Quando il mondo entra nel cuore
Alberto Giacometti si presentava ogni volta alla porta del lussuoso appartamento affacciato sulla Senna con le tasche della giacca gonfie di lastre di rame già pronte per l’incisione. Era il 1957 e uno dei suoi migliori amici, Michel Leiris, aveva tentato di togliersi la vita ingerendo un flacone di fenorbital. Dopo il ricovero Leiris era tornato a casa per la convalescenza impegnandosi a scrivere delle poesie, che sarebbero state pubblicate con il titolo “Vivantes cendres, innommées”.
Le lastre di rame che gonfiavano le tasche Giacometti servivano appunto per le illustrazioni che dovevano accompagnare il libro. Ne servivano tante, verrebbe da dire in quantità proporzionale all’amicizia che legava l’artista allo scrittore ed etnologo francese: alla fine ne sono scaturiti ben 25 ritratti ad acquaforte, più altrettante incisioni dedicate a dettagli interni dell’appartamento. Ora l’intera serie tappezza una delle pareti del m.a.x. museo di Chiasso, per una mostra che è occasione preziosa per scoprire la grafica di Giacometti (“Alberto Giacometti. Grafica al confine tra arte e pensieri”, a cura di Jean Soldini e Nicoletta Ossanna Cavadini, fino al 10 gennaio 2021).
È una mostra che stimola ad aprire tante piste di lettura non consuete attorno al grande artista svizzero. Una pista, meno collaterale di quel che si pensi, è proprio quella che riguarda il tema dell’amicizia. Tra le incisioni per Leiris, alcune rappresentano lo scrittore a letto, con la testa abbandonata sul cuscino, in una posa quasi da rigor mortis: è certamente segno di una confidenza profonda, che aveva origini lontane nel tempo. Nel 1929 Giacometti, allora ventottenne, aveva esposto alla Galerie Jeanne Bucher a Parigi e Leiris sulla rivista “Documents” gli aveva dedicato un tributo di quelli difficili da dimenticare. «Ci sono dei momenti che si possono chiamare “crisi” che sono i soli momenti importanti in una vita…», aveva scritto. «Si tratta di momenti in cui il mondo esterno si apre per entrare nel nostro cuore e stabilire un’immediata comunicazione. Amo la scultura di Giacometti, perché tutto quello che lui fa è come la pietrificazione di una di queste “crisi”».
L’attività grafica di Giacometti, come scrive in catalogo Susanne Bieri, è un sismografo che testimonia l’intensità e la varietà delle amicizie di questo stilita che viveva relegato nei 45 metri quadrati del leggendario “antro” di Rue Hyppolite Mandrion. Rispetto all’icona dell’artista irriducibile e tormentato, ci viene restituita l’immagine più reale di un uomo ben attento a quel che accadeva attorno a lui, sempre pronto a socializzare, curioso e disponibile a tante contaminazioni con la letteratura e in particolare la poesia: basta scorrere l’interessante cronologia che correda il catalogo (edito da Skira), per rendersi conto della quantità di progetti editoriali in cui Giacometti si è lasciato coinvolgere.
Ad esempio, sempre nel 1929 si era pienamente coinvolto in un progetto molto personale dell’amico Georges Batailles, illustrando l’edizione della sua “Histoire des Rats (Journal de Dianus)”. Si tratta di una serie di incisioni a bulino (tecnica con la quale non si trovava a suo agio e che avrebbe usato molto di rado) con figure su basamento, come sculture disegnate: quelle contrassegnate dalla lettera B nel basamento riprendono i lineamenti di Diane Beauharnais, la donna di cui Dianus-Bataille era innamorato e che avrebbe sposato nel 1946. Amicizia a termine era stata invece quella con André Breton, che non gli avrebbe mai perdonato la sconfessione dell’esperienza surrealista nel 1935: eppure solo l’anno prima quattro incisioni di Giacometti avevano illustrato “L’air de l’eau”, una raccolta di poesia d’amore per Jacqueline Lamba. «Basta con l’immaginario, finito», così l’artista aveva liquidato le pretese di Breton di farlo restare nel movimento. È un momento di passaggio in cui Giacometti interrompe l’attività grafica che avrebbe invece ripreso di gran lena e senza più pause con il suo ritorno a Parigi nel 1946, dopo il lungo soggiorno ginevrino negli anni della guerra.
Degli anni 50 è la scoperta della litografia, grazie in particolare all’insegnamento di un grande stampatore, Fernand Mourlot. La carta porosa e la matita litografica sono strumenti con i quali Giacometti si trova immediatamente a suo agio, anche perché rispetto a bulino e acquaforte gli lasciano margine per cancellature dei segni. Tra l’altro il doppio passaggio dalla carta alla pietra litografica e di nuovo alla carta permettono di non ritrovarsi con l’immagine rovesciata. Nascono così immagini felicemente libere, come appunti visivi che però svelano una energia narrativa. Ci raccontano l’interno dello studio nei momenti disimpegnati delle pause, con il “riposo“ delle sculture e anche dei modelli: scopriamo ad esempio Diego seduto sul letto, nel disordine dei fogli e delle tele.
La lastra di rame invece si trasforma in una teca per la moglie Annette chiamata a pose sacrificali per le incisioni destinate a illustrare un libro di René Char, “Poèmes des deux années”. La costruzione è complessa, perché la lastra è suddivisa quasi si trattasse di un polittico in miniatura, con una lunga predella dove Annette è deposta come fosse in una tomba. Il segno dell’acquaforte si fa leggero, quasi semplicemente graffiato, e dà luogo nel 1955 ad una serie stupenda di incisioni con Annette nuda, spesso semplici prove d’artista o tirature “hors commmerce”, quasi dei pensieri a ruota libera, felicemente disgrafici. Sempre per René Chair, nel 1965, avrebbe realizzato una serie di acqueforti su carta nera con un leggerissimo segno bianco che disegna dei profili di montagne. «La gravure avec les moins de traits que j’ai fait de ma vie», commentò l’artista.
Un capitolo a sé è quello rappresentato dal rapporto con gli editori d’arte. Per il leggendario Iliazd, il georgiano Ilia Zadnevitch, grande innovatore nella grafica e nella tipografia, realizza “Le douze portraits du célèbre Orbendale” nel 1961, ciclo di 12 acqueforti. Ma è l’amico Teriade a convincere Giacometti a mettere in cantiere il suo progetto più felice e più vasto, “Paris sans fin”. L’artista inizia a lavorarci già nel 1958, con lo slancio di chi va alla scoperta della metropoli “senza fine” a bordo dell’auto sportiva regalata a Caroline, la ragazza ventunenne di cui si era invaghito: nel frontespizio ci mostra infatti una ragazza che si tuffa libera nello spazio bianco della carta e invita a entrare nel libro. Sono 150 litografie, su fogli di grandi dimensioni (42 x 35 cm). Lo stile è quello corsivo e libero che questa tecnica gli permette: suggestioni visive di un uomo attirato da tutto ciò che lo circonda. La matita calcografica di Giacometti porta alla scoperta di Parigi, delle sue strade e dei suoi caffè. Ma entra anche negli spazi familiari. Non solo nell’atelier “antro” ma entra nelle case eleganti che aveva regalato a chi gli stava più vicino, quella di Annette in rue Mazarine o quella di Caroline in avenue de Maine. La Parigi di Giacometti è un labirinto pieno di vita, spesso ripreso da dietro lo schermo del parabrezza. In realtà, nonostante la sua baldanzosità, “Paris sans fin” è il libro di un lungo commiato. L’artista sa del male che lo assedia e nel testo solo abbozzato che accompagna le immagini entra in gioco anche «il grande tubo in metallo brillante della gastropia» che «spingeva dentro la gola». L’ultima tavola è quella di un uomo avvolto nel cappotto e ripreso di spalle. A fianco una pagina rimasta vuota: l’11 gennaio 1966 Giacometti moriva senza poter veder stampato il suo “Paris sans fin”.