C’è una categoria che non avevo mai pensato di trovarmi ad associare a Matisse: ed è quella della sistematicità. Come dice la sua bellissima frase messa in esergo alla mostra vista a Copenhagen (proveniente dal Beaubourg, prossima tappa New York), “la conclusione di un quadro è solo il prossimo quadro”. Nella mostra si scopre come quello che sembrava solo esito di una grazia di cui era fortunato destinatario, in realtà in Matisse fosse anche un percorso di chiarimenti successivi, di messa a fuoco, di correzione, di semplificazione. Non è mai un percorso faticoso quello di Matisse, ma esattamente il contrario: è un percorso di progressivo alleggerimento, delle immagini, delle forme, della materia stessa dei quadri. Ci sono alcune pareti in mostra che danno felicità solo a vedere come sia possibile ad un uomo fare cose sempre più grandi e decisive, facendole più semplici. Un caso è quello delle tre vedute di Notre Dame prese dal suo studio di Quai Saint Michel nel 1914. Matisse parte da un vedutismo non naturalistico che risente del rapporto con Signac, e arriva a velocità sorprendente a una soluzione radicale, dove restano delle geometrie e delle elementarità cromatiche che sanno di Paradiso. Il tutto nell’arco di pochi mesi.
Siamo nel 1914, e Matisse sembra aver già risolto tutto se stesso e il suo rapporto con il 900. Il tumultuoso e a volte un po’ infantilistico affermarsi delle avanguardie, non viene combattuto ma sopravanzato senza necessità di nessun conflitto. E a quelle esperienze cronologicamente strette nel loro tempo, Matisse contrappone un orizzonte larghissimo per sé e per tutti. C’è come una distensione intellettuale che libera spazi, che disinnesca tutti gli aut aut. La Notre Dame di Matisse, tutta d’un azzurro in cui precipita la memoria della luce filtrata dalle vetrate e che risucchia la metropoli presuntuosa nella vastità calma del Mediterraneo, diventa un punto d’avvio, una porta aperta; addirittura di più, una catapulta.
Questo quadro (in particolare visto nel processo che lo genera, incredibilmente rapido, chiaro, univoco), fa capire quale sia la grandezza di Matisse. C’è un’energia intuitiva in lui, che si fa largo con facilità, senza farsi condizionare dai problemi e dalle parole d’ordine che pur gremivano quegli anni. C’è una capacità a trovare un ordine alle cose, lasciandole però sempre aperte. C’è una comprensione istintiva del fattore monumentale proprio della realtà, una simbiosi della tela con la intima grandezza delle cose. Notre Dame naviga nel blu, ma insieme conserva tutta la forza e il peso delle sue squadrature di pietra, con l’incisività decisa di quel colore graffiato; è incardinata nella storia, ma spalancata senza riserve su quel che deve arrivare. È un grande capolavoro aperto, a noi e a chi dopo si è messo a fa arte. È dire un’eresia pensare che qui ci sia già Morandi, ci sia già la pop art e ci siano anche Barnett Newman e Rotkho?