Robe da chiodi

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Dürer, la grandezza nel dettaglio

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Dürer, Ritratto a 13 anni

Questa recensione della mostra sui disegni di Albrecht Dürer all’albertina di Vienna è uscita su Alias di sabato 29 dicembre.

Quando il 6 aprile 1528 Albrecht Dürer morì nella sua Norimberga non lasciò nulla al caso. Nello studio centinaia di disegni e incisioni erano raccolte e schedate meticolosamente, pronte per essere gestite dalla moglie Agnes Frey, donna spigolosa che era stata a fianco dell’artista per tutta la vita, senza riuscire a dargli un erede. Così intorno al 1550 una parte consistente di quel patrimonio venne acquisito “a pacchetto” da un commerciante della città, Willibad Imhoff. Quello stesso patrimonio poi passò compatto nelle collezioni di Rodolfo II a Praga, per arrivare a Vienna alla corte degli Asburgo ed entrare infine, nel 1796, all’Albertina per volontà del suo fondatore Alberto di Sassonia. La premessa è necessaria per capire come sia possibile realizzare una mostra come quella che l’Albertina stessa ha proposto in questi mesi dedicata proprio al cantiere di lavoro di Albrecht Dürer: sono esposti 100 dei 140 tra disegni ed acquarelli delle raccolte, insieme a decine di prestiti arrivati da grandi istituzioni di tutto il mondo. 

Il valore di questa mostra è quella di offrirsi come un’esplorazione puntigliosa dei meccanismi di produzione artistica che hanno caratterizzato la bottega del più grande e “globale” maestro del Rinascimento tedesco. Fin dai primi passi il percorso di Dürer si rivela impostato con decisione: ad un’incisione a bulino con un Autoritratto del padre orafo, Albrecht risponde con un “Autoritratto” a punta d’argento fatto a 13 anni. Il ragazzino ha già un aspetto saldamente consapevole e con il dito puntato sembra indicare il percorso a cui mira. Un percorso che non coincide con la professione del padre anche se dall’arte orafa incassa quella vocazione a mirare al dettaglio più infinitesimale. Trascorrono 10 anni ed ecco comparire Agnes, anzi “mein Agnes” come l’artista scrive sul foglio, questa volta disegnato a inchiostro: è il 1494, anno del matrimonio, per altro combinato dal padre durante l’assenza di Dürer per apprendistato presso Martin Schongauer a Colmar. È una moglie ragazzina e colpisce l’immediata intimità del rapporto, anche se il sodalizio prenderà poi un connotato più imprenditoriale che affettivo.

Dürer, Mein Agnes

Già nel 1495 fa esordire il celebre monogramma “AD” vero marchio di fabbrica con il quale tenta di proteggere le sue invenzioni. È un Dürer sistematico, concentrato nell’operatività quello messo in scena con questa mostra dell’Albertina. Nelle premesse Christof Metzger, curatore dell’Albertina, chiarisce di aver voluto tenersi fuori dalla celebre lettura panofskyana di Dürer che assegnava una centralità al motivo della malinconia. Infatti la mostra insiste coerentemente sull’indagine del “modus operandi” dell’artista, quasi a voler dimostrare come l’organizzazione del lavoro, macchina sempre perfettamente a regime, fosse speculare alla sua organizzazione mentale. L’eccezionale ricchezza dei materiali esposti certamente rende agevole e convincente questo approccio, nella doppia direzione in entrata e in uscita. In entrata quando vediamo Dürer applicarsi allo studio dei modelli altrui, come nel caso delle due celebri incisioni di Mantegna, Il “Baccanale con sileno”, e la “Zuffa di dei marini”. In mostra sono esposti fianco a fianco i prototipi e le repliche a disegno, realizzate nel 1494 in occasione del primo viaggio italiano. Dürer assimila il modello con fedeltà quasi scolastica, ma stempera inevitabilmente il segno arcigno e implacabile di Mantegna: la romanità per lui non è un’ossessione ma una delle tante opzioni nel ventaglio della sua produzione. Certamente di Mantegna gli interessa anche altro: cioè il suo modello produttivo di diffusione e moltiplicazione delle opere attraverso le incisioni.

Dürer, Zolla d’erba, dettaglio

Il metodo Dürer emerge con chiarezza nella sala che raccoglie i suoi studi di natura. La “Zolla d’erba“ o il “Ramo di Iris” nella loro iconicità iperrealista lasciano con il fiato sospeso. Precisione orafa e visionarietà si tengono insieme in questi studi che per Dürer funzionavano come fogli di presentazione del proprio lavoro ai committenti. Sono tessere di mondo naturale con una loro autonomia, dotate di troppa energia propria per immaginarli come studi per composizioni più complesse. I meravigliosi Iris (1503) realizzati ad acquarello, tutti in verticale, incollando tre fogli uno sopra l’altro, li ritroviamo usati in una grande tavola della Madonna della Rosa proveniente ialla National Gallery di Londra. Qui l’opera viene riferita ad Hans Baldung Green, e il motivo degli Iris preso pari pari dal modello di Dürer, nel complesso dell’opera sembra un po’ estraneo e fuori parametro per una sua costitutiva irriducibilità ad entrare in un conteso. Del resto nella stessa sala l’iconico Leprotto (1502), da sempre simbolo dell’Albertina (e in questa occasione gadgettizzato attraverso una scultura multiplo a grandezza naturale firmata da Ottmar Hörl), sconcerta per quel senso di vuoto pneumatico che lo circonda. La bestiolina abita il foglio bianco con quella sua posa in diagonale e l’ombra leggera proiettata sulla sua sinistra. L’approccio di Dürer non è quello del naturalista, ma semmai prelude allo sguardo di ghiaccio della nuova oggettività. L’oggetto rappresentato è solo uno straordinario pretesto per mettere a verifica la propria capacità di controllo del reale. Nell’occhietto del coniglio non a caso vediamo specchiarsi l’unico dato d’ambiente di questo capolavoro, così popolare e insieme così straniante: è la luce di una finestra, che è facile immaginare fosse quella dello studio dell’artista

Dürer, Il Leprotto, dettaglio

Quando Dürer arriva a Venezia in occasione del suo secondo viaggio italiano del 1506 si avverte però un mutamento di problematica interna al suo laboratorio. Il mutamento riguarda proprio la funzione degli studi che da questa data in poi sono per la gran parte preparatori per opere dipinte di grande ambizione. In mostra vengono ricostituiti alcuni insiemi, in particolare quello che riguarda il cantiere per il Gesù tra i dottori (1506), della Collezione Thyssen. I meravigliosi disegni preparatori sono realizzati sulla celebre carta azzurra veneziana, che lui stesso si faceva da sé non fidandosi delle partite che gli venivano vendute, in cui a volte l’indaco veniva mischiato e usato per mascherare dei difetti della carta. Ancora una volta Dürer mette il campo questi suoi approcci controllatissimi al reale, in particolare nella sequenza degli studi per le mani gesticolanti per il quadro finale. È una capacità di controllo di una tale intensità da creare problemi di tenuta nel momento in cui dagli studi passa all’opera stessa: non a caso il cantiere del quadro si rivelerà tormentato. E per quanto Dürer abbia tentato di zittire le malelingue scrivendo sul foglietto che sporge dal libro, “opus quinque dierum” (lavoro di cinque giorni), una volta tornato a Norimberga lo metterà nelle mani di Baldung Green per portarlo, con mestiere, a compimento. 

È una situazione che si ripete anche di fronte ad altre due opere celebri messe in mostra con tanto di studi preparatori: l’Adorazione dei Pastori (1504) degli Uffizi e la “Madonna del Rosario” (1506)  dalla Narodni Gallery di Praga. Anche in questi casi la complessità della macchina compositiva rivela un affanno rispetto all’esattezza esecutiva e mentale degli studi preparatori. La pittura si fa paradossalmente liquida, rispetto alla sicurezza ferrea dei disegni. In sostanza il risultato della mostra viennese finisce con l’essere una conferma della assoluta centralità, per quanto riguarda l’opera di Dürer, di quello straordinario patrimonio custodito nei propri forzieri.  

Written by gfrangi

Gennaio 22nd, 2020 at 11:15 am

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Richard Gerstl, meteora senza patria

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Questa recensione della mostra dedicata a Richard Gerstl al Leopol Museum di Vienna è stata pubblicata su Alias domenica 15 dicembre, con il titolo “Il suo pennello psichico”.

Inizia giustamente dalla fine la mostra che il Leopold Museum ha dedicato a quel genio-meteora che è stato Richard Gerstl. Siamo nell’estate 1908. L’artista 25enne per la seconda estate è in vacanza a Gmuden, sul lago Traunsee, invitato dalla famiglia Schönberg, Arnold e la moglie Mathilde con i due bambini, Trudi e George. Si erano conosciuti due anni prima, quando Gerstl era stato chiamato a far lezioni di pittura ai due coniugi. Si era stabilita subito un’intesa profonda, originata anche dalla comune passione per la musica. Ma i due erano legati anche da un’affinità anche temperamentale, che li portava a condividere esperienze di vera frenesia creativa. In quell’estate del 1908 Schoenberg con “String Quartet n. 2” si era avventurato per la prima volta fuori dalle regole del sistema tonale.  Gerstl da parte sua nelle stesse settimane realizzava il “Ritratto della famiglia Schönberg” (in realtà famiglia allargata): un grande quadro incandescente, dipinto con un accanimento febbrile, su un fondo giallo che sembra forare la retina. La tela balza fuori dalla parete dipinta di blu del Leopold, con quel suo concentrato di energia psichica che detta anche le modalità della stesura pittorica. Gerstl lavora con pennello, spatola e anche con le dita, usa smalti, arriccia la pittura, la lascia rigonfiare oppure la graffia quasi ci mettesse dentro le unghie; a tratti la stende con impeto, a tratti la incide con tocchi da bisturi. Su questo universo di pittura concitata s’affacciano le sei figure, o meglio le sei anime che ci guardano dalla soglia di un altrove.

È un momento di grandi turbolenze per le biografie dei personaggi coinvolti in quest’opera abbacinante. Gerstl infatti aveva allacciato una relazione sentimentale con Mathilde, la moglie dell’amico. Il 26 agosto Arnold li aveva sorpresi in flagrante e i due erano scappati a Vienna per una breve avventura. Ma Schönberg alla fine aveva convinto la moglie a tornare in famiglia, per il bene dei figli. Alla luce di questi fatti (che avrebbero portato al suicidio dell’artista, avvenuto il 4 novembre di quello stesso anno), il “Ritratto della famiglia Schönberg” sembra davvero affacciarsi su una soglia misteriosa, che è un crocevia del destino.

La famiglia Schönberg, 1908

Immaginare un’opera così datata 1908 lascia anche spiazzati per la sua incollocabilità: certamente ha poco a che vedere con quel che stava affermandosi a Vienna in quegli anni (il fratello Alois aveva rivelato che Gerstl si era rifiutato di esporre a fianco di Klimt). E non regge neppure l’ipotesi di un’affiliazione alla famiglia espressionista, perché il radicalismo della sua pittura è tutta di natura psichica e introspettiva.

La mostra di Vienna comincia dalla fine, in quanto la fine ha segnato profondamente tutta la vicenda critica di Gerstl. Infatti all’indomani del suicidio i suoi due fratelli avevano raccolto tutte le opere trovate nello studio depositandole in un magazzino. La vicenda con Schönberg aveva gettato uno stigma sull’artista: un’ipotesi di mostra dei suoi lavori era stata ritenuta rischiosa e sconveniente dallo stesso Heinrich Lefler, un professore che aveva preso Gerstl sotto le sue ali dopo le complicate vicende vissute in Accademia. Il suo lavoro venne in un certo senso sepolto insieme a lui. Solo nel 1931, cioè ben 23 anni dopo, il fratello Alois si decise a portare un piccolo quadro con un paesaggio a un gallerista di Vienna, Otto Kallir. Kallir volle subito esaminare il magazzino, comperò 34 opere e le espose nella sua Neue Galerie. Per pubblico e critica fu una vera rivelazione: “Un Van Gogh austriaco” era stato il titolo del Neues Wiener Journal. Ma l’eco della mostra andò ben oltre i confini dell’Austria. Venne infatti portata in Germania, a Monaco e a Berlino. La sfortuna però ancora una volta si accaniva sul destino critico di Gerstl. Il 1931 è infatti l’anno della salita al potere di Hitler: Kallir, il cui vero nome era Nirenstein, era ebreo, decise di vendere la galleria ed emigrare in America. Su Gerstl calava di nuovo il silenzio fino al 1965, quando a Vienna venne organizzata una sua grande retrospettiva nel palazzo della Secessione: il tentativo di Otto Kallir di portarla in America (dove nel frattempo era stato sancito il successo di Schiele) si scontrò però con la volontà contraria del presidente della Secessione. Sembrava quasi un accanimento postumo. Nel frattempo però due collezionisti, Fritz Kamm, svizzero, e Rudolph Leopold, viennese, avevano rastrellato gran parte del magrissimo catalogo di Gerstl (solo 69 quadri sono arrivati a noi, più un numero ridotto di disegni): oggi le due raccolte sono finite rispettivamente alla Kunsthaus di Zug e al Leopold Museum di Vienna.

Forse per riscattare questo complicato destino, la mostra organizzata dallo stesso Leopold (fino al 20 gennaio; poi si sposterà poi a Zurigo) è stata concepita come un risarcimento: la quasi totalità delle opere di Gerstl sono state messe in parallelo con alcuni suoi contemporanei (Munch, Bonnard e Vuillard in particolare) o in relazione con chi si è riconosciuto debitore nei suoi confronti (Bacon e Arnulf Rainer e tanti altri). La scelta crea un effetto di confusione, anche perché il percorso di Gerstl è un percorso costitutivamente non lineare; la sua cronologia è fitta di punti interrogativi e forse un criterio più filologico sarebbe stato più utile e interessante.

La natura della pittura di Gerstl infatti è disallineata rispetto a quella degli altri protagonisti di quell’inizio secolo viennese. Se Klimt e Schiele (ma anche Kokoschka) avevano un’identità stilistica a volte anche implacabilmente precisa (con tanto di veri e propri tic…), il profilo di Gerstl invece è un profilo stilisticamente molto mobile.

È del 1905 ad esempio il “Ritratto delle sorelle Karoline e Pauline Frey”, un grande quadro fantasmatico, dove la nuvola bianca della veste allaccia le protagoniste come fossero anime siamesi; la materia è magra, come spazzata via dal passaggio del tempo; al centro i due volti pallidi, con gli occhi che perforano quel grande vuoto presagio di tempesta. Al contrario, la stupenda sequenza di paesaggi dipinti nell’estate del 1907 a Gmuden e dintorni, sono soprassalti di felicità pittorica, con pennellate gonfie, dense che vanno golosamente a occupare tutto lo spazio della tela. È naturalismo solo apparente perché l’obiettivo di Gerstl è sempre quello di intrappolare la luce, e i colori che la luce accende, per fare del quadro un evento carico di energia psichica.

Autoritratto nudo, 1908

La pittura per Gerstl è innanzitutto strumento per spingersi dentro il mistero del suo proprio destino. Lo dimostra la serie meravigliosa e anche iconica degli autoritratti che puntellano tutto il percorso della mostra. Anche in questi casi ogni volta l’artista conferma di mantenersi libero da vincoli di coerenza stilistica. Così ci appare, in un’opera del 1905, come uno scabro fantasma strindberghiano, nudo con un lenzuolo bianco che gli avvolge le gambe, sulla soglia di uno spazio blu, quasi un lago destinato a richiudersi su di lui. Oppure lo vediamo scatenarsi in una risata, quasi un Frans Hals redivivo: e la materia sta al passo, fremendo in questa convulsione un po’ sopra le righe. Nel 1908, il 12 settembre, nel pieno della tempesta sentimentale, dipinge l’“Autoritratto nudo”. Qui Gerstl si presenta magro ma quasi spavaldo; parallelamente libera la pittura e la lascia scatenarsi in una prova di grande energia e intensità gestuale. Il blu questa volta non è più superficie muta e compatta, ma è tutto scheggiato e sarcasticamente graffiato con decorazioni di stampo klimtiano. Non si direbbe davvero di avere davanti un artista alla vigilia della resa…

Written by gfrangi

Dicembre 18th, 2019 at 2:26 pm