Robe da chiodi

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Dürer, la grandezza nel dettaglio

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Dürer, Ritratto a 13 anni

Questa recensione della mostra sui disegni di Albrecht Dürer all’albertina di Vienna è uscita su Alias di sabato 29 dicembre.

Quando il 6 aprile 1528 Albrecht Dürer morì nella sua Norimberga non lasciò nulla al caso. Nello studio centinaia di disegni e incisioni erano raccolte e schedate meticolosamente, pronte per essere gestite dalla moglie Agnes Frey, donna spigolosa che era stata a fianco dell’artista per tutta la vita, senza riuscire a dargli un erede. Così intorno al 1550 una parte consistente di quel patrimonio venne acquisito “a pacchetto” da un commerciante della città, Willibad Imhoff. Quello stesso patrimonio poi passò compatto nelle collezioni di Rodolfo II a Praga, per arrivare a Vienna alla corte degli Asburgo ed entrare infine, nel 1796, all’Albertina per volontà del suo fondatore Alberto di Sassonia. La premessa è necessaria per capire come sia possibile realizzare una mostra come quella che l’Albertina stessa ha proposto in questi mesi dedicata proprio al cantiere di lavoro di Albrecht Dürer: sono esposti 100 dei 140 tra disegni ed acquarelli delle raccolte, insieme a decine di prestiti arrivati da grandi istituzioni di tutto il mondo. 

Il valore di questa mostra è quella di offrirsi come un’esplorazione puntigliosa dei meccanismi di produzione artistica che hanno caratterizzato la bottega del più grande e “globale” maestro del Rinascimento tedesco. Fin dai primi passi il percorso di Dürer si rivela impostato con decisione: ad un’incisione a bulino con un Autoritratto del padre orafo, Albrecht risponde con un “Autoritratto” a punta d’argento fatto a 13 anni. Il ragazzino ha già un aspetto saldamente consapevole e con il dito puntato sembra indicare il percorso a cui mira. Un percorso che non coincide con la professione del padre anche se dall’arte orafa incassa quella vocazione a mirare al dettaglio più infinitesimale. Trascorrono 10 anni ed ecco comparire Agnes, anzi “mein Agnes” come l’artista scrive sul foglio, questa volta disegnato a inchiostro: è il 1494, anno del matrimonio, per altro combinato dal padre durante l’assenza di Dürer per apprendistato presso Martin Schongauer a Colmar. È una moglie ragazzina e colpisce l’immediata intimità del rapporto, anche se il sodalizio prenderà poi un connotato più imprenditoriale che affettivo.

Dürer, Mein Agnes

Già nel 1495 fa esordire il celebre monogramma “AD” vero marchio di fabbrica con il quale tenta di proteggere le sue invenzioni. È un Dürer sistematico, concentrato nell’operatività quello messo in scena con questa mostra dell’Albertina. Nelle premesse Christof Metzger, curatore dell’Albertina, chiarisce di aver voluto tenersi fuori dalla celebre lettura panofskyana di Dürer che assegnava una centralità al motivo della malinconia. Infatti la mostra insiste coerentemente sull’indagine del “modus operandi” dell’artista, quasi a voler dimostrare come l’organizzazione del lavoro, macchina sempre perfettamente a regime, fosse speculare alla sua organizzazione mentale. L’eccezionale ricchezza dei materiali esposti certamente rende agevole e convincente questo approccio, nella doppia direzione in entrata e in uscita. In entrata quando vediamo Dürer applicarsi allo studio dei modelli altrui, come nel caso delle due celebri incisioni di Mantegna, Il “Baccanale con sileno”, e la “Zuffa di dei marini”. In mostra sono esposti fianco a fianco i prototipi e le repliche a disegno, realizzate nel 1494 in occasione del primo viaggio italiano. Dürer assimila il modello con fedeltà quasi scolastica, ma stempera inevitabilmente il segno arcigno e implacabile di Mantegna: la romanità per lui non è un’ossessione ma una delle tante opzioni nel ventaglio della sua produzione. Certamente di Mantegna gli interessa anche altro: cioè il suo modello produttivo di diffusione e moltiplicazione delle opere attraverso le incisioni.

Dürer, Zolla d’erba, dettaglio

Il metodo Dürer emerge con chiarezza nella sala che raccoglie i suoi studi di natura. La “Zolla d’erba“ o il “Ramo di Iris” nella loro iconicità iperrealista lasciano con il fiato sospeso. Precisione orafa e visionarietà si tengono insieme in questi studi che per Dürer funzionavano come fogli di presentazione del proprio lavoro ai committenti. Sono tessere di mondo naturale con una loro autonomia, dotate di troppa energia propria per immaginarli come studi per composizioni più complesse. I meravigliosi Iris (1503) realizzati ad acquarello, tutti in verticale, incollando tre fogli uno sopra l’altro, li ritroviamo usati in una grande tavola della Madonna della Rosa proveniente ialla National Gallery di Londra. Qui l’opera viene riferita ad Hans Baldung Green, e il motivo degli Iris preso pari pari dal modello di Dürer, nel complesso dell’opera sembra un po’ estraneo e fuori parametro per una sua costitutiva irriducibilità ad entrare in un conteso. Del resto nella stessa sala l’iconico Leprotto (1502), da sempre simbolo dell’Albertina (e in questa occasione gadgettizzato attraverso una scultura multiplo a grandezza naturale firmata da Ottmar Hörl), sconcerta per quel senso di vuoto pneumatico che lo circonda. La bestiolina abita il foglio bianco con quella sua posa in diagonale e l’ombra leggera proiettata sulla sua sinistra. L’approccio di Dürer non è quello del naturalista, ma semmai prelude allo sguardo di ghiaccio della nuova oggettività. L’oggetto rappresentato è solo uno straordinario pretesto per mettere a verifica la propria capacità di controllo del reale. Nell’occhietto del coniglio non a caso vediamo specchiarsi l’unico dato d’ambiente di questo capolavoro, così popolare e insieme così straniante: è la luce di una finestra, che è facile immaginare fosse quella dello studio dell’artista

Dürer, Il Leprotto, dettaglio

Quando Dürer arriva a Venezia in occasione del suo secondo viaggio italiano del 1506 si avverte però un mutamento di problematica interna al suo laboratorio. Il mutamento riguarda proprio la funzione degli studi che da questa data in poi sono per la gran parte preparatori per opere dipinte di grande ambizione. In mostra vengono ricostituiti alcuni insiemi, in particolare quello che riguarda il cantiere per il Gesù tra i dottori (1506), della Collezione Thyssen. I meravigliosi disegni preparatori sono realizzati sulla celebre carta azzurra veneziana, che lui stesso si faceva da sé non fidandosi delle partite che gli venivano vendute, in cui a volte l’indaco veniva mischiato e usato per mascherare dei difetti della carta. Ancora una volta Dürer mette il campo questi suoi approcci controllatissimi al reale, in particolare nella sequenza degli studi per le mani gesticolanti per il quadro finale. È una capacità di controllo di una tale intensità da creare problemi di tenuta nel momento in cui dagli studi passa all’opera stessa: non a caso il cantiere del quadro si rivelerà tormentato. E per quanto Dürer abbia tentato di zittire le malelingue scrivendo sul foglietto che sporge dal libro, “opus quinque dierum” (lavoro di cinque giorni), una volta tornato a Norimberga lo metterà nelle mani di Baldung Green per portarlo, con mestiere, a compimento. 

È una situazione che si ripete anche di fronte ad altre due opere celebri messe in mostra con tanto di studi preparatori: l’Adorazione dei Pastori (1504) degli Uffizi e la “Madonna del Rosario” (1506)  dalla Narodni Gallery di Praga. Anche in questi casi la complessità della macchina compositiva rivela un affanno rispetto all’esattezza esecutiva e mentale degli studi preparatori. La pittura si fa paradossalmente liquida, rispetto alla sicurezza ferrea dei disegni. In sostanza il risultato della mostra viennese finisce con l’essere una conferma della assoluta centralità, per quanto riguarda l’opera di Dürer, di quello straordinario patrimonio custodito nei propri forzieri.  

Written by gfrangi

Gennaio 22nd, 2020 at 11:15 am

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Richard Gerstl, meteora senza patria

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Questa recensione della mostra dedicata a Richard Gerstl al Leopol Museum di Vienna è stata pubblicata su Alias domenica 15 dicembre, con il titolo “Il suo pennello psichico”.

Inizia giustamente dalla fine la mostra che il Leopold Museum ha dedicato a quel genio-meteora che è stato Richard Gerstl. Siamo nell’estate 1908. L’artista 25enne per la seconda estate è in vacanza a Gmuden, sul lago Traunsee, invitato dalla famiglia Schönberg, Arnold e la moglie Mathilde con i due bambini, Trudi e George. Si erano conosciuti due anni prima, quando Gerstl era stato chiamato a far lezioni di pittura ai due coniugi. Si era stabilita subito un’intesa profonda, originata anche dalla comune passione per la musica. Ma i due erano legati anche da un’affinità anche temperamentale, che li portava a condividere esperienze di vera frenesia creativa. In quell’estate del 1908 Schoenberg con “String Quartet n. 2” si era avventurato per la prima volta fuori dalle regole del sistema tonale.  Gerstl da parte sua nelle stesse settimane realizzava il “Ritratto della famiglia Schönberg” (in realtà famiglia allargata): un grande quadro incandescente, dipinto con un accanimento febbrile, su un fondo giallo che sembra forare la retina. La tela balza fuori dalla parete dipinta di blu del Leopold, con quel suo concentrato di energia psichica che detta anche le modalità della stesura pittorica. Gerstl lavora con pennello, spatola e anche con le dita, usa smalti, arriccia la pittura, la lascia rigonfiare oppure la graffia quasi ci mettesse dentro le unghie; a tratti la stende con impeto, a tratti la incide con tocchi da bisturi. Su questo universo di pittura concitata s’affacciano le sei figure, o meglio le sei anime che ci guardano dalla soglia di un altrove.

È un momento di grandi turbolenze per le biografie dei personaggi coinvolti in quest’opera abbacinante. Gerstl infatti aveva allacciato una relazione sentimentale con Mathilde, la moglie dell’amico. Il 26 agosto Arnold li aveva sorpresi in flagrante e i due erano scappati a Vienna per una breve avventura. Ma Schönberg alla fine aveva convinto la moglie a tornare in famiglia, per il bene dei figli. Alla luce di questi fatti (che avrebbero portato al suicidio dell’artista, avvenuto il 4 novembre di quello stesso anno), il “Ritratto della famiglia Schönberg” sembra davvero affacciarsi su una soglia misteriosa, che è un crocevia del destino.

La famiglia Schönberg, 1908

Immaginare un’opera così datata 1908 lascia anche spiazzati per la sua incollocabilità: certamente ha poco a che vedere con quel che stava affermandosi a Vienna in quegli anni (il fratello Alois aveva rivelato che Gerstl si era rifiutato di esporre a fianco di Klimt). E non regge neppure l’ipotesi di un’affiliazione alla famiglia espressionista, perché il radicalismo della sua pittura è tutta di natura psichica e introspettiva.

La mostra di Vienna comincia dalla fine, in quanto la fine ha segnato profondamente tutta la vicenda critica di Gerstl. Infatti all’indomani del suicidio i suoi due fratelli avevano raccolto tutte le opere trovate nello studio depositandole in un magazzino. La vicenda con Schönberg aveva gettato uno stigma sull’artista: un’ipotesi di mostra dei suoi lavori era stata ritenuta rischiosa e sconveniente dallo stesso Heinrich Lefler, un professore che aveva preso Gerstl sotto le sue ali dopo le complicate vicende vissute in Accademia. Il suo lavoro venne in un certo senso sepolto insieme a lui. Solo nel 1931, cioè ben 23 anni dopo, il fratello Alois si decise a portare un piccolo quadro con un paesaggio a un gallerista di Vienna, Otto Kallir. Kallir volle subito esaminare il magazzino, comperò 34 opere e le espose nella sua Neue Galerie. Per pubblico e critica fu una vera rivelazione: “Un Van Gogh austriaco” era stato il titolo del Neues Wiener Journal. Ma l’eco della mostra andò ben oltre i confini dell’Austria. Venne infatti portata in Germania, a Monaco e a Berlino. La sfortuna però ancora una volta si accaniva sul destino critico di Gerstl. Il 1931 è infatti l’anno della salita al potere di Hitler: Kallir, il cui vero nome era Nirenstein, era ebreo, decise di vendere la galleria ed emigrare in America. Su Gerstl calava di nuovo il silenzio fino al 1965, quando a Vienna venne organizzata una sua grande retrospettiva nel palazzo della Secessione: il tentativo di Otto Kallir di portarla in America (dove nel frattempo era stato sancito il successo di Schiele) si scontrò però con la volontà contraria del presidente della Secessione. Sembrava quasi un accanimento postumo. Nel frattempo però due collezionisti, Fritz Kamm, svizzero, e Rudolph Leopold, viennese, avevano rastrellato gran parte del magrissimo catalogo di Gerstl (solo 69 quadri sono arrivati a noi, più un numero ridotto di disegni): oggi le due raccolte sono finite rispettivamente alla Kunsthaus di Zug e al Leopold Museum di Vienna.

Forse per riscattare questo complicato destino, la mostra organizzata dallo stesso Leopold (fino al 20 gennaio; poi si sposterà poi a Zurigo) è stata concepita come un risarcimento: la quasi totalità delle opere di Gerstl sono state messe in parallelo con alcuni suoi contemporanei (Munch, Bonnard e Vuillard in particolare) o in relazione con chi si è riconosciuto debitore nei suoi confronti (Bacon e Arnulf Rainer e tanti altri). La scelta crea un effetto di confusione, anche perché il percorso di Gerstl è un percorso costitutivamente non lineare; la sua cronologia è fitta di punti interrogativi e forse un criterio più filologico sarebbe stato più utile e interessante.

La natura della pittura di Gerstl infatti è disallineata rispetto a quella degli altri protagonisti di quell’inizio secolo viennese. Se Klimt e Schiele (ma anche Kokoschka) avevano un’identità stilistica a volte anche implacabilmente precisa (con tanto di veri e propri tic…), il profilo di Gerstl invece è un profilo stilisticamente molto mobile.

È del 1905 ad esempio il “Ritratto delle sorelle Karoline e Pauline Frey”, un grande quadro fantasmatico, dove la nuvola bianca della veste allaccia le protagoniste come fossero anime siamesi; la materia è magra, come spazzata via dal passaggio del tempo; al centro i due volti pallidi, con gli occhi che perforano quel grande vuoto presagio di tempesta. Al contrario, la stupenda sequenza di paesaggi dipinti nell’estate del 1907 a Gmuden e dintorni, sono soprassalti di felicità pittorica, con pennellate gonfie, dense che vanno golosamente a occupare tutto lo spazio della tela. È naturalismo solo apparente perché l’obiettivo di Gerstl è sempre quello di intrappolare la luce, e i colori che la luce accende, per fare del quadro un evento carico di energia psichica.

Autoritratto nudo, 1908

La pittura per Gerstl è innanzitutto strumento per spingersi dentro il mistero del suo proprio destino. Lo dimostra la serie meravigliosa e anche iconica degli autoritratti che puntellano tutto il percorso della mostra. Anche in questi casi ogni volta l’artista conferma di mantenersi libero da vincoli di coerenza stilistica. Così ci appare, in un’opera del 1905, come uno scabro fantasma strindberghiano, nudo con un lenzuolo bianco che gli avvolge le gambe, sulla soglia di uno spazio blu, quasi un lago destinato a richiudersi su di lui. Oppure lo vediamo scatenarsi in una risata, quasi un Frans Hals redivivo: e la materia sta al passo, fremendo in questa convulsione un po’ sopra le righe. Nel 1908, il 12 settembre, nel pieno della tempesta sentimentale, dipinge l’“Autoritratto nudo”. Qui Gerstl si presenta magro ma quasi spavaldo; parallelamente libera la pittura e la lascia scatenarsi in una prova di grande energia e intensità gestuale. Il blu questa volta non è più superficie muta e compatta, ma è tutto scheggiato e sarcasticamente graffiato con decorazioni di stampo klimtiano. Non si direbbe davvero di avere davanti un artista alla vigilia della resa…

Written by gfrangi

Dicembre 18th, 2019 at 2:26 pm

De Pisis e il demone delle cose

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Recensione alla mostra di de Pisis al Museo del Novecento di Milano, pubblicata su Alias, 3 novembre 2019, con il titolo “Eccentrica grandezza di un dio minore”.

Natura morta marina (1929)

C’è un enigma che riguarda Filippo de Pisis: com’è possibile che un artista profondo, anticipatore e meraviglioso come lui resti ancora relegato nell’ambito dei maestri “minori”. Se lo chiedeva Giuliano Briganti 30 anni fa. «Mi domando», scriveva il critico, «perché de Pisis non goda in campo internazionale di una considerazione pari ai suoi grandissimi meriti». Ce lo si chiede oggi dopo aver visto la mostra appena aperta al Museo del Novecento e che verrà poi portata a Roma, a Palazzo Altemps nel 2020 (a cura di Pier Giovanni Castagnoli, fino al 1 marzo; catalogo Electa). È una mostra importante e in qualche modo attesa, per la quale è stata setacciata una sequenza di opere assolutamente “conquistatrici”: De Pisis ha infatti questa peculiarità, di catturare al primo sguardo e poi di risucchiarci, stabilendo una relazione che diventa difficile rescindere: resta incollato alla retina, per il portato umano, lirico e psichico dei suoi lavori. 

A Milano ce ne si rende conto appena entrati in mostra, davanti alla “Natura morta con marina”, opera prima del 1916 di un de Pisis ventenne. È già un’opera “totale”, sognante, misteriosa ma anche carnale; in embrione si trovano tanti motivi/ossessioni che mai l’abbandoneranno, ma quello che più colpisce è la fulmineità della sua visione, unica, personale, da subito spavaldamente eccentrica. De Pisis a quel punto ha già intrapreso «il suo viaggio solitario alla scoperta del “demone di ogni cosa”» (Giuliano Briganti). Occhieggia a qualche compagno di strada, come Giorgio De Chirico, di cui mette in scena, ruotandolo, la riproduzione di un suo capolavoro della stagione ferrarese (per altro esposto alla mostra nel contiguo Palazzo Reale), davanti a due pesci “sacri”. Ma sostanzialmente, pur rapportandosi con tanti, non si accoda mai a nessuno, per una sorta di irriducibilità ad ogni “contenitore”. 

L’archeologo (1928)

Quello di de Pisis è, sempre secondo Corrado Levi, «un esilio specifico». Il senso di esilio è evocato dalla linea dritta del mare che attraversa tante sue opere, già a partire da quella Marina del 1916; una linea ineluttabile, a volte livida, lido per anime inquiete: più che mare, un Acheronte… In quel quadro magnifico e immaginifico che è “L’archeologo” (1928) la spiaggia è invasa da rovine antiche, improbabili nel loro gigantismo di cartapesta, inghiottite da un verde selvatico, mentre il protagonista vaga, piccolo e titubante. Un’altra spiaggia è invece terra di conquista della “Grande conchiglia” (1927): e come non riconoscere un’impronta di Goya in quella forma si leva sulla punta, quasi una giostra imperiosa, sullo sfondo di un mare di inchiostro? Ogni volta basta togliersi le lenti che pretendono di richiudere la pittura di de Pisis dentro la formula accomodante del post impressionismo, per vederla esplodere nelle direzioni più inattese. Come accade con “La bottiglia di champagne” (1928), dove il vassoio sul quale è stato allestito un rituale borghese, sembra inaspettatamente trasformarsi nel palco di un atto tragico. Del resto c’era davvero stata una “Bottiglia tragica”, dipinta l’anno prima: una bottiglia di Medoc, che era stata usata come arma contundente in una rissa da cui de Pisis era uscito pesto. 

I pasci sacri (1925)

E che dire di quei pesci, sacri o meno, creature inermi, striate di sangue, che tante volte si dispongono sul proscenio della tela, come se fosse stato destinato loro un altare? De Pisis, scrive di sentirsi attratto dal loro occhio sbarrato che «rincrudisce di dentro il senso di vuoto, di eterno, di essere, di nulla, di infinito»: e così ci fornisce una chiave di lettura che dilata la sua pittura, in una direzione che, come aveva suggerito Giuseppe Raimondi, è una direzione rimbaudiana.

Poi c’è spazio – e quanto spazio! – per i trasalimenti di tenerezza, come nell’inarrivabile “Gladiolo fulminato” (1930), dove il fiore al vertice sembra tramutarsi in carne a causa di un’overdose di dolcezza e preannuncia i vortici rosa di De Kooning. Tenerezza naturalmente si spreca nei volti e nei corpi dei ragazzi desiderati e amati, che suggeriscono spesso a de Pisis una pittura più leggera, quasi estemporanea come nel “Ritratto di Allegro” (1940): i capelli si arricciano fino a farsi scrittura, le ombre rosa sul corpo hanno la consistenza impalpabile delle nuvole. E ritroviamo ancora un battito meraviglioso di tenerezza in una delle ultime opere, “Cielo a Villa Fiorita”. Un quadro complesso e istintivo nello stesso tempo, dominato dall’accensione della macchia rossa e arancio di un fiore tra rami che sembrano di spine: s’affaccia su una finestra, che in realtà è un’autocitazione, perché il paesaggio che vi si vede è un paesaggio mentale, è il ben noto sfondo, usato quasi di default, con la linea del mare che solca l’orizzonte come se tracciasse il confine del destino. Improbabile da Villa Fiorita vedere un paesaggio così…

Veduta veneziana (1939)

A proposito di paesaggi, de Pisis arriva a stressarli fino a farne delle vere esperienze di allucinazione pittorica. In “Quai de la Tournelle” (1938), il vento agita e scompone tutte le forme, così l’immagine si fa lei stessa tempesta; le pennellate inseguono a piccoli tocchi il caos incalzante, in un vortice di segni più innamorati che impauriti. Potremmo pensare di essere sulle soglie dell’informale, ma in de Pisis la pittura è sempre felicemente gonfia di realtà e nella realtà ogni volta riapproda, pur contaminandola con sogni, con visioni, con ossessioni. Di sala in sala ci si rende conto di come la facilità (e felicità) delle sue pennellate funzioni ogni volta come uno stupendo inganno ottico che vela, quasi per pudore, profondità e anche complessità: ma poi ogni quadro di de Pisis si trasforma in un’avventura visiva che non sente affatto il peso del tempo.

Eppure de Pisis ancora deve fare i conti con quell’enigma di cui si diceva. Deve fare i conti anche in questa mostra milanese con uno sguardo che resta riduttivo: è emblematico il fatto che mentre la mostra di Giorgio De Chirico occupi in modo trionfale le sale grandi del piano nobile di Palazzo Reale, de Pisis sia invece a piano terra, costretto nella sequenza di sale piccole e un po’ “routiniers” del Museo del Novecento: figlio di un dio minore. Ogni volta è come se nei suoi confronti scattasse un riflesso condizionato per cui si finisce con il collocarlo tra le fila dei petits maîtres. Non è certamente così e il tempo rema dalla sua parte, come dimostra ognuno dei quadri esposti a Milano. Forse è arrivato il momento di realizzare quel progetto che Briganti aveva immaginato per portare de Pisis alla dimensione che gli spetta. Era l’idea di una mostra a tre, “Guardi, de Pisis, Cy Twombly”, con il marchesino al centro di una linea ideale, dove la lingua della pittura riesce ad essere corsiva e insieme epocale.

Grande natura morta (1944)

Written by gfrangi

Novembre 3rd, 2019 at 10:41 pm

De Chirico nella capsula del Tempo

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Questa recensione alla mostra di De Chirico a Palazzo Reale, è uscita su Alias domenica 6 ottobre. Bellissimo il titolo: «Entrate, giovani, in questa capsula del Tempo»

Quando 50 anni fa Giorgio De Chirico si presentò a Palazzo Reale di Milano per la sua prima vera, tardiva retrospettiva italiana, la immaginò come un «percorso senza inizio e senza fine» (parole sue). Oggi De Chirico torna nelle stesse sale e ancora una volta sfodera la sua formidabile abilità nel rimescolare le carte del tempo (“De Chirico”, fino al 18 gennaio; di grande qualità il catalogo Marsilio/Electa). Questa volta l’azzardo è addirittura al quadrato, perché come scrive nella nota introduttiva il curatore Massimo Barbero, l’obiettivo è quello di proporre la pittura di De Chirico allo sguardo delle nuove generazioni. Sfida che potrebbe sembrare proibitiva per un campione dell’antimodernismo che ha giocato sempre a sottrarsi al presente, trovando rifugio nella reinvenzione di mondi antichi e lontani. Che nesso si può stabilire tra un simile immaginario e quello di una generazione per la quale il passato è poco più che una confusa nebulosa? Certamente il semplice aver ipotizzato di porre una simile questione testimonia della natura fluida, anticonformistica e libera di un artista come De Chirico.

La risposta a quella domanda va naturalmente cercata nel percorso di questa mostra che avanza seguendo la cronologia dechirichiana, ma organizzandola per nodi, quasi per “plot” che hanno una loro autonomia stilistica, narrativa e contenutistica: ad ogni tappa agli occhi del visitatore si accendono suggestioni tali da creare attese di infiniti sviluppi. Naturalmente ognuno di questi “plot”, nella parabola di De Chirico e nel percorso della mostra, è intenzionalmente sconnesso da ciò che precede o da ciò che segue. Basta guardare il magnifico avvio, dove la narrazione della propria mitologia familiare, con l’addio alla Grecia, è reso con una pittura quasi neo romantica e poi lascia il posto al raggelamento stilistico dei primi autoritratti, stilisticamente sigillati nel geniale artificio dell’enigma.

La mostra si dispone come un viaggio in una capsula del tempo, grazie all’allestimento firmato da Giovanni Filindeu, con pareti tutte platealmente bianche e con inserzioni di volumi che creano sottili effetti di spaesamento, oppure disegnano spazi imprevisti nelle sale di Palazzo Reale. Così si avanza quasi soggiogati dai continui depistaggi a cui la pittura di De Chirico sottopone i nostri sguardi, depistaggi alimentati anche dalla sequenza inesauribile di quei “picchi di incoerenza visiva” di cui scrive Massimo Barbero.

È anche una mostra intelligentemente sobria, pensata per un pubblico che va conquistato senza il rischio che resti schiacciato dall’esorbitanza della produzione dechirichiana: 92 opere, tutte di grande qualità (anche laddove sfondano determinatamente nel kitsch), e tutte cercate come anelli necessari alla costruzione del percorso. Molte provengono dal collezionismo privato, particolare che potrebbe gettare un’ombra sulla mostra. Ma alla fine questa scelta, grazie alla presenza di opere importanti e raramente esposte, si rivela funzionale al proposito di cancellare il preconcetto che De Chirico sia comunque sempre un “già visto”. 

L’intento si è rivelato vincente: nella sala dedicata alla “metafisica ritornante” il meraviglioso “Figliol prodigo” (1922) del Museo del Novecento, che faceva da copertina del catalogo della mostra del 1970 (che era stata curata da Franco Russoli), fa coppia con un altro capolavoro, l’“Ettore e Andromaca” (1923) proveniente da collezione privata. Sono due narrazioni di abbracci, dove l’umano pur racchiuso dentro il guscio dei manichini o di simulacri di marmo, fa breccia dando luogo ad un’incontenibile senso di tenerezza. È un momento in cui il “plot” dechirichiano mette in campo una riflessione sul tema della malinconia, facendo ricorso a soluzioni emotivamente pesanti: la sala infatti si chiude con un’altra opera maggiore, “L’archeologo” del 1927 proveniente da una collezione privata di Monaco. Il gigante esausto, in abiti antichi, se ne sta sdraiato con le gambe rattrappite a causa dell’ostinazione nell’attività di scavo; la testa grande è svuotata da ogni connotato, il grembo è ingravidato di rovine che sono la caricatura di se stesse, quasi un ammasso di giocattoli. L’inseguimento del sogno ha generato uno sfinimento e solo la pittura è in grado di rendergli onore. 

La relazione di De Chirico con il passato è ironica, a volte anche spregiudicatamente ironica. Per esempio, il povero “Pericle” (1925) ha perso ogni patina eroica: ha un elmo ficcato in testa fino a mezzo naso per nascondere il fatto di essere guercio. Con una mano si getta la clamide sulla spalla e così scopre quel dettaglio vagamente ingiurioso della sottoveste con una fantasia variopinta che Giorgio De Chirico gli fa indossare: un Pericle “en travesti”… Ai gladiatori, tema della celebre commissione di Léonce Rosenberg per la sua sala di pranzo parigina nel 1928, non va molto meglio. Sembrano soldatini fusi in gomma, goffi e dalla fibra molle: Massimo Barbero non a caso coglie una possibile fonte d’ispirazione nel ritratto che Renoir (amatissimo da De Chirico) aveva fatto al figlio Claude intento a giocare ai soldatini. In mostra il ciclo, andato presto disperso, è rappresentato in particolare dal grande fregio conservato a Brera. È un’opera che mostra tante affinità con i rocamboleschi kolossal hollywoodiani stile Ben Hur: davvero nulla di più lontano da quella retorica reazionaria che cercava di riproporre il modello di una nuova romanità. 

De Chirico è sempre altrove rispetto a dove gli altri pensano che lui sia. Così la sequenza straordinaria di autoritratti che costellano il percorso, sembrano ogni volta proporsi come operazioni di dissimulazione. Del resto è tale il livello di considerazione di se stesso e di autocoscienza da permettergli di giocare con tutti i registri, anche con la chiave del comico, come scrive Andrea Cortellessa, nel saggio in catalogo. Nella sezione di quadri “privati” degli anni ’30 e ’40 De Chirico si mostra in pantofole (“Autoritratto nello studio di Parigi”, 1934), con i pantaloni larghi e rilasciati, il maglione sgualcito; una testa antica abbandonata sul pavimento lo guarda con aria un po’ dimessa. Nella parete vicina invece ci compare nudo (1943), con sguardo un po’ beffardo, senza timore di scoprire il proprio corpo inflaccidito. 

Ma più De Chirico sembra sottrarsi da un rapporto con la modernità (dove domina quella che lui bolla come «l’arte dei raffinati cretini»), più cresce il sospetto che proprio questa sia la questione cruciale che lui ci vuole tenere nascosta. La parete conclusiva con tre repliche delle Muse inquietanti allineate, realizzate tra anni 40 e 50, lette come operazioni sfacciatamente anacronistiche («Una mia idea è una mia idea, l’anno in cui la rieseguo non importa», lui ribatteva ai suoi critici), sono spia di ben altro. Alla mostra del 1982 a New York in una doppia pagina del catalogo ne erano state messe in fila ben 18 a dimostrazione che De Chirico aveva anticipato la serialità. Ne era stato ben consapevole Andy Warhol: una foto scattata da Giancarlo Gorgoni nel 1974 a New York li sorprende insieme ad un party, a brindare bicchieri alla mano, per documentare una condivisa complicità. 

A questo proposito aveva colto nel vero Giovanni Testori concludendo così un suo lungo e spericolato articolo sul Corriere della Sera in occasione dei 10 anni dalla morte dell’artista, nel luglio 1988: «Il vero, completo saggio su De Chirico, a volerlo scrivere, risulterebbe il saggio sull’equivoco stesso tra idea proclamata e idea realizzata che ha retto il cammino ufficiale dell’arte moderna; quell’arte che De Chirico ha sempre affermato di rifiutare con tante più buone ragioni, quanto più, dentro di sé, sentiva d’esserne un perno». 

Written by gfrangi

Ottobre 14th, 2019 at 2:15 pm

L’energia intimidatoria di Neo Rauch

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Neo Rauch, Turmstube, 2018

Questo articolo è apparso su Alias del 16 giugno

Appena si sale la prima rampa di scale della Torre ci viene lanciato un avvertimento: sul pianerottolo la mostra inizia con un quadro intitolato “La minaccia”. È una tela di dimensioni non grandi rispetto a quelle abituali di Neo Rauch, ma è un concentrato dei motivi della sua pittura. Una folla di personaggi impegnati in riti strani e anche un po’ ambigui, un paesaggio con cielo color pece, e una torre in omaggio al luogo della mostra, che però è come una fusoliera cieca puntata verso il cielo. E poi c’è quel titolo, che ci allerta: la pittura è un esercizio che ha in sé un’energia intimidatoria.

Neo Rauch, indiscussa star della Neue Leipziger Schule, arriva in Italia, con un progetto espositivo che lo vede in coppia con la moglie Rosa Loy. La sede è tutta nuova, pur se molto antica: è il Torrione di Vicenza, resto di quello che fu il “castello”, residenza trecentesca di Ezzelino da Romano. Era inserito nella cinta urbana della città in funzione difensiva ed è rimasto integro nonostante i grandi rivolgimenti che nei secoli hanno trasformato il volto della città palladiana. Lo si riconosce sullo sfondo di quel dolce capolavoro che è la Pala Martinengo dipinta dal vecchio Giovanni Bellini: allineati, nella meravigliosa veduta urbana che fa da sfondo alla “Vesperbild” del maestro veneziano, si riconoscono la Basilica, il Duomo con la sua facciata ricamata e appunto il Torrione con la sua mole possente. Nel 2017 un industriale vicentino, appassionato collezionista, Antonio Coppola, lo ha rilevato e restaurato, donandolo poi al Comune con la condizione di poterlo usare per 30 anni per proporre mostre di arte contemporanea: una scelta di grande coraggio e di sicuro valore pubblico e civile.

L’inizio della nuova vita del Torrione è stato dunque un inizio con il botto. Neo Rauch è infatti uno degli artisti più ricercati della scena contemporanea, ha valutazioni stellari. Il suo enorme studio della Spinnerai, un’ex fabbrica di tessuti a Lipsia, è meta di pellegrinaggi da parte di direttori di musei, collezionisti e galleristi da tutto il mondo. Su di lui è stato prodotto anche un documentario, tutto da vedere, girato da Nicola Graef, curatrice e videomaker. Certamente la vita di Neo Rauch è stata profondamente segnata dalla precocissima morte dei suoi genitori, vittime di un incidente ferroviario quando lui aveva appena tre mesi e loro poco più di 20 anni. Il padre era lui stesso pittore e infatti in una scena del film vediamo Neo Rauch mostrare i suoi disegni, parlandone con ammirazione. «Era un grande artista», dice con un accento di tenerezza. Era il 1960: l’anno dopo, la costruzione del muro di Berlino avrebbe segnato un altro trauma nella biografia di Rauch, che viveva con i nonni in un paesino al di là della cortina di ferro. La parabola si sarebbe chiusa nel 1989: Rauch finisce infatti  l’accademia proprio nell’anno della cadutao il muro. All’accademia di Lipsia però aveva avuto la fortuna di incontrare due grandi maestri come Arno Rink e Bernhard Heisig, capaci di proporre una pittura che faceva esplodere la gabbia del realismo socialista. Come ha scritto Ivan Quaroni, curatore e profondo conoscitore di quell’esperienza «la caratteristica principale dell’Accademia di Lipsia fu il carattere squisitamente tecnico degli insegnamenti. Il formalismo garantiva infatti, una minore sorveglianza da parte delle autorità e, allo stesso tempo, consentiva di sviluppare una pittura che nascondeva allusioni politiche sotto il velame dei temi artistici e mitologici».

Rauch da quell’esperienza ha incamerato una maestria tecnica impeccabile e un immaginario capace di sovrapporre e incrociare epoche e mondi diversi. Come scrive Davide Ferri nella nota introduttiva alla mostra, «ogni dipinto di Neo Rauch è basato sull’incontro e sulla giustapposizione (e infine sul collasso) di motivi e nuclei narrativi differenti, con figure che possono sdoppiarsi e moltiplicarsi all’interno della stessa immagine».

Veduta della mostra “La Torre, Neo Rauch, Rosa Loy”
Fondazione Coppola, Vicenza Foto Francesco Castagna

A Vicenza l’artista di Lipsia arriva con lavori nuovi, in buona parte immaginati per l’occasione come dimostra il motivo della torre che ricorre in tante opere esposte. È un motivo che torna ad esempio in un quadro nel quale si possono riscontrare risonanze autobiografiche, “Il mestiere del padre”. In uno scenario da periferia urbana, sotto un cielo da crepuscolo cosmico, si vede al centro un uomo che tira per il braccio il suo bambino. In primo piano compare il volto di colui che sta sembra aver avuto questa visione. Forse Rauch stesso. Impossibile però non restare colpiti dal brano di pittura nella parte bassa della tela: un “decalage” magistrale di bianchi e azzurri stesi come se fossero nuvole di aria colorata. Difficile spiegarne la ragione, ma quel se ne ricava con certezza è l’irresistibile piacere di Rauch per il dipingere. Un piacere che deve però fare i conti con l’assedio di ossessioni, che chiedono alla pittura stessa di venire liberate e travasate in immagini. Sono depositi di un inconscio personale ma anche collettivo, visioni che vengono a galla, come lui dice «camminando mescolate e senza una direzione». È un “non senso” che poco alla volta irretisce e conquista, come se ci si trovasse calati dentro storie sconosciute e in un tempo indecifrabile, ma che comunque ci appartiene. Non c’è mai una narrazione organica nelle opere di Rauch: la coerenza viene sempre cercata su un altro piano, quello garantito dall’energia visionaria che sviluppa trame insieme ironiche, allusive e potenti. Certo, alla fine ciò che affascina in Rauch è quella forza primigenia che contrassegna la sua pittura: conferma della capacità imprevedibile della pittura stessa nel crearsi nuovi spazi, di dar vita a partiture mai immaginate e davvero difficili da classificare. La presenza di Rauch a Vicenza è accompagnata da quella delle opere della moglie, Rosa Loy, anche lei uscita dalla scuola di Lipsia. È evidente nel rapporto tra loro funzionino contaminazioni e scambi continui. Rosa Loy però si stacca perché la sua è una pittura che sembra fare volutamente da contraltare all’orizzonte accentuatamente maschilista della pittura tedesca. Dipinge usando la caseina, una vernice derivata dalla proteina del latte che consente una rapida essiccazione del colore. Così, pur nella spigolosità spregiudicata di tanti soggetti che hanno risonanze “balthusiane”, la sua pittura mostra una velocità e una freschezza che appare complementare alla natura molto densa, potente e visionaria del marito. Nelle diversità e nelle affinità l’abbinata dimostra di funzionare.

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Luglio 26th, 2019 at 2:39 pm

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Serena Vestrucci, portare Turati sulla Luna

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Questo articolo è uscita sul numero di luglio di Vita , nella rubrica Life Museum.

Otto ore. Proprio 100 anni fa il Consiglio superiore del lavoro, su proposta di Filippo Turati, approvava un disegno di legge per regolamentare l’orario lavorativo di operai e impiegati. L’anno successivo le relazioni e il testo del ddl vennero raccolti dallo stesso Turati in un volume che segna un importante punto fermo nella nostra storia. Sono passati 100 anni e Serena Vestrucci, una delle artiste più interessanti oggi attive in Italia ha voluto dedicare un omaggio concettualmente coerente con quel testo e con il suo contenuto di così profondo valore civile. Infatti nell’arco di una giornata lavorativa di 8 ore, armata di una semplice forbicina, ha lavorato su alcune delle pagine, arrivando a realizzare quella sorta di sorprendente inflorescenza che vediamo spuntare dall’azzurro carta zucchero della copertina.
Vestrucci non è nuova a questo tipo di lavori determinati da un arco di tempo: è il modo con cui un’artista chiarisce che il proprio fare è un “lavoro”, al punto da stare dentro l’arco orario di un ipotetico contratto con se stessa. L’arte non è un agire in libera uscita, ma è metodo, disciplina, magari anche autolimitazione. Si potrà ammirare quest’opera di Serena Vestrucci in un contesto unico e affascinate: è la “straperetana”, una manifestazione che occupa un piccolo borgo in provincia dell’Aquila, appunto Pereto, fino al 10 agosto. Sono 18 gli artisti chiamati dagli ideatori della manifestazione (Paola Capata, Delfo Durante e Saveri Verini che ne è il curatore), prendendo possesso di vicoli, piazze, abitazioni dismesse, edifici storici. La suggestione di questa terza edizione è la Luna. E la domanda suggerita agli artisti è “che cosa portereste sulla Luna?”. Vestrucci ha risposto così, con il fiore delle 8 ore.

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Luglio 26th, 2019 at 2:04 pm

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Le note retiniche di Sean Scully

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Questa recensione alla mostra di Sean Scully a Villa Panza a Varese è stata pubblicata su Alias il 19 maggio, con il titolo “Associazioni e redenzioni”.

Ad un certo punto della mostra che Villa Panza ha dedicato a Sean Scully si assiste ad un colpo di scena. Dopo essere passati per le prime sale che raccolgono i lavori degli anni 70, regolati da griglie molto controllate, in molti casi eseguite con l’ausilio di un nastro che teneva sotto controllo pennellate e colori, ci si trova davanti ad un’opera immensa che si presenta come un felice terremoto. L’opera è “Backs and Fronts” ed è datata 1981. «È veramente il mio manifesto, è un quadro fondamentale», ha sempre spiegato Scully, che non a caso non ha mai voluto venderla. Le dimensioni non sono indifferenti, 2,40 metri x 6,10. E anche la forma salta all’occhio: è un polittico di 12 elementi, disposti con un andamento musicale come se il muro fosse il foglio di un pentagramma (di «note retiniche» non a caso parla Kelly Grovier nel breve saggio in catalogo, dedicato a questa opera chiave).

All’origine il quadro si intitolava “The Musicians” come omaggio ai “Tre musici” di Picasso, opera del 1921. Scully inizialmente aggiunse un musico. Poi si accorse che non bastava. «Era come se un numero sempre maggiore di musicisti si unisse alla nostra banda affermata… e finalmente, dopo un lungo viaggio, è stata rinominata “Backs and Fronts”». «Ricordo di averlo esposto a PS1», ha raccontato sempre Scully in un lungo dialogo con Hans-Michael Herzog. «Tutti quelli a cui piaceva erano punk. Allora ho capito che stavo facendo la cosa giusta perché il quadro aveva in sé un’energia molto provocatoria, se si pensa al minimalismo e a tutta la sua rarefazione… È stato un vero salto. Come una superficie che si ribalta». Quanto al titolo cambiato, l’intenzione era di fare riferimento alla figura umana. «Lo pensavo come una fila di figure in attesa. In attesa che succedesse qualcosa».

Aver portato “Backs and Fronts” è un doppio merito per l’organizzazione di Villa Panza e per la sua direttrice, oltre che curatrice della mostra, Anna Bernardini (“Sean Scully. Long Light, Varese Villa Panza, fino al 6 gennaio 2020). Infatti è la prima volta che quest’opera chiave viene presentata in Italia (dove per altro negli ultimi ci sono state molte occasioni di conoscere il lavoro di Scully). Ed è un’opera che per la sua natura crea un’intrigante e anche tesa dialettica con il contesto.

Infatti è noto che Giuseppe Panza avesse puntato gli occhi su Scully: nel 1989 aveva visitato il suo studio di New York, manifestando interesse per un quadro che poi sarebbe stato acquisito dalle Tate. Ma il prezzo dell’artista era già troppo alto rispetto alla filosofia oculata di acquisizioni sempre perseguita da Panza. L’abiura del minimalismo da parte di Scully inoltre non poteva certo trovare d’accordo il collezionista, che in quegli anni stava invece seguendo artisti che si muovevano con molto rigore su quella linea. “Backs and Fronts” è, al contrario, un’opera pervasa da un fremito, dove la pittura si allontana dalla rarefazione a volte vertiginosa del minimalismo e si orienta decisamente verso uno spazio “impuro” di indeterminatezza e di espressività. Mi viene anche da credere che Scully si sia ben reso conto come questa ospitalità tra gli spazi di Giuseppe Panza non sia stata una cosa scontata e “dovuta”. Così ha voluto realizzare e donare le 27 finestre di vetri colorati destinate alla serra della Villa: un tocco prezioso, che si deposita come una carezza sulle forme e sulle luci del giardino, ma anche un segno d’affetto e di gratitudine nei confronti del luogo e del collezionista che ne ha segnato la storia.

Tornando al polittico, c’è un altro elemento di novità che Scully qui introduce. È una componente che Scully stesso ha definito “associativa” («Le mie opere sono incredibilmente associative», ha spiegato). Anche in questo caso la distanza dalla concezione del quadro come “monolite” puro, propria del minimalismo, è evidente. Per l’artista ogni opera vive di relazioni; quindi diventa decisiva la decisione di comporle con più elementi che siano affiancati o giustapposti o che siano addirittura inglobati come accade nella serie “Passengers”, dove ogni tela ne ingloba un’altra, quasi fosse una finestra aperta all’interno del proprio tracciato architettonico. Ma in queste opere la sensazione è anche quella di una dinamica generativa, come se il quadro fosse un processo di fecondazione e dalla pittura si generasse altra pittura, senza problemi di coerenza né cromatica né di disegno.

La relazione a volte sviluppa anche drammaturgie coinvolgenti e potenti all’interno di uno stesso quadro, come accade in un’altra opera di grande peso e dimensioni presente in mostra. Si tratta di “Standing”, del 1986 (anche questa raramente prestata dall’artista e mai vista in Italia), realizzata come meditazione sulla morte del figlio Paul, vittima nel 1983, quando aveva solo 19 anni, di un incidente automobilistico. Il quadro è composto di tre “corpi” disposti orizzontalmente uno sopra l’altro, ciascuno con un diverso spessore di telaio. Quello con la cassa del telaio più profonda è posizionato in alto e quindi si sporge, quasi con un senso di incombenza. La sua superficie è dipinta di un nero rugoso e tragico, solcato per il lungo da una sottile linea di luce rossastra, come di un’alba affaticata che sorge dopo un cataclisma. Aveva sottolineato Scully che la sua pittura non parla della “chiarezza” ma semmai della “rivelazione”: è una chiave che aiuta a capire un’opera come questa e che spiega anche perché Scully negli ultimi anni abbia scelto di lavorare per edifici religiosi, com’è accaduto a Montserrat e nella cattedrale di Girona. Anche la Biennale da poco inaugurata lo vede presente con un progetto per la basilica palladiana di San Giorgio Maggiore: “Opulent Ascension” è una scultura che si alza in verticale a fasce colorate giustapposte, proprio sotto la cupola.

Nel 2009 l’artista ha avuto un altro figlio, Oisin, nato dalla relazione con Liliane Tomasko, con la quale si era sposato nel 2006. Anche in questo caso le vicende della vita fanno breccia nel percorso artistico, in modo del tutto sorprendente. La mostra di Villa Panza presenta infatti la serie inedita “Madonna”, datata 2019. Scully fa uno scarto inatteso in direzione della pittura figurativa. Si tratta di grandi quadri dipinti ad olio su alluminio, dove mamma e bambino giocano con sabbia e secchielli in riva al mare in un contesto di serenità quasi matissiana. Ma l’andamento delle campiture colorate e delle vaste linee curve che disegnano l’architettura delle tele riportano più ad un’idea archetipa che non semplicemente autobiografica. È l’archetipo generativo della madre e del figlio, che richiama le dinamiche fecondative proprie della pittura di Scully.

A questo proposito è significativa la selezione di fotografie presenti in mostra, che aggiungono un altro tassello importante per scavare nel percorso dell’artista. In particolare la serie di scatti in bianco e nero realizzate tra i resti straordinari delle architetture contadine dell’isola Aran riportano alle sue origini irlandesi (è nato a Dublino nel 1945, ma nel 1975 si è trasferito a New York). Non solo: Scully compone una serie di 24 immagini concentrando l’obiettivo sull’allineamento seriale e ordinato delle pietre. Sono geometrie che hanno una familiarità genetica con quelle dei suoi quadri. Più che dall’allineamento, la familiarità è però determinata da quella irregolarità dei bordi che è propria delle pietre come pure delle fasce colorate, elemento per eccellenza iconico della pittura di Scully. Sono proprio i bordi ad accendere la sua pittura, sottili frontiere vitali e inquiete, luoghi dell’attesa e della rivelazione, sismografi capaci di captare, come ha detto lui, «l’incertezza del cuore umano».

Sean Scully, Standing, 1986

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Maggio 20th, 2019 at 8:34 am

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Mostra di Verrocchio, annotazioni a margine

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Vista la mostra su Verrocchio a Palazzo Strozzi. Una mostra finalmente impeccabile, nel ritmo e nella qualità dei pezzi esposti, curata da Francesco Caglioti e Andrea De Marchi. I dialoghi funzionano, a partire da quello della seconda sala, forse la più bella della mostra, dove il disegno di Leonardo al centro, esplora il profilo del volto del Davide di Verrocchio esposto a pochi metri: con la penna accarezza la linea del labbro superiore dolcemente sporgente rispetto a quello inferiore.

Mi sono annotato alcuni pensieri laterali. Colpisce lo sperimentalismo che si respira in questa stagione dell’arte fiorentina e in particolare in una bottega come quella del Verrocchio. In quella stessa sala i profili della serie di Olimpia, la madre di Alessandro Magno, sembrano davvero sgusciar fuori dal marmo del bassorilievo; lievitano quasi, come esito di misteriose alchimie messe a punto in bottega.

Si intuisce come le soluzioni escogitate anche per soggetti in apparenza standard contengano una componente di audacia. La meravigliosa Madonna con il Bambino di Londra introduce quell’angelo a destra che aggancia il nostro sguardo: un’idea che Leonardo avrebbe tenuto in serbo qualche anno dopo per la Vergine delle Rocce: nel rigore costruttivo a piramide del quadro, nella solidità quasi scultorea dell’impostazione si inserisce questo elemento “in uscita”, inatteso.

Il disegno con il cavallo di profilo, studio per il monumento al Colleoni, arrivato da New York, è un meraviglioso disvelamento del metodo di lavoro di una bottega: ci sono annotazioni precise lungo ogni linea tirata, come un disegno parlante. Le scritte funzionano come fossero il tracciato del sistema nervoso del disegno e quindi dell’opera.

Infine nell’ultima sala dove viene proposta l’attribuzione a Leonardo della terracotta con la Madonna e il Bambino del Victoria and Albert Museum, sfilano in stupenda sequenza i disegni di panneggio, di Verrocchio e in particolare di Leonardo. Buona parte sono stati realizzati su tela di lino preparata con un fondo monocromo, che varia. C’è una volontà di mimesi così spinta, da coinvolgere anche il supporto, anzi da renderlo quasi decisivo rispetto all’esito. Anche in questo caso, come in tutto il percorso, si respira un continuo sovrapporsi di linguaggio pittorico e di scultura: cadono i confini. Quanto di scultoreo c’è nei panneggi disegnati da Leonardo…

Unico neo della mostra lo “spacchettamento” che ha lasciato un po’ persa al Bargello la sezione dedicata all’Incredulità di San Tommaso (con tutto quell’ardire con il bronzo…) e ai Crocifissi. 

Nota a margine: non sapevo che la giuggiola fosse la pianta da cui sarebbe stata ricavata la corona di spine di Gesù (c’è in mostra la Madonna della giuggiola di Lorenzo di Credi).

Disegno per il cavallo del Monumento a Colleoni

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Maggio 11th, 2019 at 12:01 pm

Peppino e Luigi Agrati, collezionisti e complici

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Recensione alla mostra della Collezione Peppino e Luigi Agrati, alle Gallerie d’Italia, pubblicata su Alias del 17 giugno, con il titolo “Un sogno in alta Brianza”

Veduggio con Colzano è un paese dell’alta Brianza, di poco più di 4mila abitanti. Tra i suoi segni particolari, il fatto che qui abitò per due anni, tra 1884 e 1885, Giovanni Segantini. Vi dipinse un quadro famoso, “A messa prima”, dominato dalla scenografica scalinata che sale alla parrocchiale di San Martino. Veduggio è anche quintessenza di Brianza: in pochi chilometri quadrati si concentrano due multinazionali tascabili, specializzate in sistemi di fissaggio. Quello che non ci si aspetta è che nella villa dei proprietari di una delle due aziende, a partire dagli anni 60 si sia concentrata una delle più straordinarie raccolte di arte contemporanea esistenti in Italia. Merito di Peppino e Luigi Agrati, titolari dell’omonima azienda, e collezionisti di indubbia intelligenza, passione e cultura. Una selezione della loro raccolta è esposta in questi mesi alle Gallerie d’Italia di Milano (“Arte come rivelazione”, a cura di Massimo Barbero, sino al 19 agosto): è un’anteprima di quello che potrà diventare il museo che a Milano manca, visto che è stata annunciata la donazione della collezione ad Intesa Sanpaolo, la banca proprietaria delle stesse Gallerie.
Intelligenza, passione e cultura: è indubbio che ciò che ha mosso prima Peppino (morto nel 1990) e poi anche Luigi Agrati sia qualcosa che va ben oltre la febbre collezionistica. Come ha scritto Massimo Barbero nell’introduzione al catalogo, i due fratelli «hanno condiviso un’intuizione sensibile, capace di cogliere le profondità delle immagini che stavano “costruendo” il loro tempo». Le loro acquisizioni maturavano sempre in un rapporto stretto con gli artisti o con le gallerie che più pionieristicamente li proponevano. Erano legami di amicizia ma a volte anche di vera complicità, come nel caso di Christo, difeso e sostenuto in occasione della celebre incursione milanese del 1970, quando impacchettò il monumento a Vittorio Emanuele in Piazza Duomo: Peppino non solo comperò opere e progetti per la sua raccolta, ma si rese subito disponibile a finanziare “Valley Curtain”, un’installazione costituita da un’enorme cortina di tessuto (ben 381 metri di larghezza per un’altezza anche di 111 metri) che venne issata per occludere visivamente il paesaggio nella valle di Rifle, in Colorado. Ed è indicativo scoprire nelle lettere tutta l’apprensione con cui da Veduggio Peppino Agrati aveva seguito le complicate e incerte fasi di realizzazione del progetto.
A proposito di complicità, la mostra giustamente si apre dando il dovuto spazio al rapporto dei fratelli Agrati con Fausto Melotti. Un padiglione bianco, quasi una nuvola, occupa il grande salone centrale per accogliere una scelta delle leggerissime sculture in ottone. Tra queste c’è anche “Un folle amore” (1971), l’opera che nel 2002 diede il titolo alla prima monografia dedicata alla raccolta Agrati e curata da Germano Celant. Quasi tutte le opere erano state acquisite direttamente dall’artista, compresi i due “Carri” (1966 e 1969) che possono essere letti come metafora di una posizione esistenziale condivisa. Il carro è immagine di transizione e di cambiamento di prospettive, condizione che accomunava lo scultore Melotti e l’imprenditore Peppino Agrati. «La mente, piena di fermenti e di tante e così diverse sollecitazioni, doveva trovarsi inconsciamente preda di una ricca e fatale incertezza», aveva scritto Melotti su Domus nel 1963: stato d’animo al quale il collezionista non doveva sentirsi estraneo. È un’inquietudine che alla fine libera la scultura da ogni prosopopea: il “Carro” datato 1966 si impenna infatti leggero nel vuoto, con una capacità di evocare nuovi viaggi, nuovi sogni, ai quali tutti siamo convocati.

Con Lucio Fontana, per ragioni cronologiche, la frequentazione non poté essere così intensa e assidua. Questo non ha impedito a Peppino Agrati di mettere insieme un nucleo di opere di grande importanza, dominato dall’eccezionale “Concetto spaziale” del 1958, che era stato esposto alla Biennale di quello stesso anno. È un’opera di dimensioni inusuali (250 x 200 cm); un’opera anche per questo dal sapore epocale, con quella grande sagoma flessa, scoria di un’elementarità primordiale, che la attraversa; un rosso diffuso copre tutta la superficie della tela, solcato soltanto da ordinate costellazioni di buchi. Nella scheda del catalogo della raccolta di prossima uscita (“L’arte moderna in Intesa Sanpaolo. La collezione Luigi e Peppino Agrati”, Electa) il curatore Francesco Tedeschi giustamente richiama la coincidenza della presenza di Mark Rothko a quella stessa Biennale del 1958. Sono due approcci completamente diversi alla superficie colorata, ma certamente la potenza evocativa e cosmica di questo capolavoro di Fontana può essere vista come una risposta europea alla vastità e profondità dei campi cromatici dell’artista lettone-americano.


I fratelli Agrati non si sottrassero dal monitorare ciò che accadeva dall’altra parte dell’Oceano, operando con il metodo noto: rapporto stretto e quasi complicità con gli artisti, qualità straordinaria delle opere scelte. È quel che accade ad esempio nel caso di Robert Rauschenberg, presente in mostra con una serie di opere di livello assoluto. Su tutte spicca “Blue exit” del 1961, un quadro assegnabile alla serie dei “combine painting”. La freccia gialla accanto all’inserto di un pulsante blu suggerisce un’uscita dal perimetro della tela, quando invece proprio dentro la tela si consuma un evento pittorico di rara bellezza e libertà. È pittura che esplode attorno a una linea tesa che traccia un orizzonte ed evoca spazi sconfinati. La freccia assume quindi una funzione strategica perché orientandoci fuori dal perimetro del quadro, lascia che quell’evento pittorico possa accadere come assoluta casualità. Si trova invece più intenzionalità e calcolo compositivo in un’opera di Rauschenberg acquistata da Lucio Amelio nel 1987: è “Trasmettitore Argento Glut (Neapolitaner)”, un esemplare dei “gluts”, assemblaggio di metalli e targhe automobilistiche di Napoli e Roma che a dispetto di quei materiali da discarica, si presenta formalmente senza sbavature.
È stato privilegiatissimo anche il rapporto tra gli Agrati e Dan Flavin, artista scoperto nel 1969 in occasione della sua prima personale italiana alla Galleria Sperone. “Untitled (to Peppino Agrati)” (1968) è un neon giallo dedicato al collezionista e prodotto in esemplare unico. Se si impone con tanta autorità nello spazio espositivo, oltre che per le dimensioni, è per quell’ordine geometrico ottenuto grazie alla progressione modulare della dimensione delle lampade, come sottolinea Francesca Pola nella scheda del catalogo della raccolta.
Il dialogo tra le due sponde dell’Oceano si fa ravvicinato nella sala dove un pittoricissimo monocromo a fasce bianche di Robert Ryman (“Winsor 20”, 1966) si confronta con un fastoso “Achrome” di Piero Manzoni realizzato in lana di vetro e con un dittico di Castellani del 1967. Qui la squadratura prospettica costruita attraverso introflessioni ed estroflessione suggerisce un’ipotesi dell’arte «come esperienza del trasparente e del mentale». Nella stessa sala la griglia della grande mappa del cielo stellato di Luciano Fabro, rimanda con grande finezza alla griglia raggelata dell’“Alluminium square” di Carl Andre, disposta sul pavimento.
C’è infine tanta distaccata ammirazione nell’omaggio curioso che Giulio Paolini fa a un’icona dell’arte americana come Jasper Johns. Si tratta di un ritratto fotografico stampato su una teletta emulsionata, appesa con un filo ad un’altra tela sottostante. Pennellate diagonali di acrilico azzurro passano da una superficie all’altra. Paolini ha poi disseminato il volto sorridente di Johns di stelle ritagliate da una riproduzione della sua celebre bandiera Usa. C’è dell’ironia, certamente. Ma c’è anche un riflesso di quel “folle amore, che è l’arte così come è stata vissuta dai fratelli Agrati.

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Giugno 18th, 2018 at 10:06 am

Paladino a Brescia, scultura diffusa

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Mimmo Paladino, scultura in brnzo dipinto, nella Cappella di Sant’Obizio affrescata da Romanino. FOTO di Ferdinando Scianna

Questo articolo dedicato a Ouverture”, la mostra diffusa di Paladino a Brescia, è stato pubblicato su Alias domenica 4 giugno.

A Mimmo Paladino va riconosciuta una qualità che è di pochi artisti: quando arriva in un luogo è come se fosse stato lì da sempre. Ogni volta trova il suo spazio senza necessità di farsi largo o di “imporsi”. Una qualità che è giusto sottolineare, visto che spesso assistiamo a interventi di artisti contemporanei che consumano i contesti storici forzandone valori ed equilibri, con obiettivi mediatici e quindi mercantili. Non è una strategia quella di Paladino. È una predisposizione: la sua opera osserva più che voler essere osservata. È arte in ascolto; intrinsecamente dialogante, che lascia sempre la prima parola a chi viene incontro.

Si ha conferma di questa natura dell’opera di Paladino nella grande “invasione” che l’artista a realizzato nel cuore di Brescia. Un’operazione inedita, per caratteristiche e per dimensioni. Un’operazione partecipata che ha visto coinvolti e alleati in modo non formale tanti soggetti della città e che merita di essere riassunta nella sua dinamica. L’idea parte da Massimo Minini, che giustamente la giunta guidata da Emilio Del Bono ha voluto come presidente della Fondazione Brescia Musei. Gallerista di levatura internazionale, ha sempre mantenuto un legame forte con la sua città senza cedere alle sirene globaliste che avrebbero potuto indurlo a trasferirsi ad esempio nella vicina Milano. È stato lui proporre un progetto, ribattezzato Brixia Contemporary, che prevede, come lui spiega, «che ogni anno un artista internazionale sia chiamato a svelare un nuovo punto di vista sullo spazio urbano del centro storico bresciano, grazie al dialogo tra le opere selezionate e create per l’occasione e i luoghi che le accoglieranno». Ruolo chiave nella scelta dell’artista per questo esordio e nella concretizzazione delle scelte lo ha poi avuto Luigi Di Corato, direttore di Brescia Musei. «Paladino», spiega, «ci è sembrato perfetto per la sua capacità di alimentare la storia trasformando i simboli della cultura figurativa del Mediterraneo, dagli archetipi al Novecento».

Per rendere possibile e sostenibile un’operazione comunque molto ambiziosa, è stata cruciale l’adesione della Brescia produttiva, che non solo ha sponsorizzato il progetto, ma che ha messo a volte il suo know how a disposizione per realizzare alcune delle opere, di notevole complessità, come i cinque grandi “Specchi ustori” che Paladino ha immaginato appositamente per lo spazio del Teatro Romano: sculture in ottone serigrafato e dipinto, di cinque metri di diametro. La città insomma ha fatto rete attorno a questa che in ogni senso ha il sapore di un’“Ouverture”, come dice il titolo scelto da Paladino: un’operazione modello di arte a destinazione larga, di arte “per tutti”, che non grava sui conti dell’amministrazione pubblica (sino all’8 gennaio; catalogo con campagna fotografica di Ferdinando Scianna e testo narrativo di Aldo Nove in corso di pubblicazione)

Paladino con Brescia ha un legame biografico particolare: qui nel febbraio 1976 aveva tenuto la sua prima personale alla galleria Nuovi Strumenti di Pietro Cavellini, una galleria molto attiva che in quegli anni esponeva, tra gli altri, artisti come Zorio, Parmiggiani, Anselmo. “Spirale, arco, ottagono, ruota”, era il titolo della mostra, ed è un titolo che evocando forme di geometrie archetipe, rivela un filo rosso di continuità con l’ambizioso ritorno di oggi. Altro legame è poi quello della comune matrice longobarda che unisce, pur nella grande distanza geografica, Brescia con Benevento, la città di origine dell’artista (che ancora ha il suo studio a Paduli, suo paese natale). È un’affinità storica che Paladino ha voluto sottolineare nel percorso, esponendo un’opera del 1998, la “Cattedra di San Barbato” in dialogo con la celebre “Croce di Desiderio”, uno dei gioielli del Museo di Santa Giulia. San Barbato fu il vescovo beneventano che nel VII secolo aveva portato i longobardi al cristianesimo; Desiderio a sua volta fu re degli stessi longobardi un secolo dopo. La Cattedra è un trono spartano, scevro da ogni retorica, quasi una reliquia che se ne sta appartata, più a far da spettatrice che in attesa di adoratori.
Paladino non è un artista calcolatore. È naturaliter prolifico e generoso.

A Brescia è arrivato portando oltre una settantina di opere, in gran parte sculture. Non ha però cercato palcoscenici; piuttosto, nel dialogo con Di Corato, è andato a insediarsi in gangli emblematici della città, facendone riemergere potenzialità e fascino. Emblematico, da questo punto di vista, l’intervento in Piazza Vittoria. Poteva essere un innesto rischioso, perché la piazza realizzata da Marcello Piacentini nel 1932, si prestava a scivolate declamatorie. Invece la riflessione con Di Corato ha portato a immaginare un insieme di innesti che funzionano da cuciture e da aperture di prospettive. Le sculture sono in molti casi posizionate su assi che propongono inediti canali prospettici in direzione della piazza: il “Cerchio” sull’asse verso Piazza Duomo; il grande Cavallo su quello verso la Stazione. Il “Sant’Elmo”, opera-feticcio tante volte proposta da Paladino, qui in versione in alluminio, dialoga con il pulpito mussolinano in pietra rosa e i relativi bassorilievi di Antonio Maraini: quasi un’operazione di disseppellimento critico di una memoria storica della città. L’intervento più delicato e mediaticamente più caldo è stato quello della grande “Stele” in marmo nero, sul plinto destinato al famigerato Bigio di Antonio Dazzi, rimosso nel 1946. L’opera è stata realizzata da Paladino ad hoc, quasi forzando la propria mano: ha rinunciato infatti alle forme arrotondate, misteriose ma cordiali, della sua scultura, per una scelta aggressiva, di tagli violenti, di volumi che si disputano lo spazio. È un’immagine che ha qualcosa di allarmante, quasi un richiamo, o un avvertimento, rispetto al rischio di un totalitarismo che non è stato affatto estirpato dalla storia.

Per scoprire come Paladino sappia emergere restando dietro le quinte bisogna spostarsi al Parco Archeologico. Qui tra le colonne del Capitolium ha portato i 20 “Testimoni” (opera del 2009) scolpiti nel tufo. Si presentano come delle sentinelle silenziose, custodi chiamati a tessere un colloquio tra il grande passato testimoniato da quei resti e il presente. Sono figure riservate, che stanno rispettosamente dentro lo spazio a uovo per loro concepito. Ma spiccano perché sanno instaurare una relazione immediata con ciò che li circonda e soprattutto con chi si affaccia all’area. Verrebbe da dire che con quella pietra porosa e“tiepida” di cui sono fatti reimmettano un calore di vita tra quei resti di un lontano passato.

Come spiega Di Corato, il criterio di “Ouverture” – criterio condiviso pienamente con Paladino – è stato quello di un investimento sul patrimonio: le sculture funzionano come leve per restituire una centralità strategica ai reperti con i quali sono messe in dialogo. Così il risultato è duplice: si rispetta ed esalta la natura dell’opera paladiniana e si restituisce attrattività culturale ed emotiva al patrimonio. Per questo si è scelto come epicentro del percorso il Museo di Santa Giulia, il museo della città, straordinario scrigno a strati che affonda nella storia di Brescia: qui Paladino è presente con una trentina di opere, ciascuna chiamata a cucire un dialogo, libero e aperto, con gli spazi o i singoli reperti del Museo. Dialoghi che a volte risentono delle cesure del tempo, come accade nella cappella di Sant’Obizio. Qui, davanti al gigante tenero dipinto dal magnifico Romanino, spunta invece una creatura un po’ algida e lunare di Paladino, che sembra essersi però voluta sporcare con i colori dell’affresco (è di bronzo dipinto). Un inatteso teatrino, cordiale e surreale che accende di imprevisti anche questo angolo della chiesa di San Salvatore.

Written by gfrangi

Giugno 5th, 2017 at 12:08 pm