fece nulla, ma resta l’affascinante interrogativo di capire che cosa avesse in testa Rothko, per arrivare ad esporsi su una richiesta simile. Lui con la sue radici ebraiche, lui con quel suo precipitare calmo, tragico e solenne verso una pittura di tomba, che punto di contatto poteva intravvedere con la tradizione ridondante e carnale della cattolicità romana? Non ci sono molti indizi per capirlo. Tuttavia ricordo che alla recente mostra romana, m’avevano sopreso delle grandi carte azzurre, datate 1969: cioé l’anno prima di darsi la morte. Erano del tutto anomale rispetto alla sua parabola che sembrava con implacabile coerenza andarsi a chiudere dentro quegli immensi orizzonti neri. C’era un che di sorprendentemente tenero in quelle opere, come un balbettio di un senso aspirato e intravisto. Forse dopo la Black chapel di Houston, luogo di meditazione per eroi disperati, nel cuore di Rothko era baluginata l’immagine di una cappella tutta azzurra. Quasi un lampo di paradiso. Prendiamoci la libertà di pensare che fosse proprio così…

(Post scriptum: c’è un aspetto di Rothko che andrebbe scavato ed esplorato in tutte le sue potenzialità: è il richiamo imponente alla “frontalità”. Qualcosa che richiama Ravenna e Bisanzio. È un pensiero da sviluppare…)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 9th, 2010 at 12:01 am