Quando ho esternato il mio entusiasmo dopo aver visto la mostra romana di Cy Twombly in corso alla Galleria nazionale d’arte moderna, mi è stato obiettato: perché lo consideri un grande? Provo a rispondere (anche se la domnda è indebita: non sono io a considerarlo un grande. È un po’ nei fatti e nella percezione condivisa…). Twombly ha questa qualità rara, di coniugare elementarità con complessità. Leggerezza con monumentalità. Nella composizione e convivenza degli opposti sta il punto di fascino, che in lui coincide come non mai con un punto di mistero. Twombly è bambino e insieme un erudito. Un balbuziente e un poeta epico. Un istintivo che non perde mai di lucidità. Ha la sfrontatezza degli americani e insieme la complicazione senza soluzione degli europei.
Twombly non si distoglie mai dal suo epicentro creativo. Sembra calamitato sul ciglio di quel cratere, al fondo del quale c’è il segreto alchemico dell’invenzione creativa. Con la sua mano ronza sempre intorno a quel ciglio, in attesa d’acchiappare lo spirito giusto. Lo vedi radunare gli elementi in ordine sparso per interi lavori, per poi assestare il colpo improvviso e decisivo che ha come esito il capolavoro. I suoi ragionamenti e le sue interviste non aggiungono nulla a quel che la pittura svela: nei dialoghi con Carla Lonzi radunati in Autoritratti, alle lunghe domande seguono solo silenzi, per nulla enigmatici. Tutto è sulle tele, semplice, lirico, fluente.
Il paradigma di Twombly sta nell’episodio accaduto ad Avignone nell’estate del 2007: Sam Rindy, una visitatrice dell’esposizione della Collection Lambert, si è fiondata su una grande tela dell’artista americaano e l’ha baciata lasciando il segno vistoso del rossetto rosso. L’opera del 1977, secondo i tecnici, sarà difficile da restaurare e si porterà quindi sempre il segno di quel bacio. E la cosa ci sta. Si bacia Twombly, perché Twombly nella sua apparente impalpabilità ed enigmaticità è anche un pittore molto carnale. Risucchia con la sua pittura ipnotica e insieme materna. Il grondare giallo nel pannello dell’estate delle Quattro stagioni, è come una colata di densità amorose. Che però conserva l’andamento aereo e imprendibile della pittura-grafia (nella foto L’inverno). Una nota sulla mostra. Il percorso è al contrario. Si inizia dalle ultime cose, con la sala più bella. Nella sala grande, l’impaginazione è tutta sbagliata, perché sia le Quattro sagioni che i tre pannelli quadrilobati dipinti a Bassano Romano sono spezzati su pareti d’angolo. Il passaggio alle altre sale è complicato da un dismpegno con una mezza scala: ed è un’interruzione che disunisce. Magnifico il salone con i due grandi quadri grigi e le due tele di onde in omaggio a Nini Pirandello. Il finale sale su su, sino all’astrattismo solido e forte dei primi quadri. Alla fine si pensa a Pollock, il fratello maggiore di Twombly. Più lirico, più brutale. Certamente meno felice.
comunque la vera forza del lavoro ultimo e penultimo di Twombly sta ,in maniera parallela a quella dell’ultimo Burri ,nella comprensione dell’energia che l’idea antica del ciclo abbia ancora oggi una sua ragione d’essere , i quadri si aiutano a vicenda si rafforzano nell’insistere su idea che li unisce , se vedi tutti i suoi ultimi cataloghi sono sempre pensati in questo modo , allora anche un segno apparentemente infantile diventa necessario nell’equilibrio generale dell’opera , forse a roma questa senasazione è un poco più difficile da avvertire
giovanni
13 Mag 09 at 6:49 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>
D’accordo. Il tenere insieme le polarità opposte dell’apparentemente infantile e del ciclo logicamente strutturato, costituisce la bellezza e la forza di Twombly. Aggiungo che l’esito ha sempre un che di glorioso, di inatteso. E che a differenza di Pollock, che ad un certo punto con il suo dripping approda ad uno stand by un po’ nirvanico, in lui si coglie un cammino in progress.
giuseppefrangi
14 Mag 09 at 7:14 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>