Questo articolo è apparso su Alias del 16 giugno
Appena si sale la prima rampa di scale della Torre ci viene lanciato un avvertimento: sul pianerottolo la mostra inizia con un quadro intitolato “La minaccia”. È una tela di dimensioni non grandi rispetto a quelle abituali di Neo Rauch, ma è un concentrato dei motivi della sua pittura. Una folla di personaggi impegnati in riti strani e anche un po’ ambigui, un paesaggio con cielo color pece, e una torre in omaggio al luogo della mostra, che però è come una fusoliera cieca puntata verso il cielo. E poi c’è quel titolo, che ci allerta: la pittura è un esercizio che ha in sé un’energia intimidatoria.
Neo Rauch, indiscussa star della Neue Leipziger Schule, arriva in Italia, con un progetto espositivo che lo vede in coppia con la moglie Rosa Loy. La sede è tutta nuova, pur se molto antica: è il Torrione di Vicenza, resto di quello che fu il “castello”, residenza trecentesca di Ezzelino da Romano. Era inserito nella cinta urbana della città in funzione difensiva ed è rimasto integro nonostante i grandi rivolgimenti che nei secoli hanno trasformato il volto della città palladiana. Lo si riconosce sullo sfondo di quel dolce capolavoro che è la Pala Martinengo dipinta dal vecchio Giovanni Bellini: allineati, nella meravigliosa veduta urbana che fa da sfondo alla “Vesperbild” del maestro veneziano, si riconoscono la Basilica, il Duomo con la sua facciata ricamata e appunto il Torrione con la sua mole possente. Nel 2017 un industriale vicentino, appassionato collezionista, Antonio Coppola, lo ha rilevato e restaurato, donandolo poi al Comune con la condizione di poterlo usare per 30 anni per proporre mostre di arte contemporanea: una scelta di grande coraggio e di sicuro valore pubblico e civile.
L’inizio della nuova vita del Torrione è stato dunque un inizio con il botto. Neo Rauch è infatti uno degli artisti più ricercati della scena contemporanea, ha valutazioni stellari. Il suo enorme studio della Spinnerai, un’ex fabbrica di tessuti a Lipsia, è meta di pellegrinaggi da parte di direttori di musei, collezionisti e galleristi da tutto il mondo. Su di lui è stato prodotto anche un documentario, tutto da vedere, girato da Nicola Graef, curatrice e videomaker. Certamente la vita di Neo Rauch è stata profondamente segnata dalla precocissima morte dei suoi genitori, vittime di un incidente ferroviario quando lui aveva appena tre mesi e loro poco più di 20 anni. Il padre era lui stesso pittore e infatti in una scena del film vediamo Neo Rauch mostrare i suoi disegni, parlandone con ammirazione. «Era un grande artista», dice con un accento di tenerezza. Era il 1960: l’anno dopo, la costruzione del muro di Berlino avrebbe segnato un altro trauma nella biografia di Rauch, che viveva con i nonni in un paesino al di là della cortina di ferro. La parabola si sarebbe chiusa nel 1989: Rauch finisce infatti l’accademia proprio nell’anno della cadutao il muro. All’accademia di Lipsia però aveva avuto la fortuna di incontrare due grandi maestri come Arno Rink e Bernhard Heisig, capaci di proporre una pittura che faceva esplodere la gabbia del realismo socialista. Come ha scritto Ivan Quaroni, curatore e profondo conoscitore di quell’esperienza «la caratteristica principale dell’Accademia di Lipsia fu il carattere squisitamente tecnico degli insegnamenti. Il formalismo garantiva infatti, una minore sorveglianza da parte delle autorità e, allo stesso tempo, consentiva di sviluppare una pittura che nascondeva allusioni politiche sotto il velame dei temi artistici e mitologici».
Rauch da quell’esperienza ha incamerato una maestria tecnica impeccabile e un immaginario capace di sovrapporre e incrociare epoche e mondi diversi. Come scrive Davide Ferri nella nota introduttiva alla mostra, «ogni dipinto di Neo Rauch è basato sull’incontro e sulla giustapposizione (e infine sul collasso) di motivi e nuclei narrativi differenti, con figure che possono sdoppiarsi e moltiplicarsi all’interno della stessa immagine».
A Vicenza l’artista di Lipsia arriva con lavori nuovi, in buona parte immaginati per l’occasione come dimostra il motivo della torre che ricorre in tante opere esposte. È un motivo che torna ad esempio in un quadro nel quale si possono riscontrare risonanze autobiografiche, “Il mestiere del padre”. In uno scenario da periferia urbana, sotto un cielo da crepuscolo cosmico, si vede al centro un uomo che tira per il braccio il suo bambino. In primo piano compare il volto di colui che sta sembra aver avuto questa visione. Forse Rauch stesso. Impossibile però non restare colpiti dal brano di pittura nella parte bassa della tela: un “decalage” magistrale di bianchi e azzurri stesi come se fossero nuvole di aria colorata. Difficile spiegarne la ragione, ma quel se ne ricava con certezza è l’irresistibile piacere di Rauch per il dipingere. Un piacere che deve però fare i conti con l’assedio di ossessioni, che chiedono alla pittura stessa di venire liberate e travasate in immagini. Sono depositi di un inconscio personale ma anche collettivo, visioni che vengono a galla, come lui dice «camminando mescolate e senza una direzione». È un “non senso” che poco alla volta irretisce e conquista, come se ci si trovasse calati dentro storie sconosciute e in un tempo indecifrabile, ma che comunque ci appartiene. Non c’è mai una narrazione organica nelle opere di Rauch: la coerenza viene sempre cercata su un altro piano, quello garantito dall’energia visionaria che sviluppa trame insieme ironiche, allusive e potenti. Certo, alla fine ciò che affascina in Rauch è quella forza primigenia che contrassegna la sua pittura: conferma della capacità imprevedibile della pittura stessa nel crearsi nuovi spazi, di dar vita a partiture mai immaginate e davvero difficili da classificare. La presenza di Rauch a Vicenza è accompagnata da quella delle opere della moglie, Rosa Loy, anche lei uscita dalla scuola di Lipsia. È evidente nel rapporto tra loro funzionino contaminazioni e scambi continui. Rosa Loy però si stacca perché la sua è una pittura che sembra fare volutamente da contraltare all’orizzonte accentuatamente maschilista della pittura tedesca. Dipinge usando la caseina, una vernice derivata dalla proteina del latte che consente una rapida essiccazione del colore. Così, pur nella spigolosità spregiudicata di tanti soggetti che hanno risonanze “balthusiane”, la sua pittura mostra una velocità e una freschezza che appare complementare alla natura molto densa, potente e visionaria del marito. Nelle diversità e nelle affinità l’abbinata dimostra di funzionare.